CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 24901 depositata il 21 agosto 2023
Tributi – Avviso di accertamento – Maggiore imponibile – IRPEF – IRAP – IVA – Recupero dei ricavi di vecchie lire – Cessazione impresa individuale – Conferimento dell’azienda nella società di capitali – Soggetto giuridico originario – Trasferimento a titolo particolare – Trasformazione – Ripartizione onere della prova – Diritto alla detrazione IVA – Deducibilità dal reddito d’impresa – Regolarità delle scritture contabili – Accoglimento
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Taormina, aveva notificato a R.G., esercente l’attività di servizi di pulizia, l’avviso di accertamento n. (…), con cui, all’esito della verifica fiscale operata dalla Guardia di Finanza di cui al p.v.c. del 20 dicembre 2001, aveva proceduto alla rettifica analitica del reddito d’impresa per l’anno d’imposta 1999, ai sensi dell’art. 39, comma 1, del D.P.R. n. 600/73 e aveva rideterminato un maggiore imponibile ai fini IRPEF e IRAP, ai sensi dell’art. 41bis del d.p.r. n. 600/73 ed un maggiore imponibile IVA, ai sensi dell’art. 54 del d.p.r. n. 633/72.
2. La Commissione tributaria provinciale di Messina, con sentenza n. 380/09/06, emessa il 4 maggio 2006, aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dalla contribuente ed aveva annullato l’avviso di accertamento nella parte riguardante il recupero dei ricavi di vecchie lire 630.000.000 (riguardante prestazioni già fatturate nel 1999 e mai incassate per un contenzioso sorto con l’Azienda Ospedaliera, per cui si era reso necessario annullare la partita con le note di credito), compensando le spese del giudizio.
3. La Commissione tributaria regionale, adita con appello principale dell’Agenzia delle Entrate e con appello incidentale dalla società (…) s.r.l., già ditta individuale (…) di R.G., che aveva eccepito preliminarmente l’inammissibilità dell’appello in quanto notificato alla ditta individuale cessata nell’ottobre 2006, ha accolto il gravame principale, rigettando quello incidentale, e, in riforma della sentenza impugnata, ha confermato l’avviso di accertamento.
4. I giudici di secondo grado, in particolare, hanno affermato che:
-) il recupero effettuato dall’Ufficio della somma di vecchie lire 630.000.000 era legittimo, in quanto erano insussistenti le condizioni legittimanti l’emissione delle note di credito, poiché la variazione operata dalle note di credito emesse non derivava dalla rilevazione di inesattezze o da accordi sopravvenuti, ma era conseguenza del contenzioso sorto tra il ricorrente ed il suo cliente, al cui esito poteva essere rilevata l’eventuale variazione dell’imponibile, a nulla rilevando l’aspetto finanziario della vicenda; inoltre, dal controllo incrociato effettuato dall’Amministrazione finanziaria era emerso che le fatture e le note di credito non erano mai state consegnate all’Ente ospedaliero e che la ricorrente non aveva mai rinunciato al credito vantato avendo ancora in corso il contenzioso;
-) l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate era ammissibile, in quanto si era verificato il trasferimento a titolo particolare del diritto controverso, considerato altresì, che la (…) s.r.l aveva proposto appello incidentale e che la procura per proporre appello era stata rilasciata per conto della società dal medesimo soggetto ( R.G.) titolare della ditta individuale;
-) era infondato il motivo relativo al vizio del procedimento di accertamento per la permanenza dei verificatori presso la sede della ditta oltre i termini previsti dalla legge, in quanto il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente era meramente ordinatorio e nessuna disposizione lo aveva dichiarato perentorio o aveva stabilito la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso; né la nullità di tali atti poteva ricavarsi dalla “ratio” delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione;
-) l’avviso di accertamento, motivato con il rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza, non era illegittimo per la mancanza di una autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, aveva inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si trattava di elementi già noti al contribuente, non arrecava alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio; -) la contestazione sul mancato riconoscimento in deduzione di costi non idoneamente documentati, di costi non inerenti, di costi dedotti in misura superiore a quella spettante e di costi riconducibili a operazioni inesistenti era infondata, in quanto dal processo verbale della Guardia di Finanza relativo alla ditta verificata ed ai processi verbali relativi ai controlli incrociati eseguiti presso i fornitori ((…) ((…)), (…) di (…), (…) s.r.l. di (…) ed altri), che facevano piena prova, fino a querela di falso, era emerso inequivocabilmente che i costi in questione non possedevano i richiamati requisiti, né il contribuente, a cui incombeva l’onere, era stato in grado di fornire i supporti documentali necessari;
-) era, dunque, legittimo l’operato dell’A.F., che aveva ritenuto nel suo accertamento che le fatture contestate difettavano del requisito della certezza del costo e, quindi, della loro inerenza e competenza e che, pertanto, gli importi di tali fatture non potevano essere portate a costo dalla società ricorrente, così come non era detraibile l’IVA inerente;
