CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, sentenza n. 4550 depositata il 20 febbraio 2024

Lavoro – Contratto di lavoro a tempo parziale – Trasformazione in contratto a tempo indeterminato full time – Novazione del rapporto per facta concludentia – Rigetto

Fatti di causa

1. La Corte d’Appello di Cagliari – sezione dist. di Sassari, con la sentenza impugnata, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato che il contratto di lavoro inizialmente stipulato a tempo parziale da M.M. con la S. Spa “si è trasformato in contratto a tempo indeterminato full time”;

2. La Corte, in sintesi e per quanto qui rileva, ha accolto il motivo di gravame del lavoratore con cui si lamentava che il primo giudice aveva errato in diritto a ritenere invocato l’art. 3, comma 6, d. lgs. n. 61 del 2000, avendo piuttosto chiesto “il riconoscimento del diritto controverso sulla base della modifica apportata per fatti concludenti del datore di lavoro al rapporto di lavoro”; richiamata la giurisprudenza di legittimità che “ammette la novazione del rapporto per facta concludentia”, la Corte sarda ha argomentato che “se il ricorso al lavoro supplementare è costante, non si può parlare di lavoro ulteriore occasionale, ma, tenuto conto della plurima e prolungata richiesta del datore di lavoro di lavoro supplementare e straordinario, e di manifestata adesione del lavoratore, si verifica una novazione contrattuale – riguardante l’orario, componente essenziale del contratto part time – con conseguente applicazione della disciplina del contratto a tempo indeterminato a tempo pieno, attesa l’intervenuta modificazione delle originarie pattuizioni contrattuali”.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con un unico motivo; ha resistito con controricorso l’intimato.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Ragioni della decisione

1. Con il motivo di ricorso si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1230 c.c.; si eccepisce che “il pagamento di tutte le maggiorazioni per il lavoro supplementare e/o straordinario prestato dal lavoratore si rivela circostanza ostativa al riconoscimento della sussistenza, quantomeno in capo a parte datoriale, del c.d. animus novandi e, pertanto, di quella volontà novativa indispensabile ai fini dell’operatività della novazione oggettiva di cui trattasi”.

Si sostiene che “al superamento dell’orario individuale di lavoro può essere riconosciuto un qualche rilievo novativo oggettivo solo in presenza di due concorrenti condizioni: (i) l’assenza della remunerazione del lavoro supplementare con le maggiorazioni a tal fine previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva di riferimento; (ii) la prestazione di lavoro supplementare, da parte del lavoratore, in maniera non solo ripetuta nel tempo ma altresì esattamente costante e tale da permettere – sempre in maniera esattamente costante – il completo raggiungimento dell’orario di lavoro a tempo pieno, salve unicamente quelle variazioni di orario mensile o settimanale che possono verificarsi anche nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo pieno”.

2. Il motivo è infondato.

2.1. Sin da Cass. n. 8904 del 1996 è stato chiarito da questa Corte che “una volta accertato che, nonostante la stipulazione di un contratto di lavoro part-time, le concrete modalità di svolgimento del rapporto sono state quelle tipiche del tempo pieno, la determinazione delle spettanze del lavoratore in relazione ai vari istituti retributivi non può che risultare conforme a questa realtà”, atteso che la trasformazione da un contratto part-time ad un ordinario rapporto di lavoro a tempo pieno non è assoggettata a vincoli formali e procedimentali, avendo “il legislatore reso palese, da un lato, l’indubbio favore verso il lavoro a tempo pieno, e, dall’altro, il rilievo determinante da riconoscere al criterio dell’effettività come fonte dell’individuazione del trattamento dovuto al lavoratore”; sicché, nel rapporto di lavoro, ove sia accertato che la prestazione si è effettivamente svolta secondo determinate modalità, opera il “principio di corrispondenza del trattamento del lavoratore all’effettiva consistenza del proprio impegno”, allorquando si tratti “di riconoscere i diritti del prestatore di lavoro per la propria attività, in quanto ciò che risulta decisivo non è il negozio costitutivo del rapporto, ma il rapporto nella concreta attuazione dalla quale sorgono siffatti diritti” (nella specie, la sentenza richiamata ha ritenuto coerente che i giudici del merito si fossero avvalsi delle prove dedotte dal lavoratore per provare le reali modalità di esecuzione della prestazione, pur senza negare validità formale alla stipulazione di un contratto di lavoro part-time, che, sebbene stipulato in conformità alle prescrizioni di legge, non ebbe poi concreta attuazione, così da non poter costituire fonte della disciplina del rapporto, in applicazione del suesposto criterio di effettività).

