Corte di Cassazione sentenza n. 6753 depositata il 19 marzo 2018
contratto valido anche con sigla
Fatti di causa
Con atti ritualmente notificati (rispettivamente il 14 gennaio 2004 e il 25 marzo 2004) la S. A. s.r.l. proponeva opposizione avverso i decreti ingiuntivi nn. 29685/2003 e 2481/2004 emanati dal giudice designato del Tribunale di Milano su ricorsi della S.I. s.r.l., con i quali le era stato ingiunto il pagamento, in favore dell’istante, dell’importo complessivo di Euro 8366,61, oltre accessori, a titolo di corrispettivo per prestazioni di distribuzione di materiale pubblicitario.
Nella costituzione della società opposta e, a seguito della trattazione e dell’istruzione dei due giudizi di opposizione ai suddetti decreti monitori, poi riuniti, il Tribunale di Milano, con sentenza depositata il 3 gennaio 2009, rigettava entrambe le opposizioni, con la conseguente conferma degli stessi decreti ingiuntivi e la regolazione delle spese secondo il principio della soccombenza.
La S. A. s.r.l. proponeva tempestivamente appello nei confronti della sentenza di primo grado e, nella resistenza della società appellata, la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 2597/2912, depositata il 13 luglio 2012, rigettava il gravame e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado.
A sostegno dell’adottata pronuncia, la Corte ambrosiana ravvisava l’infondatezza di tutte le censure dedotte dalla S. A. s.r.l..
In primo luogo, premessa la pacificità della circostanza che la richiesta di pagamento ed il computo della inerente somma si fondavano sul documento contrattuale prodotto agli atti del 16 febbraio 2001, il giudice di seconde cure respingeva la doglianza circa la contestazione dell’attribuibilità alla stessa società appellante della sottoscrizione emergente dal documento contrattuale (versato nel fascicolo monitorio) riportante la clausola di tacito rinnovo (non cancellata e che, invece, risultava, nella copia in suo possesso, interlineata). In proposito, la Corte milanese riteneva che – pur prescindendosi dalla qualità di persona giuridica della SAG e dalla correlata necessità di un articolato disconoscimento con riguardo a tutti gli organi rappresentativi – dalla c.t.u. espletata in primo grado era scaturito che, in calce al documento allegato a conforto dei ricorsi monitori, appariva “un paraffo inglobante la dicitura S.” vergati entrambi unitariamente e di pugno del sig. P.R. (legale rappresentante della medesima società), pur ammettendosi che tale paraffo non corrispondeva propriamente “alle sigle/firme” dello stesso P. . Da tali emergenze il giudice d’appello inferiva che si potevano desumere sufficienti ed idonei riscontri per ritenere inequivoco il collegamento al legale rappresentante della S. del segno grafico e della sigla della ditta della società pure manoscritta, nonché per attestare che tali segni costituivano manifestazione di volontà. Pertanto, alla stregua di tanto, erano da ritenersi confermata la conclusione del contratto del 16 febbraio 2001 (non sussumibile, peraltro, nella previsione dell’art. 1341 c.c.) e provata la veridicità e riferibilità al legale rappresentante della SAG della proposta d’ordine prodotta dalla S.I. s.r.l. nella versione, per l’appunto, priva di depennannento dell’anzidetta clausola (con conseguente inammissibilità della prova testimoniale dedotta a conforto del previo depennamento della medesima clausola), donde il pieno accertamento della ragione di credito vantata dalla parte appellata.
Avverso la suddetta sentenza (notificata il 28 agosto 2012) ha proposto ricorso per cassazione la S. A. s.r.l., articolato in tre motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata S.I. s.r.l..
Il ricorso veniva, in prima battuta, veicolato dinanzi a questa Sezione nelle forme del rito camerale ora previsto dall’art. 380-bis.1 c.p.c. (introdotto dall’art. 1-bis, comma 1, lett. f, del d.l. n. 168/2016, conv., con modif., dalla I. n. 197/2016) ma, all’esito della camera di consiglio, il collegio, con ordinanza interlocutoria n. 21047/2017 (depositata l’11 settembre 2017), disponeva per la discussione e la decisione del ricorso in pubblica udienza (in relazione alla rilevanza della questione di diritto consistente nello stabilire se il timbro della società stipulante il contratto, contrassegnato dal legale rappresentante con un segno grafico individualizzante – c.d. “paraffo” – costituisca o meno, ad ogni effetto, sottoscrizione del contratto).
