Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 38596 depositata il 13 agosto 2018
RITENUTO IN FATTO
1. Il sig. FF ricorre per l’annullamento della sentenza del 29/03/2017 della Corte di appello di Palermo che, rigettando la sua impugnazione, ha confermato la condanna alla pena (condizionalmente sospesa) di un anno di reclusione inflitta dal Tribunale di Marsala per il reato di cui all’art. 10, d.lgs. n. 74 del 2000.
1.1.Con il primo motivo, deducendo la natura non commerciale dell’attività svolta dall’associazione culturale senza scopo di lucro “Hera”, da lui rappresentata, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 2214 cod. civ., in relazione all’art. 2195 cod. civ., e vizio di mancanza di motivazione sul punto.
Deduce, al riguardo, che le poche fatture emesse per l’attività di sponsorizzazione svolta in favore dei clienti (15 per l’anno 2007, 4 per l’anno 2008, 7 per l’anno 2009) non alterano la finalità e la natura culturale dell’associazione emittente, anche perché, prosegue, le prestazioni fatturate non hanno natura commerciale. Si tratta di fatti che non sono sufficienti a qualificare l’associazione come impresa commerciale soggetta, in quanto tale, all’obbligo di tenuta della contabilità previsto dall’art. 2214 cod. civ. Sarebbe sufficiente, sul punto, applicare analogicamente il criterio stabilito, per gli enti pubblici, dall’art.2201 cod. civ. secondo il quale la natura commerciale dell’ente va rapportata alla esclusività o prevalenza dell’attività effettivamente esercitata.
1.2. Con il secondo motivo, deducendo la mancanza di prova della istituzione e del successivo occultamento o distruzione delle scritture contabili, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., la illogicità e l’insufficienza della motivazione posto che la Corte di appello ha liquidato l’argomento difensivo affermando puramente e semplicemente che l’imputato non aveva prodotto le fatture e le scritture contabili che i funzionari dell’Agenzia delle Entrate gli avevano chiesto di esibire.
1.3. Con il terzo motivo, sviluppando gli argomenti dedotti con il secondo, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione della norma incriminatrice, inapplicabile in caso di omessa istituzione della contabilità della quale si predica l’occultamento ovvero la distruzione.
1.4. Con il quarto motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza di motivazione sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Deduce, al riguardo, che il fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto presuppone l’effettivo pagamento della prestazione fatturata e che nel caso di specie manca del tutto la prova di tale pagamento. Sicché, ammesso e non concesso La questione, pur devoluta alla Corte di appello, non è stata affrontata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2.11 ricorso è inammissibile.
3.11 primo motivo è generico e manifestamente infondato.
3.12 imputato risponde del reato di cui agli artt. 81, cpv., cod. pen., 10, d.lgs. n. 74 del 2000, perché, quale legale rappresentante della “Associazione CN”, esercente attività commerciale per la fornitura di servizi pubblicitari, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, occultava o comunque distruggeva documenti dei quali è obbligatoria la conservazione e, in particolare, 15 fatture emesse nell’anno 2007 (per un imponibile di € 140.217,00), 4 fatture emesse nell’anno 2008 (per un imponibile di € 66.000,00), 7 fatture emesse nell’anno 2009 (per un imponibile di C 42.180,00). Il fatto è contestato come accertato in Castelvetrano il 10 dicembre 2012.
3.2. In termini generali, non sono considerate attività commerciali le prestazioni di servizi poste in essere dai cd. “enti non commerciali” di cui all’art. 73, comma 1, lett. c), d.P.R, n. 917 del 1986 (T.U.I.R.) che non rientrano nell’art. 2195 cod. civ., rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di produzione (art. 143, comma 1, T.U.I.R.). Ai sensi dell’art. 148, comma 3, T.U.I.R., inoltre, non sono considerate commerciali le attività svolte dalle associazioni ivi espressamente indicate (e, tra queste, quelle culturali) in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni criminali. Tuttavia, in nessun caso, le prestazioni aventi ad oggetto pubblicità commerciale possono essere considerate non commerciali, anche se erogate a favore dei soggetti indicati dal citato comma 3 (art. 148, comma 4, lett. d, T.U.I.R.). Inoltre, l’emissione della fattura costituisce fatto costitutivo dell’obbligo di registrazione nell’apposito registro di cui all’art. 23, d.P.R. n. 633 del 1972 che, a norma del successivo art. 39, deve essere tenuto in conformità a quanto prevede l’art. 2219 cod. civ. e numerato progressivamente in ogni pagina.
3.3. Ne consegue che:
a) le prestazioni aventi ad oggetto pubblicità commerciale costituiscono oggettivamente prestazioni di servizi ai sensi dell’art.2195, comma 1, n. 1, cod. civ., e hanno dunque natura commerciale a fini fiscali;
b) la natura commerciale di tali prestazioni non è esclusa nemmeno se vengono rese a favore dei soggetti indicati dall’art. 143, comma 3, TUIR;
c) l’emissione di fatture comporta comunque l’obbligo di istituire e tenere il registro delle fatture emesse (o dei corrispettivi) e di conservare la fatture stesse.