Sulla scorta di tali assunti si è sviluppata una consolidata giurisprudenza la quale ha sempre ammesso che, “in base alla continua prestazione di un orario di lavoro pari a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, un rapporto di lavoro nato come a tempo parziale possa trasformarsi in un rapporto di lavoro a tempo pieno, nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non occorrendo alcun requisito formale per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno” (cfr. Cass. n. 5520 del 2004; v. pure: Cass. n. 3228 del 2008, Cass. n. 6226 del 2009); si è altresì precisato che “risulta del tutto inutile ogni discussione in ordine alla possibilità di riscontrare o meno una volontà novativa della parti, una volta che sia stata dimostrata la costante effettuazione di un orario di lavoro prossimo […] a quello stabilito per il lavoro a tempo pieno e del pari inconferente il richiamo alla disciplina codicistica in tema di conversione del contratto nullo” (cfr. Cass. n. 25891 del 2008; conf. Cass. n. 17774 del 2011).

Ancora di recente, quindi, è stato ribadito come la continuativa prestazione di un orario corrispondente a quello previsto per il lavoro a tempo pieno possa determinare che la trasformazione da un originario part-time ad un full-time si sia verificata “per fatti concludenti” (Cass. n. 8658 del 2019; Cass. n. 20209 del 2019; v. anche, nel vigore del d. lgs. n. 61 del 2000, Cass. n. 31342 del 2018).

Naturalmente, poiché si tratta di indagare una comune volontà negoziale, sebbene realizzata attraverso la forma di comportamenti concludenti, il relativo accertamento è demandato al giudice del fatto (Cass. n. 3228 del 2008; Cass. n. 6226 del 2009, la quale precisa anche che il mero superamento del tetto delle ore previste per il tempo parziale non determina automaticamente la trasformazione); detto accertamento può essere sindacato innanzi a questa Corte nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni accertamento di fatto (tra molte, v. Cass. n. 29781 del 2017).

Una volta acclarato, secondo il convincimento espresso dai giudici del merito, che il contratto part-time si è trasformato in un rapporto di lavoro a tempo pieno per facta concludentia, non vi è più spazio per applicare la disciplina, anche sanzionatoria, prevista dalle diverse leggi che si sono succedute per regolare il contratto a tempo parziale, in quanto tale trasformazione opera non per fonte legale ma per volontà consensuale delle parti; con la conseguenza che i diritti che derivano al prestatore sono quelli che nascono da un ordinario rapporto di lavoro oramai divenuto a tempo pieno, atteso che – per dirla con Cass. n. 8904 del 1996 – “la determinazione delle spettanze del lavoratore in relazione ai vari istituti retributivi non può che risultare conforme a questa realtà”.

2.2. Il Collegio intende ribadire gli esposti principi, che consentono di disattendere le censure prospettate col motivo di ricorso.

La Corte territoriale, infatti, si è dichiaratamente attenuta all’orientamento giurisprudenziale qui confermato, decidendo l’impugnazione in conformità ad esso, mentre parte ricorrente non prospetta argomenti che possa indurre il Collegio a discostarsene.

3. Pertanto il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, ove il contributo sia dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.