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto – avuto riguardo all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – il vizio di omessa e, comunque, insufficiente motivazione circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio attinente al ritenuto accertamento – emergente dalla sentenza impugnata – della sicura provenienza e riferibilità del documento contrattuale assunto come concluso tra le parti in data 16 febbraio 2001 alla stessa società ricorrente S. A., che ne aveva, invece, contestato la circostanza, procedendo al tempestivo disconoscimento dell’apparente sottoscrizione ricondotta al legale rappresentante della medesima.
Con la formulata censura la ricorrente ha inteso, in effetti, confutare la correttezza del ragionamento logico-giuridico compiuto dalla Corte Milanese nell’impugnata sentenza, sostenendo che la stessa aveva apprezzato in maniera confusa, travisandole, le risultanze della relazione del c.t.u., il quale nel rispondere al quesito assegnatogli, aveva concluso che “la sottoscrizione in verifica è composta dalla dicitura S. intersecata da ampio paraffo di sottolineatura che non corrisponde alle sigle/firme del signor Roberto P. , benché tale scritturazione, oggetto di causa, possa riferirsi al grafismo autografo dello stesso P. “. Di conseguenza, alla stregua dello stesso elaborato tecnico e in senso asseritamente contrario a quanto ritenuto dal giudice di appello, la ricorrente ha inteso addurre la circostanza che dei due grafismi esaminati solo uno era sicuramente riconducibile al P. , ovvero la sigla della ditta riportata a mano come S., e non invece anche il c.d. paraffo di sottolineatura, donde avrebbe dovuto considerarsi erronea secondo l’assunto della stessa difesa della ricorrente – la valutazione operata dalla Corte di appello che, discostandosi dalle conclusioni raggiunte dal c.t.u., aveva invece rilevato che, in calce al documento prodotto, emergeva “un paraffo inglobante la dicitura Sag.80” “vergati entrambi unitariamente e di pugno dello stesso P. “, onde ambedue i segni grafici in verificazione avrebbero dovuto ritenersi riconducibili al legale rappresentante della stessa società, giungendo a tale conclusione – ha dedotto sempre la ricorrente senza, tuttavia, spiegare adeguatamente le fonti del proprio convincimento.
2. Con il secondo motivo la società ricorrente ha prospettato – con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione degli artt. 214 c.p.c. e 2702 c.c., sul presupposto che la Corte di appello di Milano non aveva, nella sentenza oggetto di ricorso, fatto buon governo dei principi che disciplinano l’efficacia probatoria delle scritture private e la loro opponibilità, dal momento che lo stesso giudice, pur avendo dichiaratamente dubitato che il paraffo costituisse propriamente una sottoscrizione del P. , aveva, tuttavia, incongruamente concluso che entrambi i segni grafici (e, quindi, anche la sigla di sottoscrizione, ritenuta dal c.t.u. non riferibile al P. ) fossero, ambedue, attestativi della volontà manifestata dal medesimo legale rappresentante di essa società ricorrente.
3. Con la terza censura la società ricorrente ha denunciato – sempre in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 1341 e 1342 c.c., per non aver dichiarato la Corte territoriale la nullità della clausola di rinnovo inserita nel contestato contratto, il quale altro non era che un ordinativo del relativo servizio redatto su un modulo prestampato dalla s.r.l. S.I., ragion per cui la clausola vessatoria ricollegabile a quella di rinnovo automatico avrebbe dovuto essere sottoposta all’obbligo della doppia sottoscrizione, che, invece, nel caso di specie, era mancata.
4. Osserva il collegio che i primi due motivi sono esaminabili congiuntamente perché intimamente connessi, afferendo alla stessa questione giuridica sotto le due diverse angolazioni del vizio di motivazione (evidenziandosi che, nella fattispecie, è applicabile la precedente versione del n. 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c. – poi modificata dal quella introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. n. 83/2012, conv., con modif., dalla legge n. 134/2012 -, siccome la sentenza impugnata risulta pubblicata prima dell’11 settembre 2012 e, specificamente, il 13 luglio 2012) e della violazione di legge.
