Corte di Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 9157 depositata il 7 aprile 2025

sussiste – giudizio abbreviato – sentenza ex art. 530, 2°, cod. proc. pen. – art. 21- bis d.lgs. n. 74/2000 – incidenza – condizioni

FATTI DI CAUSA

1. —– Spa impugnava l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate per l’anno d’imposta 2016 con cui recuperava a tassazione l’Iva indebitamente detratta in relazione alla realizzazione di operazioni soggettivamente inesistenti intercorse con D. I. Srl.

2. Il ricorso veniva rigettato dalla Commissione tributaria provinciale (CTP) di Roma. La sentenza era confermata dalla CTR in epigrafe, che riteneva provata l’oggettiva fittizietà del fornitore e la consapevolezza nel destinatario che l’operazione di inseriva in una frode carosello.

3. La contribuente propone ricorso per cassazione con quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

4. In applicazione dell’ art. 380 bis , primo comma, cod. proc. civ. (nel testo sostituito dall’ art. 3 , comma 28, lett. g), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 ), il Consigliere delegato ha formulato proposta di definizione del giudizio, ritenendo manifestamente infondato il primo motivo e inammissibili gli altri.

La ricorrente, con tempestiva istanza, ha chiesto la decisione del ricorso. Chiedeva, inoltre, la riunione con i paralleli giudizi, relativi agli anni d’imposta 2015 (NRG 25372/2023) e 2014 (NRG 9432/2021).

5. Fissato il ricorso all’adunanza camerale, la società, in prossimità dell’udienza, ha depositato memoria con cui chiedeva, in applicazione dell’ art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 , l’accoglimento del ricorso attesa l’assoluzione, come da sentenza prodotta, con la formula “il fatto non sussiste” del legale rappresentante della società.

6. Il ricorso veniva pertanto rinviato per la trattazione in pubblica udienza, in prossimità della quale la società depositava memoria ex art. 378 cod. proc. civ., con cui insisteva per l’accoglimento del ricorso sia in relazione all’ art. 12-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 , sia in relazione all’ordinanza n. 33789/2024, con cui era stato rigettato, con riguardo all’anno d’imposta 2014, il ricorso dell’Agenzia delle entrate.

7. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente va disattesa l’istanza di riunione trattandosi di ricorsi e riprese comunque riferibili ad annualità diverse, con ragioni di doglianza in parte differenti.

2. È infondata, in secondo luogo, l’eccezione di giudicato relativa all’ordinanza n. 33789/2024.

L’invocata decisione è inidonea a produrre gli effetti di giudicato nel presente giudizio riguardando una diversa annualità d’imposta e non anche il “medesimo rapporto giuridico”.

La ripresa, infatti, è strettamente ancorata alle attività realizzate nelle singole annualità e ciò, tanto più che vertendosi, come nella specie, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, si tratta di valutazione necessariamente ancorata alle attività svolte di anno in anno.

Di ciò, del resto, dà atto la stessa ordinanza n. 33789/2024 che, nel rigettare il ricorso poiché le censure dell’Agenzia delle entrate attingevano la motivazione della sentenza d’appello, ha evidenziato che “il giudice d’appello ha, difatti, ritenuto che il ricarico dovesse ritenersi adeguato in relazione a tale periodo d’imposta, sia alla luce della non omogeneità del campione di aziende offerte dall’Ufficio, sia alla luce del fatto che “quello era il primo anno in cui la società contribuente aveva ampliato la sua attività” in quel settore merceologico”.

Si tratta, dunque, di attività ed operazioni prive del carattere “di esecuzione prolungata”, neppure riferibili a fatti ad “efficacia permanente o pluriannuale” (v. Cass. n. 38950 del 07/12/2021 , che ha precisato che “la sentenza del giudice tributario con la quale si accertano il contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato anno d’imposta fa stato, nei giudizi relativi ad imposte dello stesso tipo dovute per gli anni successivi, ove pendenti tra le stesse parti, solo per quanto attiene a quegli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi di imposta, assumano carattere tendenzialmente permanente, mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando l’accertamento relativo ai diversi anni si fondi su presupposti di fatto relativi a tributi differenti ed a diverse annualità“).

