CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 14583 depositata il 19 aprile 2021
Denuncia-querela da parte di un lavoratore – Accusa dei dirigenti del sindacato presso cui era impiegato, di condotte di mobbing ai suoi danni – Reato di calunnia – Infondatezza del reato nella sua materialità e con riferimento all’elemento psicologico – Rapporto del reato di calunnia con il diritto di difesa
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Roma, ritenuta la unitarietà del contestato reato, ha rideterminato in anni due e mesi sei di reclusione la pena inflitta a S. A. per il reato di calunnia, commesso il 15 settembre 2011 allorquando il ricorrente aveva presentato una denuncia-querela presso la Procura della Repubblica di Cassino accusando i dirigenti del sindacato USB – presso cui era stato impiegato – di condotte di mobbing ai suoi danni allegando, a sostegno delle sue pretese, documentazione varia, tra cui un verbale della segreteria provinciale del sindacato con il quale egli era stato autorizzato ad operare in veste di tesoriere all’apertura di un conto corrente, verbale che gli sarebbe stato consegnato dal segretario provinciale S. e recante le sottoscrizioni dei presunti partecipanti alla seduta di nomina e che, invece, era stato redatto dallo stesso A.. Da qui l’accusa al S. del reato di falso. La Corte di appello di Roma ha confermato, altresì, la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, P.S., danni definitivamente liquidati in euro seimila.
La Corte di merito ha ritenuto, invece, insussistente il reato di calunnia commesso il 20 gennaio 2012 allorquando, sentito in sede di interrogatorio, l’A. aveva confermato il contenuto della denuncia stessa.
2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. il ricorrente chiede l’annullamento della sentenza impugnata evidenziandone plurimi vizi, di violazione di legge e di motivazione, in punto di responsabilità per il reato ascrittogli.
Deduce che
2.1. la Corte di merito, al pari del Tribunale, ha sovrapposto i fatti oggetto di denuncia – e dalla quale sono scaturiti due distinti procedimenti penali a carico dell’imputato – che aveva inteso portare a conoscenza dell’autorità giudiziaria condotte mobbizzanti poste in essere, nei suoi confronti, dai dirigenti del sindacato. Il ricorrente non ha mai prodotto, per come si evince dalla querela, il descritto verbale – che si asserisce falso – limitandosi a denunciare, in risposta ad una missiva del sindacato con la quale veniva accusato di vari illeciti, i fatti commessi in suo danno. La ricostruzione sviluppata nella sentenza impugnata non riproduce, per come necessario, il contenuto della querela e, rispetto alla stessa, si pone in evidente disallinearnento. Ne consegue l’infondatezza del reato sia nella sua materialità che con riferimento all’elemento psicologico del reato di calunnia;
2.2. la sentenza è contraddittoria nella parte in cui perviene all’assoluzione dell’imputato dal reato ascrittigli con riguardo alle dichiarazioni rese il 20 gennaio 2012;
2.3 mancanza di motivazione sul dolo ricalcato, semplicisticamente, sulla intervenuta archiviazione del procedimento attivato su richiesta dell’A. per effetto della querela e sulla condanna dell’imputato per altri reati;
2.4. ulteriore vizio di motivazione inerisce alla mancata valutazione del contenuto difensivo della querela proposta dall’A. che, da una parte, denunciava condotte mobbizzanti ai suoi danni e dall’altra si difendeva da una serie di presunti illeciti che venivano profilandosi a suo carico. La Corte di merito ha errato nella parte in cui ha ricondotto alle sole dichiarazioni rese il 20 gennaio 2012 l’intento difensivo dell’A. poiché, invece, andava ricondotto a tale matrice anche il contenuto della querela. Da qui la sussurnibilità del contenuto dell’atto nella fattispecie di cui all’art. 51 cod. pen. e l’erronea applicazione della legge penale con riguardo alla possibilità di sussunzione nel fatto nell’ipotesi di cui all’art. 367 cod. pen. L’A., con riferimento al disconoscimento della sottoscrizione dell’atto di autorizzazione all’apertura del conto corrente si era limitato a sostenere che lo stesso gli sarebbe stato consegnato con le firme degli altri rappresentati dell’ente ma di non essere stato in grado di sapere se tali firme siano state apposte dopo il verbale: così proponendo un mero esposto- denuncia contro ignoti.
3. Il ricorso è stato trattato con procedura scritta, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. 137 del 28 ottobre 2020 convertito in legge n. 176 del 18 dicembre 2020.