5. R.G. ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a quattro motivi.
6. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
7. La società (…) s.r.l. non ha svolto difese.
8. Con ordinanza interlocutoria n. 3110, depositata in data 1 febbraio 2023, il Collegio, ritenuto che non ricorrevano le ipotesi previste dall’art. 375, comma 1, nn. 1 e 5, c.p.c., ha rimesso la causa alla pubblica udienza.
9. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, il rigetto del primo e l’inammissibilità del secondo e del terzo.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si lamenta la violazione dell’art. 164 c.p.c. e dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Commissione tributaria regionale aveva violato l’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, il quale sanzionava con l’inammissibilità dell’appello l’errata identificazione del soggetto destinatario della “vocatio in ius”; il soggetto che si era costituito nel giudizio di appello era distinto dall’originario contribuente, con conseguente insanabilità del vizio della “vocatio in ius”; doveva, dunque, censurarsi il ragionamento compiuto dal Giudice del gravame, il quale, nel rigettare l’eccezione di inammissibilità dell’appello promosso dall’Ufficio, aveva ritenuto sanato ogni possibile vizio in ragione della costituzione della (…) s.r.l., solo perché rappresentata da R.G..
1.1 Il motivo è infondato.
1.2 Deve premettersi che il giudizio di primo grado si è svolto nei confronti di R.G., titolare dell’omonima impresa individuale e nei suoi confronti è avvenuta la notificazione dell’atto di appello, dopo l’intervenuta cessazione, a far data dall’ottobre 2006, dell’impresa individuale (…) di R.G., conferita nella società (…) s.r.l..
1.3 Secondo la giurisprudenza di questa Corte il successore a titolo particolare nel diritto controverso non è terzo ma parte, essendo l’effettivo titolare della res litigiosa che costituisce l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale (proprietà, diritto reale limitato, diritto di credito); quindi il successore, il cui intervento nel processo è regolato dall’art. 111 c.p.c., può svolgere tutte le attività processuali consentite al suo dante causa ed ha il potere autonomo di impugnare la sentenza pronunciata nei confronti di quest’ultimo o di resistere all’impugnazione ex adverso proposta contro la medesima sentenza, senza che rilevi il suo mancato intervento nelle fasi pregresse del giudizio, fermo restando il litisconsorzio necessario tra dante causa (che non sia stato estromesso) e successore a titolo particolare (Cass. 27 febbraio 2002, n. 2889, in motivazione; Cass. 30 gennaio 1997, n. 965).