3. Passando all’esame del ricorso, il primo motivo denuncia, ai sensi dell’ art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., 2697 cod. civ., 654 cod. proc. pen. e 20 D.Lgs. n. 74 del 2000 per non aver la CTR tenuto conto dell’efficacia vincolante del giudicato esterno della sentenza penale irrevocabile n. 1523/2020 del Tribunale di Roma, che ha assolto il legale rappresentante della società con la formula “perché il fatto non sussiste”, non uniformando la decisione a tale giudicato esterno.

Con la memoria, la ricorrente insiste per l’accoglimento del motivo anche alla luce della sopravvenuta disposizione di cui all’ art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 , introdotta dal D.Lgs. n. 87 del 2024 .

In subordine, eccepisce l’illegittimità costituzionale della norma ove non riconosce l’efficacia di giudicato anche alle sentenze emesse dal GUP a seguito di giudizio abbreviato.

4. Il motivo è infondato, ancorché la doglianza debba essere valutata alla luce della nuova norma di cui all’ art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 , la cui applicazione è stata invocata dalla società.

5. L’ art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 , introdotto dall’ art. 1 , comma 1, lett. m), D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 , ha disposto:

Art. 21-bis (Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione).

1. La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi.

2. La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio.

3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati“.

5.1. La norma è già stata oggetto di alcune prime considerazioni da parte della Corte (v. Cass. 31 luglio 2024, n. 21584 ; Cass. 3 settembre 2024, n. 23570 ; Cass. 3 settembre 2024, n. 23609 ; Cass. 11 ottobre 2024, n. 16584; Cass. 2 dicembre 2024, n. 30814 ; Cass. 3 dicembre 2024, n. 30900 ; Cass. 16 gennaio 2025, n. 1021 ), che ne ha valutato l’immediata operatività con riguardo a decisioni penali preesistenti alla novella, ha individuato alcuni limiti alla sua applicazione, in ispecie con riguardo alle decisioni emesse dal giudice dell’udienza preliminare ovvero alla diversità delle statuizioni espresse (improcedibilità) e ciò a prescindere dalla disamina in concreto operata nel giudizio, e ne ha dato una prima applicazione.

5.2. A fronte di questi primi interventi, dunque, appare necessario fornire un inquadramento sistematico della nuova disposizione e della sua effettiva valenza e incidenza nel sistema processuale e sostanziale e ciò anche alla luce delle possibili criticità di ordine costituzionale e unionale evidenziate dal Pubblico Ministero alla presente udienza.

6. La cornice oggettiva disegnata dall’art. 21-bis D.Lgs. n. 87 del 2024 è chiaramente definita.

La nuova norma, infatti, si riferisce alle sole sentenze di assoluzione perché “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” emesse a “seguito di dibattimento”.

Restano quindi escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 21-bis:

– le sentenze di condanna;

– le sentenze di assoluzione e proscioglimento con una diversa formula (il fatto non costituisce reato, il fatto non è più previsto come reato, le formule di improcedibilità, …);

– i provvedimenti di archiviazione;

– le sentenze di applicazione della pena (444 cod. proc. pen.);

– tutte le sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato.

6.1. Ciò premesso, ritiene il collegio che l’art. 21-bis cit. si riferisca esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non riguardi l’imposta, né la decisione del giudice tributario sulla pretesa impositiva.

7. Occorre rilevare, in primo luogo, che la recente riforma attuata con il D.Lgs. n. 87 del 2024 trova i suoi capisaldi di riferimento nell’ art. 20 della legge delega n. 111 del 2023 , recante principi e criteri direttivi per la revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale.

In particolare, l’art. 20, comma 1, lett. a), n. 1 e n. 3, ha previsto:

“a) per gli aspetti comuni alle sanzioni amministrative e penali:

1) razionalizzare il sistema sanzionatorio amministrativo e penale, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem;

2) omissis

3) rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario prevedendo, in coerenza con i principi generali dell’ordinamento, che, nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi e adeguando i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale;”.

7.1. Ne deriva, quale primo elemento di natura sistematica, che l’art. 21-bis trova la sua fonte primaria nei principi e nelle direttive mirate alla nuova determinazione dell’assetto sanzionatorio tributario e penale.

In altri termini, la ratio della riforma, evincibile dal criterio direttivo della legge delega e resa esplicita dalla relazione illustrativa al decreto legislativo, è quella di rafforzare l’integrazione dei sistemi sanzionatori nella prospettiva del rispetto del principio del ne bis in idem in vista di una razionalizzazione del sistema sanzionatorio tributario e penale.

