Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 27940 depositata il 15 giugno 2021

bancarotta fraudolente per distrazione – bancarotta riparata – vanno ritenuti inammissibili i motivi di ricorso per cassazione non solo quando essi risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì allorché difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato

RITENUTO IN FATTO

1. La sentenza impugnata è stata emessa il 17 dicembre 2019 dalla Corte di appello di Ancona, che — su appello del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Fermo — ha ribaltato la decisione del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Fermo che aveva assolto M.L., D.M. e M.M. dal reato di bancarotta fraudolenta distrattiva in relazione alla società “V.C. s.r.l.”, dichiarata fallita dal Tribunale di Fermo il 18 aprile 2013. I tre sono stati chiamati a rispondere del reato suddetto nella seguenti qualità:

  • M.L., quale amministratore unico della fallita e della società “Immobiliare S.M.”, beneficiaria delle distrazioni;
  • D.M., quale socio della fallita e possessore di quote della “H. s.r.l.”, pure beneficiaria di distrazioni;
  • M.M., quale socio della fallita, possessore di quote della H. r.l. e rappresentante legale di quest’ultima.

In primo grado i tre, ammessi al rito abbreviato condizionato all’escussione di un proprio consulente di parte, erano stati assolti dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Fermo con la formula ‘perché il fatto non sussiste’. In appello vi è stata rinnovazione dell’istruttoria mediante l’escussione del curatore fallimentare.

La distrazione reputata sussistente dai Giudici di appello concerne, da una parte, il conferimento del ramo di azienda relativo all’attività immobiliare ed edilizia –  che ricomprendeva la piena proprietà del fabbricato sede della società – della “V.C. s.r.l.” – nella “Immobiliare S.M.”; dall’altra, la prosecuzione dell’attività della fallita in capo alla “H. s.r.l.”, attraverso un contratto di licenza d’uso dei marchi registrati per la produzione di calzature.

2. Contro l’anzidetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati a mezzo del comune difensore di fiducia, che ha predisposto un atto unico di ricorso.

2.1 Il primo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione quanto alla ritenuta natura distrattiva delle condotte, che le parti contestano con le riflessioni di seguito riportate.

2.1.1 Riguardo all’immobile sede dell’attività sociale della “V.C.”, conferito alla “Immobiliare S.M.”, i ricorrenti trascrivono uno stralcio della domanda di concordato preventivo, laddove è illustrata la finalità di tutela dei creditori deboli perseguita dall’operazione. Nell’imminenza del concordato, il 20 gennaio 2012, la “V.C.” ha esercitato il diritto di recesso dalla partecipazione nell’Immobiliare ed ha ottenuto indietro l’immobile mediante un contratto preliminare di assegnazione trascritto, così mettendo il bene a disposizione della curatela. Aggiungono i ricorrenti che l’operazione era finalizzata solo a “congelare” il patrimonio della V.C. fino alla presentazione della domanda di concordato. La funzionalità del conferimento dell’immobile a paralizzare iniziative di creditori “forti” rispetto ai “deboli” in attesa della proposizione della domanda di concordato si evince dalle date degli eventi, perché, il 23 agosto 2011, era stata costituita la “Immobiliare S.M.” con conferimento del ramo di azienda della V.C. s.r.l. relativo all’attività immobiliare ed edilizia, il 20 gennaio 2012 la V.C. s.r.l. aveva esercitato il recesso dalla Immobiliare, ottenendo la liquidazione della sua quota mediante restituzione del bene immobile (con un preliminare di assegnazione trascritto) e di una cifra in denaro; il 10 febbraio 2012 era stata presentata la prima domanda di concordato. L’operazione non era depauperativa perché l’immobile era nella piena disponibilità della curatela. I ricorsi, infine, si soffermano anche sulla differenza tra ipoteca e pignoramento.

2.1.2 In ordine alla concessione di licenza d’uso dei marchi alla H. r.l., i ricorrenti affermano trattarsi – come si legge nel ricorso per il concordato preventivo – di un’operazione tesa a dare continuità all’asset aziendale che, altrimenti, sarebbe stato disperso, operazione che oggi è possibile giusto il disposto dell’art. 186-bis legge fall. quanto al concordato con continuità aziendale, forma che, pur normativamente introdotta successivamente ai fatti di causa, era già esistente nella realtà aziendale, come sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità.