Essi sono infondati e devono, pertanto, essere rigettati per le ragioni che seguono.
Occorre, in primo luogo, osservare che, nel caso di specie, la sigla abbreviata (denominata dalle parti e dai giudici di merito “paraffo”, quale equivalente terminologico di “forma sintetica e – spesso – illeggibile di sottoscrizione con cui si firma o ratifica un documento”) con la quale risulta sottoscritto il contestato documento contrattuale del 16 febbraio 2001 (che deve, comunque, essere pur sempre autografa per la validità della scrittura cui essa afferisce) per come si evince anche dal contenuto specifico (ed autosufficiente) del ricorso e dagli stessi accertamenti fattuali compiuti dalla Corte di appello di Milano emerge come sovrapposta (nella proposta d’ordine dedotta in controversia, qualificata come contratto) alla dicitura S., pure vergata a mano.
Ciò posto, per quanto desumibile dalle conclusioni della relazione del c.t.u. (sulle quali la Corte territoriale ha fondato adeguatamente il suo motivato convincimento), nella fattispecie è stato desunto che mentre il grafismo consistente nell’apposizione della dicitura manoscritta S. era sicuramente riconducibile al P.R. (quale suo legale rappresentante), la sigla abbreviata di sottolineatura non era risultata corrispondente alle sigle o firme tipiche dello stesso P..
Tuttavia, focalizzando meglio quest’ultima risultanza, il giudice di appello ha evidenziato che, in effetti, il c.t.u. ebbe ad operare – quanto alla sigla della firma in forma abbreviata – una valutazione di mera non corrispondenza della stessa alla sottoscrizione usuale, ma non di apocrificità della medesima, risultando specificato che la relativa scritturazione – e, quindi, anche il grafismo ricollegabile alla sigla sovrascritta all’indicazione della ditta della società – era comunque da riferirsi al grafismo autografo dello stesso P..
Quindi, contrariamente a quanto prospettato dalla ricorrente, deve escludersi che la Corte di appello di Milano abbia – nella impugnata sentenza – travisato le valutazioni e le relative conclusioni del c.t.u. (con riguardo al prospettato vizio motivazionale) e sia incorsa nella dedotta violazione di legge, dovendo, invero, il documento contestato qualificarsi come scrittura privata riconducibile al legale rappresentante della S., al quale è stata attribuita la scritturazione complessiva e, quindi, anche l’autografia dell’apposta sottoscrizione nella forma della sigla sintetica (denominata “paraffo”, sovrapposta alla denominazione della ditta della società, pure vergata a mano), ancorché non perfettamente decifrabile e del tutto leggibile.
Tale sigla – accertata, comunque, come riconducibile alla mano del P. deve, dunque, qualificarsi, sul piano dell’efficacia giuridica, come equipollente alla firma per esteso.
A tale scopo, infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha già condivisibilmente sottolineato che non è necessaria la piena intelligibilità della sottoscrizione del contraente, essendo valida anche la firma abbreviata o la sigla, purché essa sia dotata di un’individualità grafica che non ne consente l’automatica riproducibilità, e consenta invece di attribuirla ad una determinata persona, evidenziandone la volontà di rendersene autore, agendo sia in proprio sia nella qualità di rappresentante di un altro soggetto, senza, peraltro, obbligo di aggiungere questa specificazione (cfr. Cass. Sez. U. n. 4746/1979; Cass. n. 12656/1991; Cass. n. 696/2002 e Cass. n. 3261/2009).
In tal senso, quindi, la Corte di appello ha dato sufficientemente conto come dalla relazione della c.t.u. calligrafica fosse emerso che in calce al documento prodotto appariva “un paraffo inglobante la dicitura S.” vergati entrambi unitariamente e di pugno dello stesso sig. P. , così esprimendo il suo giustificato e logico convincimento nel rilevare che erano stati acquisiti idonei riscontri probatori per ravvisare l’inequivocità del collegamento al legale rappresentante della S. sia del segno grafico (denominato “paraffo”) che dell’indicazione della ditta societaria pure manoscritta, onde poter desumere dagli stessi la manifestazione esteriore della riconducibilità della volontà negoziale trasfusa nel contestato documento allo stesso P.R. , nella qualità di legale rappresentante della predetta società.