Considerato in diritto
1. Deve in primo luogo rilevarsi come il reato ascritto all’imputato sia estinto per intervenuta prescrizione. Il termine massimo di prescrizione della fattispecie in contestazione è pari ad anni sette e mesi sei, da farsi decorrere dal tempus commissi delicti coincidente con la data di ritenuta commissione del fatto (15 settembre 2011) ed decorso alla data del 13 luglio 2020 anche tenuto conto della sospensione pari ad anni uno, mesi uno e giorni ventisette – nel primo grado di giudizio – nonché della sospensione ex d.l. 11 dell’8 marzo 2020, per giorni sessantaquattro. La causa estintiva del reato può essere rilevata in questa sede, non presentando il ricorso profili di inammissibilità suscettibili d’incidere sulla valida instaurazione del rapporto di impugnazione, ed anzi essendo esso parzialmente fondato, per come si dirà in prosieguo. A questo proposito si deve rilevare come da lungo tempo la giurisprudenza di legittimità abbia affermato il principio in base al quale la inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi, incidendo sulla regolare formazione del rapporto processuale, precluda la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129, comma 1, cod.proc.pen., ivi compreso l’eventuale decorso del termine di prescrizione sopraggiunto nelle more del procedimento di legittimità (cfr. Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266).
Ove al contrario, come nel presente caso, non ricorrano le condizioni per ritenere che il ricorso sia inammissibile, non risultando manifestamente infondati i motivi di ricorso, il Giudice di legittimità sarà tenuto a pronunciare sentenza di estinzione del reato per prescrizione, ex art. 129, comma 1, cod. proc. pen., non potendosi far luogo all’annullamento con rinvio davanti al giudice penale per i rilevati vizi di motivazione della sentenza, dal momento che tale rinvio, da un lato, determinerebbe la necessità, per il predetto giudice, di dichiarare comunque la prescrizione e, dall’altro, sarebbe incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento stabilito dal richiamato art. 129 cod. proc. pen. (cfr. sul punto Sez. U, Sentenza n. 35490 del 28/05/2009, Tettannanti, Rv. 244275).
Occorre anche rammentare come, nel giudizio di impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunciata dal primo giudice o dalla Corte d’appello, in seguito a costituzione di parte civile nel processo, è preciso obbligo del giudice, anche di legittimità, secondo il disposto dell’art. 578 cod. proc. pen., esaminare il fondamento dell’azione civile e verificare, senza alcun limite, l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno la condanna alle restituzioni ed al risarcimento pronunciate nei precedenti gradi (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 10952 del 09/11/2012, dep. 2013, Rv. 255331). Strettamente connessa al tema in esame, è la questione relativa alla individuazione del giudice di rinvio in caso di annullamento agli effetti civili della sentenza impugnata, ormai risolta nel senso che la “piena operatività del principio di economia, che vieta il permanere del giudizio in sede penale in mancanza di un interesse penalistico della vicenda”, con conseguente rinvio della sentenza al giudice civile competente per valore in grado di appello (cfr. Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087).
3.Venendo al caso in esame, benchè sia intervenuta la estinzione del reato per prescrizione, essendo stata pronunciata condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, rileva il Collegio che la sentenza impugnata, richiamandosi al contenuto di quella di primo grado, non si è confrontata con le argomentazioni difensive dispiegate con i motivi di appello con riferimento al contenuto della querela proposta dall’odierno ricorrente ed alle relative allegazioni documentali tenuto conto della complessa vicenda penale originata a carico dell’imputato nella quale – secondo la prospettazione difensiva – sono state, sinteticamente, accorpate le due denunce da questi prodotte, facendo confluire in quella a fondamento dell’odierna contestazione di calunnia le risultanze delle distinte indagini e la loro conclusione.
E’ bene precisare che rileva in questa sede non la denunciata contraddittorietà della motivazione rispetto alla assoluzione dell’A. dal reato di calunnia con riguardo alle dichiarazioni rese il 20 gennaio 2012 (correttamente ritenute dalla Corte di merito un duplicato in chiave difensiva di quelle poste a base della querela del 15 settembre 2011), bensì la mancata analisi del contenuto della querela e quella della documentazione prodotta – nella quale sembra sia ricompreso il falso verbale di nomina a tesoriere – e, soprattutto, la interrelazione tra il contenuto di calunniosità della denuncia, identificato sic e simpliciter con l’allegazione del falso documento, e la strategia difensiva dell’imputato con riferimento ai procedimenti penali iscritti a suo carico.
Colgono, dunque, nel segno le censure proposte dalla difesa nel primo motivo di ricorso, con riguardo alla ricostruzione in fatto, e, conseguentemente, quelle sviluppate nei successivi motivi di impugnazione, ribadite con la memoria prodotta in vista dell’odierna udienza con riferimento al dolo e alla valenza meramente difensiva della denuncia che sulla ricostruzione in fatto si innesta.