8. In secondo luogo, l’intervento riformatore si è sviluppato nell’alveo della disciplina sanzionatoria già esistente.

Infatti, il decreto legislativo n. 87 del 2024 è intervenuto sul D.Lgs. n. 74 del 2000 , inserendo nuove disposizioni – tra cui l’art. 21-bis – ovvero modificando, in coordinamento con quelle introdotte, quelle preesistenti.

9. È dunque necessario considerare il complessivo contesto normativo su cui è intervenuta la novella.

9.1. Invero, gli artt. 19 – 21 del D.Lgs. n. 74 del 2000 , già nella versione originaria, delineavano una autonoma e specifica composizione dei rapporti tra l’illecito penale e l’illecito tributario ed una concreta articolazione del principio del ne bis in idem, assetto che – come si vedrà – resta confermato e completato dalla riforma.

9.2. L’art. 19, in particolare, ha introdotto nell’ordinamento il principio di specialità tra disposizioni amministrative e penali, stabilendo:

“1. Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale.

2. Permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’ articolo 11 , comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 , che non siano persone fisiche concorrenti nel reato”.

Il secondo comma, nella sua attuale versione, è stato modificato, per esigenze di coordinamento, con l’aggiunta, in fine della frase “e resta ferma la responsabilità degli enti e società prevista dall’articolo 21, comma 2-bis”, ribadendo l’univoco riferimento al trattamento sanzionatorio.

9.3. L’art. 20 esclude ogni rapporto di pregiudizialità tra processo penale e procedimento amministrativo (“Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”).

Con la novella è stato aggiunto un comma 1-bis (“1-bis. Le sentenze rese nel processo tributario, divenute irrevocabili, e gli atti di definitivo accertamento delle imposte in sede amministrativa, anche a seguito di adesione, aventi a oggetto violazioni derivanti dai medesimi fatti per cui è stata esercitata l’azione penale, possono essere acquisiti nel processo penale ai fini della prova del fatto in essi accertato”) teso, in evidenza, a consentire la massima circolazione della prova tra processo (e procedimento) tributario e processo penale anche rispetto a quest’ultimo, a conferma dell’insussistenza di qualsiasi rapporto di pregiudizialità.

9.4. Particolarmente rilevante è, poi, l’art. 21 che, nel testo ora vigente, prevede:

“1. L’ufficio competente irroga le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato.

2. Tali sanzioni non sono eseguibili nei confronti dei soggetti diversi da quelli indicali dall’articolo 19, comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione, sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. Resta fermo quanto previsto dagli articoli 21-bis e 21-ter.

I termini per la riscossione decorrono dalla data in cui il provvedimento di archiviazione o la sentenza sono comunicati all’ufficio competente; alla comunicazione provvede la cancelleria del giudice che li ha emessi.

2-bis. La disciplina del comma 2 si applica anche se la sanzione amministrativa pecuniaria è riferita a un ente o società quando nei confronti di questi può essere disposta la sanzione amministrativa dipendente dal reato ai sensi dell’ articolo 25-quinquiesdecies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 .

3. Nei casi di irrogazione di un’unica sanzione amministrativa pecuniaria per più violazioni tributarie in concorso o continuazione fra loro, a norma dell’ articolo 12 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 , alcune delle quali soltanto penalmente rilevanti, la disposizione del comma 2 del presente articolo opera solo per la parte della sanzione eccedente quella che sarebbe stata applicabile in relazione alle violazioni non penalmente rilevanti.”.

Rispetto al testo originario, oltre all’inserimento del comma 1-bis, è stata soppressa la parola “comunque” al comma 1, mentre con riguardo al comma 2 è significativa l’aggiunta della locuzione “Resta fermo quanto previsto dagli articoli 21-bis e 21-ter”.

La disposizione ha natura strumentale e delinea lo stesso contenuto del principio di specialità introdotto con l’art. 19, poiché stabilisce, in termini univoci, che la sanzione tributaria deve essere irrogata anche se il medesimo fatto sia di rilievo penale e costituisca oggetto di notizia di reato.

