Corte di Cassazione sentenza n. 2123 depositata il 29 gennaio 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – MALATTIA PROFESSIONALE – TIROIDITE CRONICA AUTOIMMUNE CON IPOTIROIDISMO SUBCLINICO – SOSTANZE IODATE – PERIZIA CTU – NON SUSSISTE
FATTO
1. Con sentenza del 18 giugno 2012 la Corte di Appello di Milano ha respinto l’appello proposto da S.DC. nei confronti di B. Spa e B. R. E. Spa avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno ex art. 2087 c.c. in relazione ad una “tiroidite cronica autoimmune con ipotiroidismo subclinico” asseritamente contratta a causa della esposizione allo iodio durante il rapporto di lavoro con dette società.
La Corte territoriale, espletata istruttoria in grado di appello, ha ritenuto l’infondatezza della domanda attorea sulla scorta di una consulenza tecnica d’ufficio che ha escluso “vi possa essere stata relazione causale tra la non rilevante esposizione alle uniche sostanze iodate presenti nelle lavorazioni effettuate dal S.DC. e la malattia” nonché una condotta colposa o inadempiente da parte delle datrici di lavoro.
2. Per la cassazione di tale sentenza ricorre S.DC. con quattro motivi. Resistono con unico controricorso entrambe le società, depositando altresì memoria ex art. 378 c.p.c.
DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., “violazione/falsa applicazione art. 2087 c.c.”, assumendo che il giudice del merito avrebbe omesso di considerare se il datore di lavoro avesse dato prova di aver posto in atto tutte le misure possibili idonee ad evitare il danno.
Con il secondo motivo si denuncia “omessa e/o carente motivazione in punto di responsabilità datoriale” per non essersi espressa la sentenza impugnata circa la regolarità della condotta datoriale nel non aver adibito il lavoratore ad altre mansioni nonostante una diagnosi effettuata dal medico del lavoro aziendale nel luglio del 1986.
Con il terzo motivo si lamenta ancora “carente motivazione in punto di valutazione della condotta datoriale” per non avere il giudice del merito “approfondito” il tema riguardante l’adozione, da parte del datore di lavoro, di idonei dispositivi per la sicurezza ambientale sul luogo di lavoro.
Con il quarto motivo, sempre ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., si denuncia “difetto di motivazione circa l’esistenza del nesso causale e della colpa nella condotta datoriale” per avere la Corte di Appello tratto il convincimento “che la quantità di iodio presente nell’aria, nei reparti lavorativi in questione, era nettamente inferiore a quella massima consentita”, sulla base della stessa documentazione prodotta dalla datrice di lavoro “consistente nei risultati di analisi dalla stessa effettuati”.
2. Il ricorso non può trovare accoglimento in quanto tutti i motivi, che possono essere trattati congiuntamente, tendono nella sostanza, anche il primo che solo formalmente invoca una violazione e falsa applicazione di legge, ad una rivalutazione del materiale probatorio circa la sussistenza di fatti, quali il nesso causale tra malattia e prestazione di lavoro nonché l’esistenza di una condotta datoriale inadempiente in violazione dell’art. 2087 c.c..
Invero il nesso causale è stato escluso dalla consulenza tecnica d’ufficio espletata in grado d’appello e la Corte milanese, con motivazione sufficientemente supportata, ha ritenuto, esaminando le risultanze istruttorie, che non vi fossero “ragioni per poter affermare l’inadempienza della società, proprio in ragione della peculiare eziologia della malattia e della condotta tenuta dalla società”.
Come noto il vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie.
Per conseguenza, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima a mente della formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. prò tempore vigente, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibili tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; al contempo deve osservarsi che il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza – nonché di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti – spetta in via esclusiva al giudice del merito; ne deriva che le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata.
Infine va considerato che, affinché la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.
Nel caso in esame la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente e immune da contraddizioni e vizi logici emergenti dalla sentenza stessa; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio, anche di derivazione peritale, del tutto ragionevole e che, pur non escludendo la possibilità di altre scelte interpretative anch’esse ragionevoli, è espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio (cfr., ex plurimis, Cass., n. 7123 del 2014).
Invero, in tema di ricorso per cassazione, il ricorrente che denunci, quale vizio di motivazione, l’insufficiente giustificazione logica dell’apprezzamento dei fatti della controversia o delle prove, non può limitarsi prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur in possibile o probabile corrispondenza alla realtà fattuale, poiché è necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l’unica possibile (cfr. Cass. n. 25927 del 2015).
Invece parte ricorrente, lungi dal denunciare una totale obliterazione di un “fatto controverso e decisivo” che, ove valutato, avrebbe condotto, con criterio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, si è limitata, attraverso un riesame delle risultanze istruttorie, a far valere la non rispondenza delle valutazioni operate dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato dalla parte, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti.
Tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c..
Sicché tutte le doglianze contenute in ciascuno dei motivi si traducono, in definitiva, nell’invocata revisione delle valutazioni e dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova pronuncia sul fatto, non concessa perché del tutto estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.
3. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con condanna del soccombente al pagamento delle spese liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.700,00, di cui euro 200 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.