Peraltro il curatore ha affermato che sono stati ritrovati tutti i macchinari e i due marchi sono attualmente a disposizione della curatela, avendo salvaguardato il loro valore anche grazie al contratto di licenza in discorso, nel contempo lasciando a disposizione della curatela tutti gli asset aziendali, ivi compresi i marchi stessi, per il cui utilizzo la H. ha corrisposto alla V.C. e poi alla curatela le royalties. L’opinione del curatore, secondo cui la somma pattuita era antieconomica, non ha fondamento, dal momento che il medesimo curatore non ha effettuato alcuna valutazione del marchio. A seguire l’atto di ricorso contesta la convinzione manifestata dalla Guardia di Finanza secondo cui la H. non aveva la struttura aziendale necessaria per effettuare la produzione della merce, spiegando che essa si avvaleva di terzisti, previo acquisto delle materie prime.

In ordine alle materie prime, già il c.t., in occasione del primo concordato, le aveva fortemente svalutate.

2.2 Il secondo motivo di ricorso deduce erronea applicazione della norma civilistica sul contratto di assegnazione Tale forma negoziale “prenota” il bene per il promissario acquirente e qualsiasi trascrizione successiva non ha efficacia nei suoi confronti, sicché l’immobile può tornare nella disponibilità della V.C. per poi essere venduto per il soddisfacimento dei creditori. La curatela avrebbe potuto provvedere alla stipula del definitivo.

2.3 Il terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge quanto al coefficiente soggettivo della bancarotta fraudolenta distrattiva, che – secondo i ricorrenti – risiede nella prefigurazione che la condotta depauperativa cagionerà verosimilmente il dissesto. Di contro, le iniziative negoziali concernenti l’immobile ed i marchi di cui si è detto sono state concepite per preservare il patrimonio aziendale.

2.4 Il quarto motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

2.5 Il quinto motivo di ricorso lamenta violazione di legge quanto al trattamento sanzionatorio, reputato ingiustificatamente severo.

3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto dichiararsi ricorsi I primi due motivi – sostiene il Procuratore generale – non contengono la deduzione di specifici vizi, bensì costituiscono riproposizione della tesi difensiva, tesi disancorata dalle disposizioni della legge fallimentare e dagli istituti ivi previsti a tutela del corretto svolgimento delle procedure concorsuali. La trascrizione del contratto al quale si fa riferimento al terzo motivo è ininfluente con riguardo alla configurabilità della distrazione. Quanto al dolo generico, le disposizioni patrimoniali e le cessioni dei marchi e della attività sono operazioni dalla chiara valenza depauperativa ed incompatibili con la liquidazione volontaria che, in ragione della crisi, doveva essere posta in essere. Non sono dedotti vizi sindacabili in questa sede con riguardo alle attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio, sottolineandosi, a quest’ultimo proposito, che la pena è stata contenuta nel minimo edittale.

4. Non si dà atto dei contenuti della memoria dell’Avv. Simeone Valentini per gli imputati in quanto intempestiva, essendo stata inviata via PEC solo il 14 giugno 2021, cioè il giorno prima dell’udienza, in violazione dell’art. 23, comma 8, d.l. 137 del 2020, conv. dalla 176 del 2020, che prevede il deposito delle conclusioni scritte dei difensori non oltre il quinto giorno antecedente all’udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO 

I ricorsi sono inammissibili.

1. Al vaglio delle singole censure vanno fatte precedere alcune riflessioni di ordine generale.

1.1 Il Collegio è consapevole dello standard giustificativo imposto al Giudice del ribaltamento rispetto ad una decisione liberatoria in primo grado.

Un passaggio esegetico assolutamente centrale nella ricostruzione del paradigma argomentativo imposto al Giudice di appello dell’overturning è costituito da Sezioni Unite Mannino, secondo cui «il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato» (Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; in termini, Sez. 5, n. 15259 del 18/02/2020, Menna, Rv. 279255, in motivazione; Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, Rastegar, Rv. 254638; Sez. 5, n. 42033 del 17/10/2008, Pappalardo, Rv. 242330). In disparte la copiosa giurisprudenza delle sezioni semplici, il Collegio ricorda altresì che il dovere di motivazione rafforzata del Giudice della sentenza di ribaltamento della pronunzia liberatoria di prime cure è stato recepito – come concetto coessenziale alla giustificazione del ribaltamento nell’ottica del superamento del ragionevole dubbio – anche nella giurisprudenza delle Sezioni Unite successiva alla sentenza Mannino (tra tutte, cfr. Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, Rv. 275112; Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267491; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785, in motivazione).