Il principio di specialità, infatti, in coerenza alla direttiva enunciata dall’ art. 9 , lett. 1), della legge delega n. 205 del 1999 in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. n. 74 del 2000 (che dispone: “prevedere l’applicazione della sola disposizione speciale quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa”), va riferito, con chiarezza, alla fase della materiale applicazione della sanzione, senza incidere sulle fasi – anteriori – dell’accertamento, della contestazione e dell’irrogazione, le quali procedono in autonomia e, anzi, devono necessariamente essere realizzate.

Ne deriva che la norma, anche dopo la recente modifica operata con il D.Lgs. n. 87 del 2024 , ribadisce e legittima a livello di disciplina positiva l’esistenza di un doppio binario procedimentale e processuale: non solo deve ritenersi consentito ma diviene doveroso per l’Amministrazione avviare il procedimento di irrogazione della sanzione ancorché il medesimo fatto sia, al contempo, oggetto di rilievo penale.

10. Come già rilevato da questa Corte ( Cass. n. 21694 del 08/10/2020 ), il legislatore, sin dal 2000, ha ritenuto necessario un riequilibrio: la pluralità di procedimenti destinati ciascuno ad un autonomo esito era idonea a generare criticità vuoi in caso di differente esito, vuoi in caso di esito negativo per il contribuente in entrambe le sedi (penale e amministrativa-tributaria).

Il necessario avvio del procedimento sanzionatorio trovava il suo bilanciamento nella previsione del comma 2, in forza del quale è escluso che la sanzione possa essere posta in esecuzione (salvo che per i soggetti solidalmente responsabili non concorrenti nel reato) fino a che il giudizio penale è pendente.

La definizione del giudizio penale costituiva la condizione per poter attivare la procedura di esecuzione; tuttavia, ciò può avvenire in termini selettivi, ossia:

a) se la sentenza è di condanna la sanzione amministrativa resta definitivamente ineseguibile;

b) se invece la sentenza penale è favorevole al contribuente la sanzione diviene eseguibile solamente se il procedimento penale è definito “con provvedimento di archiviazione, sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto”.

11. Occorre sottolineare che la norma, nella previsione originaria, anteriore agli interventi attuati con il D.Lgs. n. 87 del 2024 , ha un ambito di applicazione limitato alla fase dell’esecuzione della sanzione senza estendersi al giudizio di cognizione.

Il capoverso e ultimo periodo del comma 2, infatti, è esplicito nel riferirsi, per l’applicazione della norma, ai “termini della riscossione”, che decorrono dalla comunicazione all’ufficio competente.

Questa conclusione è però superata dall’avvenuta introduzione dell’art. 21-bis cit., che ha esteso alla fase della cognizione – ed anche nel giudizio di cassazione – la deducibilità della pronuncia penale di assoluzione per le formule “il fatto non sussiste” e “l’imputato non lo ha commesso”, sicché la relativa valutazione non è più limitata alla sola fase riscossiva ma è suscettibile di essere dedotta anche in sede di cognizione.

L’attuale testo dell’art. 20, comma 2, prima parte, è stato integrato con l’ulteriore locuzione con cui è stabilito che “Resta fermo quanto previsto dai successivi art. 21-bis e 21-ter”.

11.1. Emerge con evidenza, pertanto, che l’esigenza tutelata dal legislatore – ma già presente nelle originarie previsioni – è quella di trattare in termini unitari, per evitare criticità o incongruenze, gli esiti finali sanzionatori derivanti dalla necessaria separatezza dei giudizi, penale e tributario, e del procedimento amministrativo tributario.

E, del resto, il rapporto di imposta che intercorre tra il contribuente e l’erario – incardinato tra dovere contributivo e capacità contributiva in funzione della giusta imposizione – non partecipa, in quanto tale, al rapporto penale, che attiene, invece, all’aspetto sanzionatorio, per il quale si pone, differentemente, l’esigenza di una valutazione unitaria e contemperata del complessivo trattamento afflittivo.

Non a caso, lungo la medesima prospettiva – e in funzione della medesima esigenza – il legislatore ha introdotto, con la novella, anche l’ art. 21-ter D.Lgs. n. 74 del 2000 per il diverso versante del cumulo sanzionatorio nel caso di riconosciuta responsabilità sì da evitare che il trattamento risulti eccessivamente gravoso, prevedendo che “il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, tiene conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva”.

12. In terzo luogo, sul piano strettamente letterale, viene in rilievo il dettato del comma 3 dell’art. 21-bis.

La norma prevede: “3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati”, conferma la conclusione esposta.