Si è osservato in dottrina che il problema del rapporto del reato di calunnia, come per altre figure di delitto contro l’amministrazione della giustizia, con il diritto di difesa è un problema di rapporto tra fattispecie oggettive: la figura legale del delitto di calunnia e l’ambito tipico del diritto di difesa, quale si evince dal complesso dell’ordinamento giuridico. E, secondo gli schemi concettuali della teoria del reato, la soluzione del problema può essere cercata su un duplice piano ovvero quello del tipo di reato e quello di eventuali scriminanti oggettive, dunque di una scriminante che funge da causa di giustificazione di comportamenti conformi al tipo; l’esercizio del diritto di difesa, si ragiona, in determinati condizioni vale a legittimare taluni tipi di dichiarazioni, oggettivamente implicanti un pericolo per la tutela dell’innocenza e, perciò appunto, ricondotte al tipo delittuoso di calunnia, mediante la corrente interpretazione estensiva del concetto di denuncia. Non si è, dunque, in presenza di un rapporto tra regola e deroga ma in una situazione di conflitto di interessi tra la tutela dell’innocenza, di fronte a dichiarazioni accusatorie mendaci, e la garanzia della difesa di cui è contenuto essenziale e vincolabile quello di negare l’addebito.
Osserva il Collegio che le più risalenti pronunce in materia, per escludere la configurabilità del legittimo esercizio del diritto di difesa, e, quindi, della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., individuano il criterio distintivo nel contenuto dell’accusa, nel senso di ritenere integrato il delitto di calunnia quando la condotta dell’imputato non si limiti a ribadire la insussistenza delle accuse a suo carico ma si risolva nel muovere all’accusatore, di cui conosce l’innocenza, accuse specifiche e idonee a determinare la possibilità dell’inizio di un indagine penale nei suoi confronti (Sez. 6, n. 9929 del 5/11/2002, dep. 2003, Tumnnarello, Rv. 223946).
Affermazione, questa che, variamente declinata, è pervenuta all’affermazione del principio secondo cui sussiste il delitto di calunnia quando l’imputato non si limiti a ribadire la insussistenza delle accuse a suo carico, ma assuma ulteriori iniziative dirette a coinvolgere l’accusatore – di cui pure si conosce l’innocenza – nella incolpazione specifica, circostanziata e determinata di un fatto concreto, sicché da ciò derivi la possibilità dell’inizio di una indagine penale da parte dell’autorità (Sez. 6, n. 18755 del 16/04/2015, Scagnelli, Rv. 263550), tanto anche nel caso in cui la falsa accusa sia lanciata contro terzi dei quali l’imputato conosca l’innocenza (cfr. Sez. 1, n. 26455 del 26/03/2013, P.G., P.C. e Knox, Rv. 25567). Risulta evidente, da queste massime, che la giurisprudenza non individua il criterio di decisione nell’animus defendendi, ma sulla base di altri parametri ovvero con riferimento alla tipologia di dichiarazione nei quali l’animus si sia estrinsecato: dichiarazioni di un certo contenuto sono lecite altre delittuose.
Ai fini della individuazione del criterio distintivo tra le due fattispecie, altre decisioni di questa Corte, hanno individuato il criterio di giustificazione nel rigoroso rapporto funzionale tra l’accusa formulata dall’imputato e l’oggetto della contestazione a suo carico, affermando che non esorbita dai limiti del diritto di difesa l’imputato che, in sede d’interrogatorio di polizia giudiziaria a suo carico, definisca falso il rapporto soltanto per quanto attiene alla veridicità della denunzia in esso contenuta. Egli, pertanto, non è punibile a titolo di calunnia in danno dell’autore di detto rapporto, stante la presenza di una causa di esclusione della pena ex art. 51 cod. pen., in forza del legittimo esercizio del diritto di difesa, purché questo si svolga quale necessario strumento di confutazione dell’imputazione, secondo un rigoroso rapporto di connessione funzionale tra l’accusa (implicita o esplicita) formulata dall’imputato e l’oggetto della contestazione nei suoi confronti (Sez. 6, n. 8253 del 02/05/1984, Bottini, Rv. 165988), principio via via riaffermato nel corso degli anni (Sez. 6, n. 13309 del 20/11/2003, dep. 2004, Scarfone, Rv. 229238), e valorizzato in una più recente decisione che, ai fini della realizzazione di un equilibrio accettabile nella prospettiva del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost., ribadisce la centralità, nella ricostruzione dell’interprete sul piano dei rapporti tra le fattispecie, sulla individuazione della stretta correlazione funzionale tra il falso addebito e la confutazione dell’accusa a proprio carico.
