Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 38042 depositata il 13 settembre 2019

reati fiscali – indebita compensazione

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Brescia provvedeva – a seguito di annullamento con rinvio disposto dalla Corte di cassazione – in ordine alle richieste di riesame proposte da – Omissis -, avverso il decreto di sequestro preventivo emesso in data 6 marzo 2017 dal Giudice per le indagini preliminari ai fini della confisca di numerosi beni intestati ai predetti. Per quanto qui di interesse, i Giudici del riesame: 1) annullavano il sequestro o ne riducevano l’importo avuto riguardo alle contestazioni del delitto previsto dall’art. 10 -quater d. lgs n. 74 del 2000 riportate ai capi 8, 9, 10, 12, 13, 14, 15, 19, 20, 21, 22 e 23; 2) riducevano l’importo del sequestro con riferimento alla contestazione del reato di cui all’art. 5 d. lgs. n. 74 del 2000 ascritto al capo 17; 3) per il resto, confermavano per l’intero la misura reale relativamente agli addebiti dei reati indicati ai capi 7), 11), 16), 18) e 24).

2. Il Tribunale, a giustificazione della decisione sopra indicata al punto 1), osservava che il reato di cui 10 -quater d. lgs. n. 74 del 2000, considerando correttamente la collocazione della sua previsione, non poteva ravvisarsi in relazione alle indebite compensazioni di somme non dovute a titolo di imposte sui redditi o sul valore aggiunto (e segnatamente per quelle relativi agli obblighi per contributi previdenziali e assistenziali) e che il profitto di tale reato andava fissato considerando il solo importo del debito compensato. Quanto al sequestro relativo al capo 17), il suo importo veniva commisurato alle omissioni delle dichiarazioni con imposta evasa oltre la soglia di punibilità. Con riguardo alle contestazioni ascritte a – Omissis -, quale consulente fiscale delle cooperative cui andavano riferiti i fatti delittuosi, il Tribunale rilevava che tale indagato aveva curato i bilanci e le dichiarazioni dei redditi degli enti suddetti, nonché l’invio dei modelli F24 relativi alle indebite compensazioni, cosicché doveva comunque ritenersi la sua consapevole partecipazione al sistema delle frodi reiteratamente posto in essere, anche con la compensazione di altri debiti. In ordine alle ulteriori obiezioni prospettate dalla difesa/ che censuravano l’esecuzione del sequestro per equivalente nei confronti degli indagati in assenza della prova dell’impossibilità di eseguirlo direttamente sulle disponibilità delle persone giuridiche che avevano tratto vantaggio dall’esecuzione dei reati tributari, l’ordinanza rilevava che non risultavano violati gli insegnamenti giurisprudenziali in materia, posto che il decreto, pur indicando specificatamente alcuni beni, aveva fatto riferimento al sequestro di ogni altra disponibilità in capo alle aziende indicate e poi, solo in caso di mancanza della capienza con riguardo a tali disponibilità, all’esecuzione sui beni degli indagati fino agli importi dovuti.

3. Avverso il suindicato provvedimento del Tribunale di Brescia propongono ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brescia, nonché, con un unico atto di impugnazione (tramite il comune difensore Avv. E. P.), – Omissis -.

4. Il ricorso del Pubblico ministero denuncia violazione di legge con riguardo alla decisione di annullamento del sequestro in relazione ai capi 8), 9), 10), 12), 13), 14), 15), 17), 19), 20), 21), 22) e 23), in forza dell’unico rilievo secondo cui non avrebbero potuto ritenersi punibili ex art. 10- quater d. lgs. n. 74 del 2000 le sole indebite compensazioni relative ai soli debiti fiscali, con la conseguente esclusione delle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali. Il ricorrente osserva che la lettura accolta dal provvedimento rnon solo non è conforme alla lettera e alle ratio di detto art. 10 -quater, ma anche risulta smentita dalla giurisprudenza pressoché unanime di legittimità – di recente asseverata anche dalla sentenza della Corte cost. n. 35 del 2018 – che ha chiarito come il titolo della legge non sia vincolante per l’interprete e sia piuttosto necessario considerare il richiamo dell’art. 17 d.lgs. n. 241 del 1997 per comprendere come le «somme dovute», oggetto dell’indebita compensazione di cui trattasi, possano essere tutte quelle di cui all’apposito «Modello F24», senza che quindi siano operabili distinzioni fra i debiti fiscali e quelli di diversa natura.