1.4 Questa Corte ha ritenuto, in particolare, che il passaggio dalla forma della impresa individuale a quella della società per la continuazione di una attività commerciale non comporta, né implica l’estinzione del soggetto giuridico originario, quale si ha, invece, nella successione (in universum ius) di altro soggetto alla persona fisica o giuridica estintasi ed i cui effetti nel processo sono regolati dall’art. 110 c.p.c. nel senso che il processo è necessariamente proseguito dal successore universale o in suo confronto, a differenza di quanto accade nel trasferimento del diritto controverso inter vivos ed a titolo particolare, che avvenga nel corso del processo, nel qual caso il processo prosegue fra le parti originarie, ma il successore può intervenire o essere chiamato nel processo e la sentenza spiega i suoi effetti anche contro di lui, quale avente causa della parte ed egli stesso può impugnarla (art. 111 c.p.c. e 2090 cod. civ). Non può, dunque, affermarsi che per effetto del conferimento dell’azienda nella società a r.l., quest’ultima si sostituisca “ipso iure” al conferente nel rapporto controverso per il carattere globale ed unitario della cessione avente ad oggetto una “universitas rerum”, dovendo trovare applicazione il consolidato indirizzo della giurisprudenza della Corte secondo cui il trasferimento del diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, verificatosi nel corso del processo, non incide sul rapporto processuale che continua a svolgersi tra le parti originarie, senza che l’intervento nel processo del successore a titolo particolare, determini, in mancanza dell’esplicito concorde consenso di tutte le parti e del relativo provvedimento giudiziale, la estromissione del dante causa. Pertanto la parte appellante deve convenire in giudizio il suo dante causa che non sia stato estromesso, il quale conserva la veste del litisconsorte necessario anche nel giudizio d’appello agli effetti dell’art. 331 c.p.c. con la conseguenza che il difetto di integrità del contraddittorio dovuto alla di lui mancata partecipazione a quel giudizio è rilevabile anche d’ufficio in sede di legittimità e la causa deve essere rimessa al giudice d’appello per l’eliminazione del vizio (Cass. 19 marzo 1991, n. 2928, in motivazione)
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha anche stabilito che “la “trasformazione” di un’impresa individuale in una società di capitali non è riconducibile alla trasformazione societaria, in quanto uno dei termini del rapporto è estraneo all’ambito delle società, trattandosi, invece, di un trasferimento a titolo particolare, nelle forme del conferimento o della cessione di un diritto dell’imprenditore individuale all’impresa collettiva per atto tra vivi, atteso che l’estinzione dell’impresa individuale non costituisce il presupposto del trasferimento stesso” (Cass. 13 settembre 2016, n. 17959; Cass. 2 luglio 2013, n. 16556). Specificamente, la trasformazione di una ditta individuale in società di capitali non concretizza il fenomeno previsto dall’art. 2848 c.c. di mutamento formale di un’organizzazione societaria già esistente, con la mera modificazione dell’atto costitutivo senza la creazione di un nuovo soggetto distinto da quello preesistente (cfr. Cass. 21 giugno 1979, n. 3480; Cass. 14 gennaio 1982, n. 198; Cass. 10 marzo 1990, n. 1963); in relazione a tale vicenda è invece configurabile un’ipotesi di successione a titolo particolare regolata dall’art. 111 c.p.c. (Cass. 27 febbraio 2002, n. 2889; Cass. 6 novembre 1992, n. 1038; Cass. 19 marzo 1991, n. 2928).
Inoltre questa Corte ha pure affermato che “La “trasformazione”, nel corso del processo, di una impresa individuale in una società di capitali può dare luogo a successione nel rapporto controverso, ma l’esercizio, da parte della società di capitali, del diritto di impugnare la sentenza pronunciata contro la ditta individuale è pur sempre condizionato al fatto che la situazione sostanziale, da cui discende la legittimazione processuale, ove non desumibile dalla sentenza impugnata, sia allegata e dimostrata; ciò a pena di inammissibilità della impugnazione, essendo questione di ordine pubblico del processo la virtualità della costituzione del rapporto processuale” (Cass. 4 luglio 2006, n. 15264; Cass. 18 settembre 2008, n. 23756; Cass. 2 luglio 2013, n. 16556, citata).
1.5 In particolare, nella sentenza sopra richiamata, la n. 15264 del 2006, la Suprema Corte ha ritenuto che fosse stato dimostrato il verificarsi del trasferimento a titolo particolare per atto tra vivi del diritto controverso, atteso che la procura speciale per proporre ricorso per cassazione figurava rilasciata per conto della società dal medesimo soggetto titolare della ditta individuale, ciò che è quanto affermato, nella vicenda in esame, dai giudici di secondo grado nella sentenza impugnata.