Orbene, l’utilizzo della congiunzione “anche”, riferita alla persona fisica o alla società nonché ai soci o associati si spiega soltanto in chiave sanzionatoria, poiché l’accertamento del tributo è naturalmente riferito al soggetto passivo, che è l’imprenditore individuale o la società, non certo alla persona che abbia agito per loro, né i soci e gli associati, che rispondono ad altro titolo.

13. In conclusione, l’art. 21-bis D.Lgs. n. 87 del 2024 , secondo una interpretazione letterale e sistematica, è suscettibile di esplicare i suoi effetti in termini diretti esclusivamente con riguardo alla sanzione irrogata, mentre con riguardo all’imposta la valutazione della sentenza penale di assoluzione resta tuttora ancorata ai principi, prima illustrati, afferenti alla circolazione della prova, esclusa ogni automatica estensione al giudizio tributario.

14. Non modifica tale conclusione la circostanza dell’avvenuta trasposizione dell’ art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 all’art. 119 del Testo Unico della giustizia tributaria ( D.Lgs. n. 175 del 2024 ), mentre l’art. 21 del medesimo D.Lgs. n. 74 è stato inserito all’art. 98 del Testo Unico delle sanzioni tributarie amministrative e penali ( D.Lgs. n. 173 del 2024 ), vigenti dal 1 gennaio 2026.

14.1. Sotto un primo profilo, occorre osservare che la predisposizione dei testi unici non ha valenza innovativa, né un tale valore è desumibile dall’ art. 21 della legge delega n. 111 del 2023 , i cui criteri direttivi sono i seguenti:

“a) puntuale individuazione delle norme vigenti, organizzandole per settori omogenei, anche mediante l’aggiornamento dei testi unici di settore in vigore;

b) coordinamento, sotto il profilo formale e sostanziale, delle norme vigenti, anche di recepimento e attuazione della normativa dell’Unione europea, apportando le necessarie modifiche, garantendone e migliorandone la coerenza giuridica, logica e sistematica, tenendo anche conto delle disposizioni recate dai decreti legislativi eventualmente adottati ai sensi dell’articolo 1;

c) abrogazione espressa delle disposizioni incompatibili ovvero non più attuali.”

La stessa Relazione illustrativa, del resto, ha esplicitamente premesso che “Il presente testo unico ha carattere compilativo” ed è “di mero riordino”.

Con il recepimento nei Testi unici, infatti, è stato attuato un coordinamento delle disposizioni vigenti, ivi comprese quelle introdotte con gli altri decreti attuativi della legge delega, che sono state accorpate per ambiti omogenei, sicché l’art. 21-bis – per l’esplicito riferimento contenuto nel comma 2 della norma – è confluito nella “Sezione III – Il ricorso per cassazione”, assieme agli altri eventi che, esplicitamente, sono pertinenti al giudizio di cassazione (ricorso per cassazione, esecuzione provvisoria in pendenza del ricorso per cassazione, giudizio di rinvio), così da fornire una coerenza specifica al nuovo impianto normativo.

14.2. Occorre osservare, in secondo luogo, che pure l’art. 21-ter, relativo alla rideterminazione del cumulo sanzionatorio in fase esecutiva, ha trovato collocazione nell’art. 124 del Testo Unico della giustizia tributaria, ossia nel “Capo IV – L’esecuzione delle sentenze delle corti di giustizia tributaria”, e, dunque, in relazione ad un ambito omogeneo, senza che da ciò se ne possa derivare una variazione dei contenuti precettivi e della riferibilità al trattamento sanzionatorio.

14.3. Infine, l’ art. 21 D.Lgs. n. 74 del 2000 è stato sì inserito all’art. 98 del Testo unico delle sanzioni ma, in ossequio ai criteri direttivi, con le “necessarie modifiche”, ossia con un esplicito rinvio alle nuove disposizioni (119 e 124 del TU n. 175 del 2024) in cui sono confluiti gli artt. 21-bis e 21-ter D.Lgs. n. 74 del 2000 , sì da lasciare inalterato il collegamento sistematico e letterale tra le diverse previsioni.

15. Per completare l’inquadramento sulla portata e incidenza della nuova previsione appare necessario esaminare, anche alla luce dei principi costituzionali e del diritto unionale, le questioni sostanziali e processuali poste dalla norma.