5. Il ricorso depositato dall’Avv. E. P., con un primo motivo, per tutti le parti private suindicate, lamenta violazione di legge e difetto di motivazione. Rileva che per potere aggredire il patrimonio delle persone fisiche, tramite il sequestro di cui trattasi, avrebbe dovuto comunque operarsi preliminarmente una valutazione, sia pur sommaria, circa le attuali disponibilità dell’ente avvantaggiato, sì da aversi una verifica sulla loro capienza o meno, mentre nella specie si era proceduto in assenza di ogni possibile rappresentazione al riguardo. Con un secondo motivo, nell’interesse del solo Santoro, il medesimo ricorso lamenta illogicità della motivazione, sul rilievo dell’omessa considerazione da parte dei giudici di merito della circostanza che i bilanci e le dichiarazioni, presentati per conto delle persone giuridiche da detto indagato, rispecchiavano esattamente la contabilità con la precisa indicazione di tutti i debiti tributari, la cui compensazione era poi avvenuta con operazioni curate dai soli rappresentati.

6. In una memoria, pervenuta il 29 marzo 2019 e sottoscritta dall’ Avv. A.C., quale difensore di – Omissis – , si rileva nell’interesse degli stessi/al fine di smentire quanto prospettato nel ricorso dal Pubblico ministero, che il richiamo dell’art. 17 d. lgs. n. 241 del 1997 contenuto nell’art. 10-quater d. lgs. n. 74 del 2000, considerando i criteri generali di predeterminazione della fattispecie penale – e in particolare modo di quella tributaria – non può di per sé valere a inglobare nella disposizione incriminatrice tutti i crediti e debiti di diversa natura citati nel medesimo articolo 17 di cui sopra. Si aggiunge che la sentenza Corte cost. n. 35 del 2018 contiene espressioni che invece manifestano dubbi circa la correttezza della tesi in questa sede sostenuta dalla pubblica accusa. Si espone, inoltre, che diverse sentenze della Corte di cassazione, pur senza entrare nel merito della questione, mostrano di presupporre pacificamente che il reato di cui trattasi può riguardare soltanto l’omesso versamento di imposte dirette e sul valore aggiunto, con esclusione pertanto delle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali. E ciò conformemente a un’interpretazione sistematica che possa correttamente coniugarsi con il contenuto delle ulteriori previsioni contemplate dagli artt. 1 lett. f) e g), 12- bis, 13 comma 1 e 13-bis del medesimo decreto legislativo. Si chiede pertanto il rigetto del ricorso, in subordine di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-quater sopra citato per contrasto con l’art.25 Cost. e, in ulteriore subordine, di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi debbono ritenersi infondati per le ragioni di seguito illustrate.

2. La ricostruzione fatta propria dal ricorso del Pubblico ministero afferma la configurabilità – negata invece dal provvedimento impugnato – del delitto di cui all’art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 in tutti i casi in cui l’indebita compensazione determini il mancato versamento di somme dovute, non solo a titolo di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ma anche agli altri titoli elencati ai fini della compensazione dall’art. 17 d. lgs. n. 241 del 1997, fra cui figurano gli obblighi di pagamento per contributi previdenziali e assistenziali.

2.1. Ci si oppone così a una lettura tesa a valorizzare la collocazione del reato in un testo di legge che, secondo il titolo, dovrebbe disciplinare i soli reati in materia di imposte dirette e sul valore aggiunto. Tale lettura, in effetti, come rilevato nel ricorso, è stata più volte disattesa dalla giurisprudenza di legittimità. Le relative pronunzie, dopo avere premesso che il titolo della legge non può vincolare l’interprete, osservano che la norma fa chiaro riferimento, tramite il richiamo dell’art. 17 d. lgs. n. 241 del 1997, a tutte le ipotesi di compensazione – tributarie e non – ivi contemplate e altrettanto indistintamente alle «somme dovute» (Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015, Rv. 263051; Sez. 3, n. 42462 del 11/11/2010, Rv. 248754; Sez. 2, n. 35968 del 20/05/2009, Rv. 245586).