1.6 Anche di recente, le Sezioni Unite di questa Corte, nell’esaminare la questione relativa alle modificazioni che possono interessare il soggetto collettivo e la sua attività, pur nella permanenza dei soci e dell’intrapresa economica sul mercato e riferendosi, in particolare, a quelle varie operazioni che, usualmente di competenza dell’assemblea straordinaria, ma a volte anche degli amministratori, comportano un profilo di riorganizzazione dell’impresa e, dunque, ricevono una disciplina specifica, atta a renderla giuridicamente più agile ed economicamente meno onerosa, riducendo i costi di transazione, hanno richiamato “la cessione e l’affitto di azienda o di ramo d’azienda”, specificando che si tratta di operazioni dove “muta il gestore della stessa, senza modificazione né soggettiva del concedente, né oggettiva dell’azienda come universitas facti, quale complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.), arrestandosi l’efficacia della vicenda modificativa al solo trasferimento della proprietà o godimento dell’azienda (art. 2556 c.c.)” e che “la cessione di azienda e’, del pari, evento che non tocca l’identità soggettiva del cedente e del cessionario, provvedendo gli art. 2558 ss. c.c. unicamente a regolamentare il subentro nei contratti, diritti ed obblighi aziendali e fermo restando, sul piano processuale, il regime della successione a titolo particolare nel diritto controverso, laddove ne ricorrano gli estremi: come tale, essa è presupposta nelle pronunce rese in materia (per tutte, Cass.., sez. un., 28 febbraio 2017, n. 5054; v., fra le altre, Cass. 10 dicembre 2019, n. 32134)”. (Cass., sez. un., 30 luglio 2021, n. 21970).
Le stesse Sezioni Unite, poi, affrontando la vicenda societaria della “trasformazione” hanno rappresentato che “Nella trasformazione – ove il cambiamento organizzativo è più intenso, trattandosi di modificare il tipo sociale o, addirittura, di trascorrere da una struttura societaria ad un’altra che non sia tale, e viceversa – resta che l’operazione comporta soltanto il mutamento formale dell’organizzazione societaria già esistente, non la creazione di un nuovo ente che si distingue dal vecchio, sicché l’ente trasformato, quand’anche consegua la personalità giuridica di cui prima era sprovvisto (o al converso la perda), non si estingue per rinascere sotto altra forma, né dà luogo ad un nuovo centro d’imputazione di rapporti giuridici, ma sopravvive alla vicenda modificativa, senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità soggettiva; il patrimonio (mobile ed immobile) della società trasformata resta di proprietà della medesima società, che non cambia, pur nella sua nuova veste e denominazione (v. Cass. 3 agosto 1988, n. 4815). Tutte le successive decisioni hanno confermato tale principio: osservandosi, ad esempio, che la trasformazione della società in nome collettivo in società in accomandita semplice comporta soltanto il mutamento formale di un’organizzazione societaria già esistente, senza la creazione di un nuovo soggetto distinto da quello originario, onde non incide sui rapporti sostanziali e processuali che al soggetto fanno capo (Cass. 25 marzo 1992, n. 3713). Lo stesso si reputa nelle ipotesi di trasformazione da società personale a società di capitali (Cass. 12 novembre 2003, n. 17066; Cass. 4 novembre 1998, n. 11077), da società per azioni a s.r.l. (Cass. 3 gennaio 2002, n. 26; Cass. 23 aprile 2001, n. 5963), da s.r.l. a società per azioni (Cass. 13 settembre 2002, n. 13434), e così via. Sino a ribadire costantemente che la trasformazione di una società in un altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell’estinzione del soggetto e nella correlativa creazione di uno diverso, ma configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto (cfr., e plurimis, Cass., sez. un., 31 ottobre 2007, n. 23019; nonché es. Cass. 19 maggio 2016, n. 10332; Cass. 20 giugno 2011, n. 13467; Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826; Cass. 13 settembre 2002, n. 13434; Cass. 23 aprile 2001, n. 5963, ed altre)” (Cass., sez. un., 30 luglio 2021, n. 21970, in motivazione).