Si è, così, affermato che in tema di calunnia, non esorbita dai limiti del diritto di difesa l’imputato che affermi falsamente davanti all’autorità giudiziaria fatti tali da coinvolgere altre persone, che sa essere innocenti, nella responsabilità per il reato a lui ascritto, purchè la mendace dichiarazione costituisca l’unico indispensabile mezzo per confutare la fondatezza dell’imputazione, secondo un rigoroso rapporto di connessione funzionale tra l’accusa (implicita od esplicita) formulata dall’imputato e l’oggetto della contestazione nei suoi confronti, e sia contenuta in termini di stretta essenzialità (Sez. 6, n. 14042 del 02/10/2014, dep 2015, P.G. in proc. Lizio, Rv. 262972). Il caso tipico d’applicazione del principio è quello della negazione (mendace) della verità dell’accusa che, per converso, significa allegazione della falsità delle dichiarazioni accusatorie, integrante gli estremi oggettivi costitutivi della calunnia. Il nesso di stretta correlazione funzionale, secondo questa esegesi, deve essere valutato con riferimento al caso concreto e non vi è motivo per non estendere le considerazioni innanzi svolte, con riferimento all’accusa rivolta verso terzi, anche all’accusa rivolta contro il proprio accusatore. In questa prospettiva, il delicato rapporto tra l’esercizio del diritto di difesa e l’incriminazione della calunnia, di cui la condotta presenta il tratto tipico, non si gioca sul terreno dell’articolazione del discorso o dell’attività difensiva, quanto, piuttosto, si concentra nella individuazione dei connotati di essenzialità ed ineluttabilità che, una volta maturata, da parte dell’interessato, una scelta di contestazione dell’accusa, deve caratterizzarne l’attività decettiva. Si è, del resto precisato, approfondendo la rilevanza del collegamento o nesso funzionale tra la condotta di calunnia e l’esercizio del diritto di difesa, che non assume decisiva rilevanza, al fine di ritenere slegata la dichiarazione accusatoria dall’esercizio del diritto di difesa, che la falsa dichiarazione accusatoria, per essere scriminata, sia generica (Sez. 6, n. 1767 del 11/12/2012, dep. 2013, Grasso, Rv. 254041), non accompagnata, cioè, da elementi fattuali circostanziali tali da farla apparire come vera (Sez. 6, n. 26019 del 13/06/2008, Cogliani, Rv. 240930), ovvero che dalle dichiarazioni discenda la “possibilità di inizio di un procedimento penale”, atteso che se il fatto oggetto della falsa incolpazione fosse strutturalmente inidoneo ad originare un procedimento penale, il reato di calunnia di per sé, oggettivamente, non sussisterebbe e, quindi, il tema della scriminante dell’esercizio del diritto di difesa non avrebbe ragione di porsi.
Ad avviso del Collegio, seguendo tale linea interpretativa, il discrimen oggettivo tra attività consentita e condotta calunniosa non scriminata va dunque individuato nella essenzialità, ineluttabilità e continenza della scelta di contestazione dell’accusa. L’affermazione infondata di colpa a carico di altri, sia essa esplicita od implicita, deve risultare in sostanza priva di ragionevoli alternative quale mezzo di negazione dell’addebito, a prescindere dal grado della sua specificazione e fermo restando il divieto di ogni attività decettiva che esuli dall’enunciazione della falsa accusa “essenziale” che, nelle modalità esecutive, deve essere contrassegnata da una stretta “continenza”. Certamente tale correlazione funzionale non sussiste per ogni ipotesi d’accusa che possa giovare alla tesi difensiva e parimenti va anche escluso che la condotta difensiva possa spingersi fino alla creazione o simulazione di elementi di conferma dell’accusa mendace (cfr. da ultimo, Sez. 1, n. 26455 del 26/03/2013, Knox, Rv. 255678). Nel caso di specie, dunque, la mancata risposta ai rilievi della difesa, quanto alla ricostruzione in fatto, ridonda palesemente nel vizio di motivazione dal momento che la laconicità delle argomentazioni svolte dalla Corte di appello non consente di ritenere accertato che il verbale di nomina dell’A. del 29 novembre 2009 fosse proprio allegato alla denuncia del 15 settembre 2011 e tanto, come anticipato, trova corrispondenza anche nella argomentazione, puramente assertiva, della Corte di appello sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato e sulla insussistenza della causa scriminante di cui all’art. 51 cod. pen. allegata dall’imputato. Si impone pertanto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata agli effetti penali per intervenuta prescrizione del reato. La medesima sentenza va annullata anche agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per nuovo e più approfondito esame in ordine alla sussistenza dei fatti ed alla loro riconducibilità all’illecito ascritto all’imputato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione. Visto l’art. 578 cod. proc. pen., annulla la sentenza, ai soli effetti civili, e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello.
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