5. Anche il terzo motivo – proposto nei termini precedentemente richiamati – è destituito di fondamento e va respinto.
Rileva, infatti, il collegio come sia da ritenersi del tutto corretta, sul piano giuridico, la qualificazione operata dalla Corte di appello in orine al contestato documento contrattuale. Esso non può dirsi, invero, che fosse riconducibile allo schema delle “condizioni generali di contratto”, essendo risultato dattiloscritto, integrato da varie clausole manoscritte e, perciò, conformato con singole pattuizioni (come quelle sulla durata, sulle condizioni di pagamento e sulla fatturazione), ragion per cui esso aveva costituito il frutto di una puntuale contrattazione tra le due parti specificamente entrate in contatto e non era, invece, destinato a disciplinare in maniera uniforme una serie indefinita di rapporti con plurimi potenziali contraenti.
È pacifico, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 2294/2001 e, da ultimo, Cass. n. 26333/2011, ord.), che possono qualificarsi come contratti “per adesione”, rispetto ai quali sussiste l’esigenza della specifica approvazione scritta delle clausole vessatorie, soltanto quelle strutture negoziali destinate a regolare una serie indefinita di rapporti, tanto dal punto di vista sostanziale (se, cioè, predisposte da un contraente che esplichi attività contrattuale all’indirizzo di una pluralità indifferenziata di soggetti), quanto dal punto di vista formale (ove, cioè, predeterminate nel contenuto a mezzo di moduli o formulari utilizzabili in serie), mentre non possono ritenersi tali i contratti predisposti da uno dei due contraenti in previsione e con riferimento ad una singola, specifica vicenda negoziale, ed a cui l’altro contraente possa, del tutto legittimamente, richiedere ed apportare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto, né, a maggior ragione, quelli in cui il negozio sia stato concluso a seguito e per effetto di trattative svoltesi tra le parti.
Non risultando, pertanto, nella fattispecie, il contestato contratto sussumibile nella previsione dell’art. 1341 c.c., la Corte territoriale ha legittimamente ritenuto l’irrilevanza, ai fini dell’efficacia della contestata clausola sul rinnovo automatico, della pretermessa doppia sottoscrizione.
6. In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna della soccombente ricorrente al pagamento, con vincolo solidale, delle spese del presente giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo.
7. Deve essere, peraltro, dichiarata l’inammissibilità dell’istanza di condanna proposta dalla controricorrente in relazione al disposto di cui all’art. 96 c.p.c., siccome formulata, per la prima volta, soltanto nella memoria illustrativa depositata dalla ricorrente in data 9 giugno 2017 (peraltro in relazione al disposto del nuovo art. 380-bis.1 c.p.c., in vista dell’udienza camerale in un primo momento fissata ai sensi dell’art. 375, ultimo comma, c.p.c.) e non già tempestivamente del controricorso. È appena il caso di ricordare come – ad avviso della costante giurisprudenza di questa Corte – la domanda di condanna al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., pur potendo essere proposta anche in sede di legittimità, per i danni che si assumono derivanti dal giudizio di cassazione e, in particolare, quando si riferisca a danni conseguenti alla proposizione del ricorso, deve, tuttavia, essere formulata, a pena di inammissibilità, con il controricorso e non, quindi, per la prima volta, con la memoria di cui all’art. 378 c.p.c. o nel corso della discussione orale, in considerazione dell’esigenza di tutelare il diritto di difesa del destinatario della domanda stessa, con un congruo termine per esercitare la facoltà di replica (cfr. Cass. Sez. U. n. 17300/2003, ord., e Cass. n. 20914/2011, ord.).
8. Non ricorrono, infine, le condizioni – poiché il ricorso è stato proposto anteriormente al 1° gennaio 2013 (risultando notificato il 13 novembre 2012) per dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, in via solidale, del raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
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