16. A) L’applicabilità temporale dell’art. 21-bis.

16.1. L’art. 21-bis cit. è di immediata applicazione a tutte le controversie pendenti innanzi al giudice tributario e alla Corte di cassazione e rileva per non solo per le violazioni realizzate dopo il 1 settembre 2024 ma anche per quelle precedenti all’entrata in vigore della norma.

16.2. Militano a favore di questa conclusione una pluralità di ragioni, mentre resta privo di concreto rilievo la qualificazione della norma come sostanziale o processuale.

16.3. In primo luogo, sul piano letterale, l’ art 5 del D.Lgs. n. 87 del 2024 (“Disposizioni transitorie e finali”) ha regolato la disciplina temporale delle modifiche di cui al decreto legislativo, stabilendo esplicitamente l’irretroattività degli interventi innovatori solo per le altre modifiche normative (“Le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, e 4 si applicano alle violazioni commesse a partire dal 1 settembre 2024”).

16.4. In secondo luogo, dalla stessa relazione di accompagnamento emerge con chiarezza l’intento del legislatore.

Il mancato inserimento dell’art. 1 tra le ipotesi di irretroattività di cui all’art. 5, invero, non può ritenersi casuale: al di là delle previsioni ivi contenute e relative alle fattispecie di rilievo strettamente penale (per cui assume rilievo il principio dell’applicazione della lex mitior), per gli interventi sui rapporti tra sanzione penale e tributaria (ossia, in ispecie, gli artt. 21-bis e 21-ter) la scelta di far entrare in vigore immediatamente le norme è derivata proprio dalle criticità del sistema nazionale in materia sanzionatoria rispetto agli orientamenti della Corte EDU e della stessa Corte costituzionale (v. Relazione illustrativa: “introduce, dunque, nel sistema punitivo tributario il divieto del bis in idem sostanziale inteso in senso proprio ed è formulata in stretta aderenza alle sentenze della Corte EDU – in particolare a quelle del 15 novembre 2016 (AeB c. Norvegia) e del 18 maggio 2017 (J c. Islanda) e in quelle successive – nonché alla sentenza n. 149 del 2022 della Corte costituzionale “).

Ciò, oltre a confermare ulteriormente l’incidenza dell’art. 21-bis sul solo piano sanzionatorio, rivela che il primario obbiettivo è stato quello di allineare la disciplina interna ai principi europei.

16.5. In terzo luogo, va sottolineato che con l’art. 21-bis – come sopra evidenziato – è stata estesa alla fase del giudizio di cognizione e integrata la regolamentazione già prevista dall’ art. 21 D.Lgs. n. 74 del 2000 , ma suscettibile di essere attivata solo nella fase riscossiva.

L’intervento, dunque, nell’anticipare la valutazione della congruità e correttezza del regime sanzionatorio alla cognizione, non può che riguardare, in assenza di un limite normativo espresso, gli stessi ambiti già suscettibili di disamina.

17. B) L’accertamento dei fatti materiali nei due giudizi.

17.1. Il giudicato penale di assoluzione esplica i suoi effetti in quanto “pronunciata … sugli stessi fatti materiali” oggetto del giudizio tributario.

È richiesto, quindi, un accertamento sull’identità dei fatti materiali tra i due giudizi.

17.2. La norma presuppone un accertamento di fatto, come tale rimesso fisiologicamente al giudice del merito ma specificamente declinato dall’art. 21-bis anche con riguardo al giudizio di cassazione.

Tale ambito di valutazione, pur non astrattamente incompatibile con la funzione della Corte di cassazione (v. Cass. n. 21200 del 05/10/2009 ; Cass. n. 30780 del 30/12/2011 ), presuppone, tuttavia, una compiuta analisi di fatto, anche estesa, ove necessario, agli atti impositivi, ed un apprezzamento – di merito – sulle indicazioni emergenti dalla sentenza penale, sicché, in tale evenienza (ossia, quando vi sia necessità di ulteriori accertamenti in fatto in assenza di una macroscopica evidenza) diviene ineludibile la cassazione con rinvio della sentenza impugnata per rimettere al giudice di merito per la relativa valutazione.

17.3. La deduzione nel giudizio di cassazione, peraltro, deve tenere conto dei principi che regolano il processo di legittimità, in primo luogo il principio di chiarezza e specificità.

