Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 10075 depositata il 15 aprile 2024
accertamento sintetico – onere della prova contraria a carico del contribuente
RILEVATO CHE
1. R.R. ricorre con due articolati motivi avverso l’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, contro la sentenza indicata in epigrafe, che ha rigettato l’appello del contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento sintetico del reddito per l’anno di imposta 2008.
2. Con la sentenza impugnata, la C.t.r. non ravvisava <<elementi per modificare l’esauriente giudizio già espresso dai primi Giudici che hanno, con dettagliata ed esauriente motivazione, ritenuto privi di pregio i motivi di opposizione esposti dal ricorrente, constatando, pertanto, la legittimità e fondatezza dell’atto impositivo ed evidenziando che non risulta pienamente provata la sussistenza contabile del credito, anche perché si tratterebbe di ingenti somme anticipate nel corso degli anni. Del resto, la parte, in questo grado di giudizio, non aggiunge, sostanzialmente, molto alle sue motivazioni né risultano sussistere, dall’esame degli atti, i vizi di cui alle eccezioni esposte>>.
Inoltre, con riferimento all’avviso di accertamento, la C.t.r. riteneva che esso fosse adeguatamente motivato ed, in ordine alla prova contraria di parte contribuente, rilevava che l’accertamento scaturiva, in gran parte, da una cessione di quote societarie di ingente ammontare, il cui regolamento sarebbe stato effettuato mediante compensazione di crediti vantati, nel corso degli anni, dal ricorrente nei confronti della società cedente, la cui sussistenza, però, non risultava sufficientemente provata contabilmente. La C.t.r. precisava che la produzione delle relative fatture non era sufficiente, da sola, a provare quanto sostenuto dal contribuente senza un riscontro contabile e documentale di entrambi i contraenti, aggiungendo che il contratto di cessione risultava alquanto generico sulle modalità di pagamento del corrispettivo, nonostante l’ingente ammontare della cifra e la particolarità del caso ne imponesse una dettagliata descrizione, limitandosi ad indicare che il corrispettivo poteva essere pagato “anche” mediante compensazione di eventuali crediti vantati dall’impresa cessionaria. In merito, poi, ai registri Iva, la C.t.r. osservava che, nelle registrazioni, non veniva indicato l’aspetto finanziario della fattura ma solo la sua emissione e, pertanto, non risultava se la fattura era stata o meno pagata.
3. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 3 aprile 2024, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 – bis. 1 cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31.08.2016, n.168, conv. dalla legge 25 ottobre 2016, n.197.
CONSIDERATO CHE
1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione dell’art.7 legge n.212/2000 e 42 d.P.R. n.600/1973, in relazione all’art.360, primo comma, nn.3 e 4, cod. proc. civ., deducendo la carenza di motivazione dell’avviso di accertamento.
1.2. Il motivo è inammissibile sotto molteplici profili, in quanto è rivolto alla diretta impugnazione dell’atto impositivo, e non della sentenza di appello, e risulta generico, non riportando, neanche riassuntivamente, la motivazione dell’avviso di accertamento.
2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso, in relazione all’art.360, primo comma, n.5, cod. proc. civ., in quanto il contratto di cessione di quote ed i registri Iva sarebbero stati idonei a giustificare il presunto maggior reddito accertato dall’ufficio (punto 2.2 ). Inoltre, il ricorrente denunzia il difetto di motivazione della sentenza e la nullità di quest’ultima, che non si è pronunziata sul fatto che l’immobile oggetto di accertamento era adibito a residenza familiare del contribuente e non era produttivo di reddito (punto 2.3.), né sui costi per il personale dipendente (punto 2.4).
2.2. Il secondo motivo va accolto nei limiti della censura di cui al punto 2.4. ossia l’ultima.
Com’è noto, l’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis, ha tracciato la disciplina del metodo di accertamento sintetico del reddito prevedendo, da un lato, la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento (quarto comma); dall’altro (quinto comma), contemplando le «spese per incrementi patrimoniali», cioè quelle sostenute per l’acquisto di beni destinati ad incrementare durevolmente il patrimonio del contribuente.
In tale quadro di disciplina, infine, è stata fatta salva la prova contraria, da parte del contribuente, consistente nella dimostrazione documentale della sussistenza e del possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, o, più in generale, nella prova che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (sesto comma).