1.7 In applicazione dei principi suesposti, deve, dunque, concludersi che non determina inesistenza della notificazione la circostanza che, dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado, avvenuta in data 4 maggio 2006, il complesso aziendale dell’impresa individuale della R. sia stato conferito nella società a responsabilità limitata e che, di conseguenza, la ditta individuale sia stata cancellata dal registro delle imprese (nell’ottobre 2006). Infatti, il conferimento di azienda individuale in una società di capitali costituisce una cessione d’azienda e, sotto il profilo processuale, non comporta una successione a titolo universale, ma configura un’ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, disciplinata dall’art. 111 c.p.c., con la conseguenza che il conferente conserva, quale sostituto processuale del cessionario, la legittimazione processuale, comprensiva della legittimazione a rendersi destinatario della notifica dell’atto di appello rivolto contro la sentenza di primo grado che lo vedeva come parte del processo e che la società (…) s.r.l. legittimamente, senza soluzione di discontinuità, è subentrata nella posizione processuale della già ditta individuale (…) di R.G.. Da ciò discende che la notifica dell’appello da parte dell’Amministrazione finanziaria a R. R.G. era pienamente legittimo, donde l’infondatezza del primo motivo del ricorso e la sussistenza della legittimazione processuale della (…) s.r.l., che si è costituita in secondo grado quale successore a titolo particolare ex art. 111 c.p.c..
1.8 Questa Corte, anche di recente, ha affermato il principio che “Nel caso in cui, in pendenza del giudizio d’appello, si verifichi un fenomeno riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 111 c.p.c., non emerso né in tale fase, né nella fase di legittimità, il successivo giudizio di rinvio deve necessariamente proseguire tanto nei confronti del preteso successore a titolo particolare, quanto della parte originaria, quale litisconsorte “ex lege”” (Cass. 20 febbraio 2023, n. 5287) e che “In ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e prima della scadenza del termine per l’impugnazione, il dante causa non perde nessun potere processuale, con la conseguenza che l’impugnazione spetta in ogni caso alla parte originaria, nei cui confronti la sentenza è stata pronunciata, salva la legittimazione, concorrente e non sostitutiva, del successore” (Cass. 20 novembre 2019, n. 30189).
2. Con il secondo motivo si lamenta la falsa applicazione dell’art. 26 del d.p.r. d.p.r. n. 633 del 1972, la violazione dell’art. 109 (già 75) del d.p.r. n. 917/1986, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Commissione tributaria regionale aveva errato nel ritenere che l’emissione di una nota di credito al di fuori delle condizioni di cui all’art. 26 del d.p.r. n. 633 del 1972 (ammesso e non concesso che fosse avvenuto) costituisse elemento sufficiente alla rideterminazione di un maggiore imponibile ai fini IRPEF e IRAP per l’esercizio 1999; era, infatti, circostanza pacifica che i ricavi in questione (vecchie lire 630.000.000), come riconosciuto dall’Ufficio e più volte affermato dal contribuente non erano di competenza dell’esercizio 1999, con conseguente impossibilità di ripresa a tassazione in detto esercizio, in quanto si trattava di ricavi concernenti prestazioni rese nel 1996, il cui incasso era avvenuto solo a seguito della definizione (mediante transazione) del contenzioso insorto tra la (…) s.r.l. e l’Azienda Ospedaliera. La Commissione tributaria regionale, ritenendo di poter accogliere la tesi dell’Ufficio secondo cui i detti ricavi sarebbero stati realizzati nel 1999, con conseguente ripresa a tassazione nel relativo esercizio, aveva violato l’art. 109 TUIR.; era anche pacifica la circostanza di fatto ammessa dagli stessi Agenti accertatori e, quindi, dall’Ufficio (che aveva fatto proprie tutte le risultanze del p.v.c.), secondo cui “ai fini delle imposte sui redditi le due fatture definitive in questione – in ossequio al principio della competenza temporale – non hanno influenzato il risultato d’esercizio 1999 in quanto riconducibili a fatture provvisorie emesse nell’anno 1996 il cui ricavo d’esercizio si presume che sia stato dichiarato per competenza in quest’ultimo periodo di imposta”); nonostante ciò, i giudici di secondo grado, assumendo che i ricavi dovessero essere tassati nel 1999, avevano favorito un’evidente distorsione del sistema impositivo, ovvero la tassazione dei medesimi ricavi in due distinti esercizi (1996 e 1999), in spregio al citato principio di competenza. Era circostanza altrettanto pacifica che i ricavi in questione erano oggetto di contenzioso tra la ditta (…) e l’Azienda Ospedaliera (debitrice), sicché la Commissione tributaria regionale non avrebbe dovuto ignorare il dettato dell’art. 109 TUIR., secondo cui “i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”.