Ciò posto, deve dirsi, in termini generali, che la Corte territoriale ha svolto correttamente lo scrutinio che l’ha condotta a sovvertire il verdetto assolutorio, dando atto delle motivazioni per le quali la sentenza di primo grado – che fondava sul recepimento integrale delle argomentazioni del consulente della difesa –  non aveva svolto una corretta valutazione del materiale probatorio.

1.2 Alla tenuta del ragionamento probatorio della Corte di merito si affianca, nella direzione dell’inammissibilità dei ricorsi oggi sub iudice, l’impostazione di questi ultimi che, al di là di una certa ricchezza argomentativa, hanno finito poi per non confrontarsi con tutte le osservazioni critiche svolte dai Giudici di appello rispetto al costrutto di primo grado.

Di contro, per molti aspetti, i ricorrenti hanno seguito una direttrice censoria in fatto, alternativa alla ricostruzione della Corte di appello, e non hanno contestato puntualmente le proposizioni della decisione avversata.

Militano nel senso dell’inammissibilità del ricorso, dunque, due principi di diritto più volte affermati da questa Corte.

In primo luogo, quello secondo cui, nel giudizio di legittimità, non è consentito invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete. Esula,

infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibé, Rv. 249651, in motivazione; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260). Più di recente si è sostenuto che, nel giudizio di cassazione, sono precluse al Giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 Ud., dep. 2021, F.; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; pronunzie che trovano precedenti conformi in Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, Cugliari, Rv. 233780; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507).

In secondo luogo, viene in gioco il principio a lume del quale vanno ritenuti inammissibili i motivi di ricorso per cassazione non solo quando essi risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì allorché difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (principio ribadito da Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtellì, Rv. 268823).

2. Tanto premesso, le doglianze – contenute nei primi tre motivi di ricorso – che attengono alle due operazioni ritenute distrattive vanno vagliate insieme, perché comportano, per alcuni aspetti, una riflessione comune.

2.1 Quanto alla pretesa natura non distrattiva dell’operazione che ha riguardato l’immobile sede della “V.C.” ovvero alla carenza del dolo della distrazione, il Collegio stima che il ricorso sia portatore di una propria ipotesi ricostruttiva che, da una parte, non si confronta con il costrutto della Corte di appello e, dall’altra, non contrasta efficacemente il ragionamento probatorio che si apprezza nella sentenza impugnata.

Di fondo i ricorrenti non criticano efficacemente e specificamente le osservazioni della Corte di merito a proposito della natura depauperativa del conferimento del ramo di azienda e dell’immobile  nel patrimonio della Immobiliare; tale conferimento, in uno alla licenza di uso dei marchi della “V.C.”, aveva fatto sì che la “H.” continuasse l’attività della fallita nella sede di quest’ultima – in cui era subentrata quando ancora la “V.C.” le occupava -, realizzando i prodotti recanti i suoi marchi e con una parte dei suoi dipendenti. Il tutto senza che l’immobile, a seguito della fuoriuscita della “V.C.” dalla “Immobiliare”, sia effettivamente rientrato nel patrimonio della prima, essendo solo stato stipulato un contratto preliminare di assegnazione, peraltro con un termine per la stipula del definitivo che cadeva quasi tre anni dopo, al 31 gennaio 2015, e che si colloca in data successiva alla dichiarazione di fallimento. Tanto il recesso della “V.C.” dalla “Immobiliare” e il preliminare non erano effettivamente riparativi rispetto alla ricostituzione del patrimonio della fallita, che il curatore ha dovuto affrontare tutte le attività necessarie per il recupero dell’immobile, sobbarcandosene  costi, intentando un’azione revocatoria ed optando, alla fine, nel giugno 2009, per una transazione, lasciando, nelle more, l’immobile nella disponibilità della “H.”. A quest’ultimo riguardo –  anche se i ricorrenti non hanno agitato il tema specifico –  appare utile il riferimento ad un precedente in tema di bancarotta cosiddetta riparata, che pare attagliarsi al caso di specie. Secondo Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261347, infatti, sussistono gli estremi della bancarotta per distrazione, e non quelli della bancarotta ‘riparata’, qualora l’attività restitutoria o riparatoria sia posta in essere in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento e per iniziativa del curatore.