Ciò premesso, questa Corte ha ripetutamente affermato che siffatta presunzione legale relativa comporta che il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici elementi indicatori di capacità contributiva esposti dall’ufficio, non possa privarli del valore connesso dal legislatore alla loro disponibilità, ma unicamente valutarli insieme con la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale delle somme necessarie per mantenere il possesso di tali beni (v. ad es. Cass. n. 37985/2022; Cass. n. 1980/2020; Cass. n. 10266/2019).
Costituisce, quindi, principio consolidato quello secondo cui << In tema di accertamento cd. sintetico, ove il contribuente deduca che la spesa effettuata deriva da risorse di natura non reddituale di cui ha goduto il proprio nucleo familiare, ai sensi dell’art. 38, comma 6, d.P.R. n. 600 del 1973 (applicabile “ratione temporis”), per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva a tali ulteriori redditi, è onerato della prova contraria in ordine alla loro disponibilità, alla loro entità ed alla durata del relativo possesso, sicché, sebbene non debba dimostrarne l’utilizzo per sostenere le spese contestate, è tenuto a produrre documenti da cui emergano elementi sintomatici del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere>> (Cass. n.1510/2017; conf. Cass. n. 29067/2018 e n.16637/2020).
La prova incombente sul contribuente non è comunque tipizzata, sicché essa può essere data con qualsiasi mezzo idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale dell’elemento accertato dal Fisco e la durata del possesso (cfr. Cass. n.28157/2020).
Al fine di meglio delimitare l’ambito della prova contraria gravante sul contribuente, questa Corte ha precisato che la prova documentale richiesta dalla norma in grado di superare la presunzione di maggiore reddito ben può essere fornita con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo alla parte contribuente, idonei a dimostrare, mediante l’indicazione dell’entità dei redditi e delle date dei movimenti, anche la «durata» del possesso dei redditi e, quindi, non il loro semplice «transito» nella disponibilità del contribuente (Cass., sez. 6-5, 16/05/2017, n. 12214; Cass. sez. 6 – 5, 16/05/2018, n. 12026; Cass., sez. 6-5, 23/03/2018, n. 7389).
Nella specie, il contribuente sostiene che il pagamento della cessione di quote societarie, di ingente ammontare, sarebbe stato effettuato mediante compensazione dei crediti vantati, nel corso degli anni, dal ricorrente nei confronti della società cedente; tuttavia la C.t.r. ha ritenuto che non avesse dimostrato tale assunto, non essendo sufficienti a tal fine le fatture emesse nel corso degli anni nei confronti della società cedente, il cui mancato pagamento non era stato in alcun modo dimostrato. Pertanto la C.t.r. giungeva ad escludere che parte contribuente avesse dimostrato la sussistenza del credito che sarebbe stato oggetto di compensazione, con una valutazione di merito diffusamente argomentata ed insindacabile in questa sede.
Residuano le censure relative al computo, quale bene indice ai fini dell’accertamento, dell’abitazione familiare ed ai costi per il personale dipendente, che, reiterate nell’atto di appello, effettivamente non risultano esaminate dal giudice di secondo grado.
Deve, però, rilevarsi che, per quanto riguarda l’immobile di abitazione, come ritenuto dal giudice di prime cure con statuizione confermata in appello, l’accertamento non fa riferimento all’immobile come fonte di reddito, ma solo per la valutazione dei costi sostenuti dal ricorrente ai fini del pagamento del mutuo. Dunque la censura avanzata con il ricorso in cassazione, relativa al fatto che l’immobile non fosse produttivo di rendita, perché adibito ad abitazione della famiglia del contribuente, appare inammissibile perché inconferente.
Con riferimento, invece, ai costi per personale dipendente, sebbene la doglianza sia posta come omesso esame di un fatto decisivo e controverso, ex art.360, primo comma, n.5, cod. proc. civ., il contribuente, nell’illustrazione del motivo di ricorso, denunzia la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione.
Sotto tale profilo, effettivamente la sentenza impugnata appare viziata, in quanto il giudice non esamina in alcun modo la censura limitandosi ad un iniziale generico rinvio alla sentenza di primo grado. In conclusione il ricorso va accolto limitatamente a tale censura (2.4) con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, sezione staccata di Catania, che provvederà anche sulla spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, nei limiti di cui in motivazione, rigettato per il resto; in tali limiti cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, sezione staccata di Catania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.
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