3. Con il terzo motivo si lamenta la falsa applicazione dell’art. 2700 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Commissione tributaria regionale non aveva tenuto conto della documentazione prodotta, con nota dell’11 aprile 2006 presso la Commissione tributaria provinciale, e dei relativi allegati (fatture e documentazione di spesa, quali bonifici bancari), al fine di provare il fatto costitutivo del diritto alla deduzione dei costi ed aveva erroneamente sostenuto che il p.v.c. faceva piena prova, fino a querela di falso, dell’inidoneità dei documenti a dimostrare la sussistenza dei requisiti prescritti dall’art. 109 TUIR.. La Commissione tributaria regionale, dunque, aveva ignorato le argomentazioni difensive svolte con riferimento: a) ai costi non idoneamente documentati per lire 59.919.000 con Iva indebitamente detratta pari a lire 11.983.800; b) ai costi non inerenti ed Iva indetraibile; c) ai costi superiori a quelli spettanti per lire 52.380.444; d) ai costi inesistenti ed Iva indetraibile (trascritte alle pagine 14 – 17 del ricorso per cassazione).
4. Con il quarto motivo si lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992 (vizio di motivazione assente o “meramente apparente”), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La Commissione tributaria regionale, forte dell’errata convinzione che i “processi verbali relativi ai controlli incrociati eseguiti presso i fornitori (…) fanno piena prova, fino a querela di falso”, aveva completamente omesso di esaminare i motivi di appello contenenti le specifiche difese del contribuente evidenziate ai punti a), b), c) e d) del precedente motivo.
4.1. L’esame delle esposte censure, porta all’accoglimento del terzo e quarto motivo, che vanno trattati insieme perché connessi, e all’assorbimento del secondo motivo.
4.2 Ed invero, i giudici di secondo grado hanno affermato che la contestazione sul mancato riconoscimento in deduzione di costi non idoneamente documentati, di costi non inerenti, di costi dedotti in misura superiore a quella spettante e di costi riconducibili a operazioni inesistenti era infondata, in quanto dal processo verbale della Guardia di Finanza relativo alla ditta verificata ed ai processi verbali relativi ai controlli incrociati eseguiti presso fornitori ((…) ((…)), (…) di (…), (…) s.r.l. di Roma ed altri), che faceva piena prova, fini a querela di falso, era emerso inequivocabilmente che i costi in questione non possedevano i richiamati requisiti, né il contribuente, a cui incombeva l’onere, era stato in grado di fornire i supporti documentali necessari; era, dunque, legittimo l’operato dell’A.F., che aveva ritenuto nel suo accertamento che le fatture contestate difettavano del requisito della certezza del costo e, quindi, della loro inerenza e competenza e che, pertanto, gli importi di tali fatture non potevano essere portate a costo dalla società ricorrente, così come non era detraibile l’IVA inerente (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).
4.3 La giurisprudenza di questa Corte è nel senso che “In tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, potendosi distinguere al riguardo un triplice livello di attendibilità: a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 270 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi esso fa fede fino a prova contraria, che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni; c) in mancanza della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore” (Cass. 24 novembre 2017, n. 28060; Cass. 5 ottobre 2018, n. 24461).
4.4 Inoltre, deve richiamarsi, con riferimento al caso in esame, la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “I costi, per essere ammessi in deduzione, quali componenti negativi del reddito di impresa, debbono soddisfare i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità e, dunque, devono essere opportunamente documentati, in modo tale che dalla documentazione relativa si possa ricavare l’inerenza del bene o servizio acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o servizio stesso. Pertanto spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili. Non è dunque sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa” (Cass. civ., 26 luglio 2022, n. 23293).