In ordine all’asserita finalità protettiva dei creditori “deboli” dalle ragioni dei creditori “forti” – propugnata nel ricorso, quale causale dell’operazione di conferimento –  la tesi del ricorrente è manifestamente infondata laddove non solo non si comprende attraverso quale meccanismo tale protezione sarebbe avvenuta, ma anche quali fossero le ragioni per cui questa dovesse essere una preoccupazione del proponente il concordato; né si comprende perché la tutela dei creditori svantaggiati dovesse essere assicurata da un’operazione dai contenuti equivoci e decisa dalla società, invece che dalla formalizzazione della proposta concordataria, che avrebbe rimesso il tutto alle valutazioni degli organi competenti, secondo le regole della legge fallimentare, anche quelle poste a presidio della posizione dei creditori. Come ha efficacemente osservato la Corte di appello, «ci si trovava al di fuori delle logiche trasparenti (anche in tema di coinvolgimento del ceto creditorio) imposte dalle scelte concordatarie», riflessione non avversata dai ricorrenti.

Il  tutto a voler trascurare la circostanza –  debitamente rimarcata dalla Corte di merito – che entrambe le proposte concordatarie cui sarebbe stata funzionale l’operazione che si ritiene distrattiva sono state oggetto di rinunzia da parte della proponente e che tutte le società coinvolte nelle operazioni “incriminate” vedevano, in diversa misura, i medesimi soggetti coinvolti nella compagine societaria e nell’organo gestorio.

2.2 Avuto riguardo alla questione dell’utilizzo delle licenze relative ai marchi della “V.C.” concesse;, alla “H.”, in disparte quanto già osservato circa la complessiva natura distrattiva dell’operazione, il ricorso è aspecifico per diversi aspetti vagliati dalla Corte territoriale.

Il primo è quello della “evaporazione” di rimanenze di merci e materie prime per 1.800.000 euro di cui si legge nella sentenza impugnata, tanto più rilevante laddove, nella sostanza, la “H.” era stata creata ad hoc e continuava l’attività della fallita nella sede che era stata di quest’ultima.

Il secondo è che la seconda proposta concordataria, formulata quando già era entrata in vigore la norma sul concordato con continuità aziendale, non prevedeva quest’ultima ad onta della pretesa direzione delle operazioni reputate distrattive e consentire, appunto, la prosecuzione dell’attività della “V.C.”.

Il terzo è quello dell’antieconomicità dell’operazione in rapporto al canone pattuito ed anche alla sostanziale cessione dell’avviamento, poiché la “H.” si serviva delle attività, dei marchi, di parte dei dipendenti e aveva ereditato il pacchetto clienti della “V.C.”. A questo riguardo, l’osservazione della Corte di appello – lo si ripete, non contrastata dai ricorrenti – è corretta giacché la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 5, n. 5357 del 30/11/2017, dep. 2018, Sirna, Rv. 272108; Sez. 5, n. 3817 del 11/12/2012, dep. 2013, Agostini, Rv. 254474) ha statuito che, in tema di bancarotta fraudolenta, I’ avviamento commerciale dell’azienda è suscettibile di distrazione se, contestualmente, è stata oggetto di disposizione anche l’azienda medesima o quanto meno i fattori aziendali in grado di generare l’avviamento, potendo quest’ultimo rappresentare da solo l’oggetto materiale della distrazione in caso di assenza di adeguata contropartita. In questo caso, la licenza d’uso dei marchi – già conosciuti sul mercato e, quindi, costituenti elementi cruciali per la redditività dell’attività aziendale – peraltro ad un canone ritenuto non congruo, in uno con l’utilizzo dell’immobile sede della “V.C.” da parte della newco e di una consistente parte dei dipendenti –  ha comportato anche la distrazione dell’avviamento inteso quale plusvalore dell’azienda già avviata.

3. Il quarto motivo di ricorso – che lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche – è inammissibile perché manifestamente infondato giacché la Corte di appello ha adeguatamente motivato sul punto, facendo riferimento agli indici di natura personale e fattuale che hanno imposto di non accedere al trattamento di favore (i precedenti penali e la pluralità di attività distrattive). Tale interpretazione è ispirata alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il giudice, quando nega la concessione delle circostanze attenuanti generiche, non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma può limitarsi a fare riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti (Sez. 3, 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane e altri, Rv. 248244 ).

4. Il quinto motivo di ricorso – che lamenta violazione di legge quanto al trattamento sanzionatorio, reputato ingiustificatamente severo è manifestamente infondato in quanto gli imputati hanno riportato la condanna ad una pena attestata sul minimo edittale.

5. All’inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna di ciascuna parte ricorrente, ai sensi dell’art.616 cod. proc. pen. (come modificato l. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere i proponenti in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cast. 13/6/2000 n.186).

P.Q.M. 

dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.