3.4. Basterebbero queste notazioni per qualificare come manifestamente infondato il primo motivo la cui genericità deriva, quale ulteriore profilo di inammissibilità, dalle seguenti considerazioni che si pongono in linea con le specifiche eccezioni proposte dal ricorrente:
3.4.1. oggetto materiale della condotta specificamente ascritta all’imputato sono le fatture emesse, non la contabilità d’impresa;
3.4.2. I’importo delle fatture è tutt’altro che modesto ed è tale da legittimare la conclusione logica che le prestazioni fatturate non fossero episodiche e marginali;
3.4.3.peraltro, come notava il primo giudice, le uniche fatture rinvenute presso terzi presentavano numerazioni discontinue, sì da far ritenere l’esistenza di altre mai rinvenute (circostanza non contestata);
3.5. la conservazione delle fatture è imposta, ai fini fiscali, dagli artt. 39, comma terzo, d.P.R. n. 633 del 1972, e 22, d.P.R, n. 600 del 1973, oltre che, a fini civilistici, dall’art. 2214, comma secondo, cod. civ. (sicché è del tutto ininfluente, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 10, d.lgs. n. 74 del 2000, la qualifica imprenditoriale o meno del soggetto emittente);
3.5.1.il ricorrente non ha nemmeno contestato che l’associazione da lui rappresentata, pur costituita nell’anno 2001, già da epoca precedente al 2007 non aveva più svolto alcuna attività, sicché quelle fatturate risultano le uniche prestazioni poste in essere negli anni 2007-2009;
3.5.2.tale considerazione si salda all’argomento di diritto secondo il quale l’esenzione d’imposta prevista dall’art. 148, d.P.R. n. 917 del 1986 in favore delle associazioni non lucrative, dipende non solo dall’elemento formale della veste giuridica assunta, ma anche dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro (Cass. civ., Sez. 5, n. 16449 del 05/08/2016, Rv. 640774 – 01; Cass. civ., Sez. 5, n. 22578 del 11/12/2012, Rv. 625041 – 01).
4. Il secondo e il terzo motivo, comuni per l’oggetto, possono essere esaminati congiuntamente.
4.1.Costituisce principio di diritto assolutamente prevalente, che il Collegio condivide e ribadisce, quello secondo il quale il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, di cui all’art. 10, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, presuppone l’istituzione della documentazione contabile e la produzione di un reddito e pertanto non contempla anche la condotta di omessa tenuta delle scritture contabili, sanzionata amministrativamente dall’art. 9, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (Sez. 3, n. 1441 del 12/07/2017, Andriola, Rv. 272034; Sez. 3, n. 19106 del 02/03/2016, Chianese, Rv. 267102; Sez. 3, n. 38224 del 07/10/2010, Di Venti, Rv. 248571).
4.2. Come già detto, l’oggetto materiale della condotta contestata con il capo di imputazione è costituito dalle fatture, non dalla contabilità di impresa (la cui effettiva istituzione il ricorrente eccepisce costituire argomento difensivo negletto in sede di appello). Ora, non v’è dubbio che la fattura, essendone obbligatoria la conservazione a fini fiscali, rientra a pieno titolo nella definizione di documento penalmente rilevante ai sensi dell’art. 10, d.lgs. n. 74 del 2000.
4.3. Normalmente, esclusi i casi che qui non ricorrono (e che comunque non sono stati dedotti), la fattura cartacea deve essere compilata in duplice esemplare, di cui uno è consegnato all’altra parte (art. 21, comma 4, d.P.R. n. 633 del 1972). Per cui, il rinvenimento, presso il cliente, dell’esemplare della fattura emessa legittima, sul piano logico, la conclusione che il fornitore abbia emesso l’esemplare di sua competenza, ancorché non rinvenuto in sede di accertamento. Se poi, come nel caso in esame, le fatture rinvenute presso i clienti recavano numeri discontinui (circostanza mai contestata) è del tutto ragionevole ritenere che di fatture ne esistessero altre, occultate o distrutte.
4.4. In ogni caso, il ricorrente:
4.4.1. non ha mai dedotto di non aver emesso gli esemplari delle fatture di sua competenza;
4.4.2. ha implicitamente ammesso egli stesso di aver istituito la contabilità della quale aveva denunciato il furto.
5. L’ultimo motivo è manifestamente infondato.
5.1. il ricorrente deduce che non v’è prova dell’evasione dell’imposta (e del corrispondente dolo) perché non v’è prova dell’effettivo pagamento dei corrispettivi pattuiti e, dunque, dell’esistenza di ricavi soggetti tanto a imposta diretta quanto a imposta sul valore aggiunto.
5.2. Sennonché, in caso di imposta sul valore aggiunto, il fatto costitutivo dell’obbligazione tributaria è rappresentato anche dalla sola emissione della fattura, sopratutto se l’emissione precede il pagamento del corrispettivo (art. 6, comma quarto, d.P.R. n. 633 del 1972). Tale conclusione è valida anche nell’ipotesi in cui la fattura venga emessa per operazioni inesistenti ovvero per corrispettivi superiori a quelli reali (art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633 del 1972).
5.3. Ne consegue che il ricorrente era tenuto al pagamento dell’imposta sul valore aggiunto documentata dalle fatture emesse e non rinvenute presso di lui.6.Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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