2.2. Non può, tuttavia, affermarsi che la sentenza Corte cost. n. 35 del 2018, nel richiamare il suddetto orientamento di legittimità, si sia spinta oltre la sua mera descrizione (con i conseguenti effetti), allorquando ha rappresentato: «… la giurisprudenza prevalente è, peraltro, dell’avviso che il censurato art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, in ragione del suo tenore letterale, si presti a reprimere l’omesso versamento di somme attinenti a tutti i debiti – sia tributari, sia di altra natura -per il cui pagamento deve essere utilizzato il modello di versamento unitario (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 21-gennaio – 4 febbraio 2015, n. 5177; sezione seconda penale, 20 maggio – 16 settembre 2009, n. 35968): ciò, ancorché la disposizione risulti inserita in un testo normativo – il d. lgs. n. 74 del 2000 – che, come emerge anche dal suo titolo, è posto per il resto a presidio unicamente delle imposte dirette e dell’IVA. In questa prospettiva, risponderebbe del delitto in esame non solo – come è pacifico – chi ometta di versare imposte dirette o l’IVA utilizzando in compensazione crediti concernenti altre imposte (anche regionali) o crediti di natura previdenziale, ma anche chi si avvalga di analogo artificio per evitare di corrispondere tali ultime imposte ovvero contributi dovuti a enti di previdenza». La stessa sentenza, in ultimo, a proposito dell’individuazione della soglia di punibilità – oggetto dei rilievi di costituzionalità avuto riguardo al suo confronto con quella prevista per la dichiarazione infedele – ha affermato: «… anche qualora si ritenga che l’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000 tuteli unicamente l’imposizione diretta e sul valore aggiunto, il richiesto innalzamento della soglia di punibilità dell’illecito a 150.000 euro non verrebbe, in ogni caso, neppure esso a garantire l’auspicata equiparazione del trattamento delle due fattispecie poste in comparazione: sotto il profilo indicato, il delitto di cui all’art. 10-quater del d. lgs. n. 74 del 2000 resterebbe soggetto a un regime (sia pure in misura ridotta, ma comunque sia) più severo di quello riservato alla dichiarazione infedele».

2.3. All’indirizzo giurisprudenziale di legittimità sopra citato espressamente aderisce la più recente decisione Sez. 3, n. 8689 del 30/10/2018, dep. 2019, Rv. 275015, anche se la sua motivazione (pag. 4) contiene indicazioni che mostrano di non trascurare il significato della collocazione della fattispecie incriminatrice all’interno del d. lgs. n. 74 del 2000. Infatti, viene delineata una struttura asimmetrica dell’art. 10 -quater e la si qualifica come compatibile con la ratio complessiva del citato decreto, in quanto esso è diretto a sanzionare le violazioni in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e, dunque, prende in considerazione soltanto tali tipologie di tributi sul lato passivo, ma non anche su quello attivo, potendo così venire in rilievo, quale strumento per diminuire artificiosamente l’entità dell’imposta da versare, qualunque tributo o contributo che possa opporsi in compensazione secondo le disposizione dettate in materia.