Come ripetutamente affermato da questa Corte, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità esprime un principio generale del diritto processuale, oggi espressamente recepito nell’ art. 366 n. 3 e 4 cod. proc. civ., restandone pregiudicata l’adeguata intellegibilità delle questioni ove renda oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, con conseguente inammissibilità della doglianza (v. Cass. n. 8009 del 21/03/2019 , Sez. U, n. 37552 del 30/11/2021; Cass. n. 4300 del 13/02/2023 ).

Ne consegue che la mera allegazione che la sentenza penale ha assolto la parte (con una delle formule rilevanti) e che essa riguardava i medesimi fatti oggetto del giudizio tributario non può considerarsi sufficiente, essendo necessario che siano indicati gli specifici fatti ed elementi – oggetto di puntuale accertamento nella sentenza penale – rispetto ai quali viene ravvisata l’identità e per i quali, dunque, viene invocato il giudicato.

17.4. Quanto al contenuto dell’accertamento di fatto, seppure assuma anche rilievo il fatto-reato per come contestato in sede penale, va rilevato che il giudicato attiene ai fatti materiali e non alla astratta contestazione.

Occorre osservare, sul punto, che l’oggetto del processo penale è diverso da quello della violazione tributaria, per cui occorre: a) valutare la coincidenza o meno del fatto in relazione al capo d’imputazione; b) riferire la formula assolutoria (il fatto non sussiste) alla contestazione.

A maggior chiarimento e in via solo esemplificativa, si può rilevare che l’orientamento prevalente della Cassazione penale, con riguardo al reato di omesso versamento dell’Iva, previsto dall’ art. 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000 , reputa che la soglia di punibilità configuri “un elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che la sua mancata integrazione comporta l’assoluzione con la formula “il fatto non sussiste”” (v. Cass. pen. n. 35611 del 16/06/2016 ), sicché, in questo caso, i fatti accertati ai fini penali sono diversi da quelli rilevanti in sede civile.

Il “fatto”, dunque, va necessariamente riguardato sotto il versante naturalistico in relazione agli elementi costitutivi vuoi dell’illecito amministrativo vuoi di quello penale.

Su tale aspetto, invero, la Corte, nell’ambito dei giudizi civili, ha chiarito, con indicazioni validamente riferibili anche all’art. 21-bis, che “per “fatto” accertato dal giudice penale deve intendersi il nucleo oggettivo del reato nella sua materialità fenomenica, costituita dall’accadimento oggettivo, accertato dal giudice penale, configurato dalla condotta, evento e nesso di causalità materiale tra l’una e l’altro (fatto principale) e le circostanze di tempo, luogo e modi di svolgimento di esso” (v. ex multis Cass. n. 19863/2013 , Cass. n. 15392/2018 , Cass. n. 26811/2022 ), sottolineando anche che “al giudice civile è precluso procedere ad una diversa ed autonoma ricostruzione dell’episodio, ma non di indagare, ai fini della cognizione ad esso rimessa, su altre modalità del fatto non considerate dal giudice penale”.

Né è vincolante la qualificazione giuridica dei fatti data dal giudice penale ove non sia rimessa in discussione la “materialità fenomenica” dell’accertamento del giudice penale (ad es. Cass. n. 4929/2015 ): in sintesi, il vincolo sul giudice civile si traduce nella “impossibilità per il giudice civile di ritenere inesistenti i fatti accertati dal giudice penale, ovvero di ritenere esistenti fatti dei quali sia stata esclusa la verità in sede penale”.

18. C) La rilevanza della sentenza penale pronunciata ai sensi dell’ art. 530 , comma 2, cod. proc. pen.

18.1. Il profilo da ultimo vagliato impone di valutare quale sia la rilevanza della formula assolutoria quando la sentenza penale sia stata pronunciata ai sensi dell’ art. 530 , comma 2, cod. proc. pen.

18.2. Occorre partire dalla preliminare considerazione che nel giudizio penale la prova positiva dell’innocenza dell’imputato (art. 530, comma 1) e la prova negativa della sua responsabilità (art. 530, comma 2), hanno pari valore.

Tuttavia, la giurisprudenza civile, nell’interpretare gli artt. 651 – 654 cod. proc. pen., ha distinto le due situazioni, attribuendo differente valore alle ipotesi di assoluzione pronunciate a norma del primo comma rispetto a quelle pronunciate a norma del secondo comma.