Infatti, il contribuente, in tema di reddito d’impresa, ai fini della deducibilità dei costi sostenuti, è tenuto a dimostrarne l’inerenza, intesa in termini qualitativi e dunque di compatibilità, coerenza e correlazione, non già ai ricavi in sé, ma all’attività imprenditoriale svolta, sicché deve provare e documentare l’imponibile maturato, ossia l’esistenza e la natura dei costi, i relativi fatti giustificativi e la loro concreta destinazione alla produzione (Cass. 1 aprile 2022, n. 10570). Anche ai fini della detrazione dell’IVA ex art. 19 del d.lp.r. n. 633 del 1972, la prova dell’inerenza dell’operazione/del costo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente in quanto soggetto gravato dell’onere di dimostrare l’imponibile (Cass., 16 marzo 2022, n. 864; Cass. 22 settembre 2021, n. 25612).
4.5 In particolare, in tema di ripartizione dell’onere della prova in materia di detrazione IVA e di deducibilità dal reddito di impresa, deve precisarsi che il diritto alla detrazione IVA ex art. 19 del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, ed il diritto alla deducibilità dal reddito d’impresa, ai fini delle II.DD., dei costi inerenti ex art. 109 del TUIR., non può prescindere dalla regolarità delle scritture contabili ed in specie dalla fattura che, in tema di IVA, è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, come si evince chiaramente dall’art. 21 del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, che ne disciplina il contenuto, prescrivendo tra l’altro l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo di ogni operazione commerciale. Pertanto, nella ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione finanziaria, che adduce la falsità del documento, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere e tale prova è raggiunta qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi, che possono anche assumere la consistenza di indizi attendibili idonei ad integrare una presunzione semplice (art. 2727 c.c.), per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie, ovvero, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. c) e dell’art. 54, comma 3, dei decreti indicati, per dimostrare “in modo certo e diretto” la “inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati” (cfr. Cass. 12 dicembre 2005, n. 27341; Cass. 11 settembre 2013, n. 20786).
4.6 In tal caso passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (cfr. Cass., 7 febbraio 2008, n. 2847) e il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione solo per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e ss. e 2697, comma 2, c.c. (cfr. Cass. 23 aprile 2010, n. 9784).
4.7 Nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale non ha fatto corretta applicazione di tali canoni giuridici, poiché, nella parte in cui ha esaminato nel merito la pretesa impositiva, dopo avere affermato che il processo verbale della Guardia di Finanza faceva piena prova fino a querela di falso, ha ritenuto che dallo stesso emergeva inequivocabilmente che i costi in questione non possedevano i requisiti di competenza, certezza, oggettiva determinabilità ed inerenza all’attività dell’impresa, affermando poi che il contribuente non era stato in grado di fornire i supporti documentali necessari e così facendo non ha verificato, con il necessario rigore analitico, tutta la documentazione prodotta in data 11 aprile 2006, già in primo grado, e richiamata anche in appello (fatture e bonifici bancari ed altra documentazione di spesa) e diretta, secondo l’assunto della società contribuente, a contestare, con riferimento a ciascun rilievo compiuto dagli agenti accertatori (specificamente sui costi non idoneamente documentati; sui costi non inerenti; sui costi superiori a quelli spettanti e sui costi inesistenti), il mancato riconoscimento in deduzione dei costi; i giudici di secondo grado, dunque, in modo non conforme ai principi giurisprudenziali consolidati e richiamati, sulla premessa che il processo verbale della Guardia di Finanza faceva piena prova fino a querela di falso, hanno affermato che la società contribuente non aveva dato la prova documentale dell’effettività, inerenza e congruità dei costi sostenuti, non compiendo un’accurata e puntuale verifica della idoneità dimostrativa degli elementi offerti dalla società contribuente, anche al solo fine di ritenere insussistente l’idoneità probatoria necessaria per il riconoscimento della deducibilità dei costi.
5. Per quanto esposto, vanno accolti il terzo e quarto motivo del ricorso e va rigettato il primo motivo, con assorbimento del secondo motivo; la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il terzo e il quarto motivo; rigetta il primo e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
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