2.4. Sennonché, proprio tale struttura asimmetrica, a parere di questo Collegio, assevera l’impostazione alla base della tesi recepita dalla decisione qui impugnata: si ha un indistinto riferimento all’art. 17 d. lgs. n. 241 del 1997 in virtù della considerazione di tutti i crediti ivi contemplati in quanto idonei alla compensazione, mentre l’indebito risultato della condotta fraudolenta, ossia l’omesso versamento delle somme dovute, riguarda solamente le imposte sui redditi e sul valore aggiunto e non già, in assenza di pertinenti specificazioni, inadempimenti di altro genere dei quali l’intero testo normativo non si occupa. Questa lettura non è semplicemente coerente con la collocazione della fattispecie all’interno di un decreto legislativo, che disciplina i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ma appare la sola in linea, sul piano sistematico, con le «Disposizioni comuni» contenute nel Titolo III, che, quando specificano gli importi dovuti così come presi in considerazione dalle previsioni incriminatrici, si confrontano unicamente con debiti tributari e imposte evase. A tal proposito risultano particolarmente indicative le disposizioni contenute nell’art. 13, comma 1, che, riferendosi indistintamente alle fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 10 -bis, 10 -ter e 10 -quater, disciplinano la speciale causa di non punibilità del pagamento del debito tributario in termini che non possono avere alcuna compatibilità con obblighi come quelli relativi ai contributi previdenziali e assistenziali, ossia con quei debiti che, seguendo il sopracitato orientamento di legittimità, potrebbero rappresentare i soli ai quali riferire il mancato pagamento che vale a integrare il reato previsto dall’art. 10- quater citato. Una parificazione fra le tre predette fattispecie da cui può, quindi, trarsi la conferma che quella contemplata dalla norma appena menzionata, come le altre due, punisce sempre e solo l’omesso versamento delle succitate imposte. Né appaiono concretamente ravvisabili gli ostacoli applicativi che, secondo il predetto indirizzo, si avrebbero nel caso di un credito fittizio incidente su partite debitorie sia fiscali che non fiscali, dal momento che, proprio le operazioni di riduzione degli importi che vengono descritte nella decisione qui contestata dall’accusa, dimostrano come la scomposizione, al fine di individuare le sole somme da considerare dovute a titolo di imposte, sia agevolmente praticabile.

2.5. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso del Pubblico ministero va, dunque, rigettato essendo infondati i rilievi che esso rappresenta.

3. In ordine al primo motivo del ricorso nell’interesse delle parti private, va rilevato che il provvedimento impugnato dà conto della necessità della verifica dell’incapienza delle disponibilità dell’ente favorito dal reato tributario prima di potere procedere al sequestro per equivalente dei beni di chi abbia agito per tale ente. La motivazione considera al riguardo che gli unici beni indicati come singolarmente individuati, a fronte degli accertamenti avvenuti, non sono quelli appartenenti alle persone giuridiche; mentre/ per il resto/ era stato considerato che/ comunque il vincolo reale avrebbe potuto riguardare il patrimonio aziendale. Si rileva, inoltre, che era stato previsto che l’incapienza di tali disponibilità avrebbe aperto la strada all’opzione – necessaria – del vincolo sui beni personali. Le considerazioni del Tribunale sulle spiegazioni intervenute manifestano il convincimento, fondato su argomenti specifici, che una verifica preliminare sia stata nella specie rappresentata già nel momento precedente all’esecuzione, altrimenti non si sarebbe fornita l’indicazione del reperimento dei soli beni personali, con l’aggiunta di accenni solo generici a ipotetiche disponibilità aziendali, accompagnata dalle disposizioni circa l’aggredibilità dei beni personali. Tanto chiarito, le censure mosse sul punto dalla difesa, accomunando genericamente tutte le posizioni dei citati indagati, quando fanno riferimento alla violazione di legge, che è il solo vizio qui deducibile (art. 325, comma 1, cod. proc. pen.), mostrano in definitiva/di opporsi a spiegazioni comunque approntate con una motivazione concernente il tema specifico. Esse, leggendo le disposizioni in materia secondo la giurisprudenza di legittimità che citano, adducono un apparato argomentativo che certamente non può ritenersi solo apparente e che, diversamente da quanto rilevato tramite le doglianze, non ha sostituito quello sul punto del decreto, ma si è piuttosto preoccupato di illustrare la sua sufficienza. Pertanto, le censure non possono rappresentare il vizio di violazione di legge che indicano, rimanendo per il resto inammissibili i rilievi rivolti alla motivazione.

4. Il secondo motivo del medesimo ricorso, concernente la sola posizione dell’indagato Santoro, fa riferimento unicamente all’illogicità della motivazione. Le censure che vengono concretamente rappresentate attengono soltanto a tale vizio. Sicché, con evidenza si tratta di un motivo inammissibile, in quanto in materia, come rilevato, il ricorso è consentito unicamente per violazione di legge.

5. Ne discende il rigetto del ricorso del Procuratore della Repubblica, così come di quelli degli altri ricorrenti, con condanna di questi ultimi al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso del Procuratore della Repubblica e quelli dei restanti ricorrenti che condanna al pagamento delle spese processuali.