Si tratta di orientamento che è consolidato da oltre trent’anni e che ha trovato il suo riconoscimento anche da parte delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 1768 del 26/01/2011, che, con riguardo all’art. 652, ma anche rispetto agli artt. 651 , 653 e 654 cod. proc. pen., ha affermato che “la sentenza di assoluzione è idonea a produrre gli effetti di giudicato ivi indicati non in relazione alla formula utilizzata, bensì solo in quanto contenga, in termini categorici, un effettivo e positivo accertamento circa l’insussistenza del fatto”).

In particolare, si è rilevato che il principio generale è quello “dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile, sicché il carattere di eccezione a tale principio che si rinviene in quanto previsto dalla norma dell’ art. 652 c.p.p. (e analogamente è da dirsi per le ipotesi contemplate dagli artt. 651, 653 e 654 dello stesso codice) impedisce non solo di poter fare applicazione analogica della citata disposizione oltre i casi espressamente previsti, ma impone di perimetrarne anche in senso restrittivo l’operatività, tenuto conto dei limiti costituzionali del rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio, richiamati dalla stessa legge delega (tra le altre, Cass., 2 agosto 2004, n. 14770 ; Cass., 8 marzo 2013, n. 5898 ; Cass., 29 agosto 2013, n. 19863 ; Cass., 18 novembre 2014, n. 24475 ; Cass., 5 aprile 2016, n. 6541 ; Cass., 22 giugno 2017, n. 15470 ; Cass., 13 giugno 2018, n. 15392 ; Cass., 3 luglio 2018, n. 17316 )”.

Inoltre, si è evidenziato che “l’efficacia preclusiva del giudicato di assoluzione è tale, però, soltanto se il giudicato stesso contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche nell’ipotesi in cui l’assoluzione sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e cioè quando l’assoluzione sia stata pronunziata a norma dell’ art. 530 , comma 2, c.p.p.” (v. tra le molte, Cass. n. 19863/2013 ; Cass., 25 settembre 2014, n. 20252 e Cass., 11 marzo 2016, n. 4764 ; Cass. 12 settembre 2022, n. 26811 ; da ultimo v. anche Cass. n. 4201/2024 , secondo cui “in tema di rapporti tra giudizio penale e giudizio civile, la sentenza di assoluzione ha effetto preclusivo nel processo civile (sia ex. art. 652 c.p.p. che ex art. 654 c.p.p.) solo nel caso in cui contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato, e non anche nell’ipotesi in cui sia stata pronunciata a norma dell’ art. 530 , comma 2, c.p.p., per inesistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o la sua attribuibilità all’imputato“).

Il principio è stato affermato anche dal giudice amministrativo (v. Consiglio di Stato, sez. 2, n. 2509/2014), che ha precisato che “l’efficacia vincolante del giudicato penale è configurabile solo allorché la sussistenza dei reati contestati sia stata esclusa ai sensi dell’ art. 530 , comma 1, c.p.p.”

18.3. Per completezza, occorre evidenziare che la dottrina e la giurisprudenza penale esprimono il diverso orientamento della piena equiparazione tra le pronunce assolutorie pronunciate ai sensi del primo e del secondo comma dell’ art. 530 cod. proc. pen., da intendersi estesa anche agli effetti extra-penali, posto che non sussisterebbe un interesse dell’imputato a proporre ricorso nei confronti di una sentenza di assoluzione pronunciata ex art. 530 , comma 2, cod. proc. pen. in quanto questa formula non dispiega minore valenza (rispetto alla formula ex art. 530 , comma 1, cod. proc. pen.) nei giudizi civili.

In realtà, la giustificazione logica e giuridica dell’orientamento che distingue la rilevanza ai fini civili tra i due commi si coglie nel fatto che il fondamento sostanziale della scelta di attribuire efficacia di giudicato alla sentenza penale di assoluzione (per le formule assolutorie di insussistenza del fatto e per non aver commesso il fatto, qui in rilievo) deriva dal maggior approfondimento istruttorio che caratterizza il processo penale rispetto a quello civile (e tributario) e dalla possibilità, propria del processo penale, di ricostruire la situazione fattuale con estrema certezza.

Tuttavia, tale condizione – ossia la ricostruzione della situazione fattuale con estrema certezza – si ha solamente nei casi in cui la pronuncia di assoluzione sia resa ex art. 530 , comma 1, cod. proc. pen. (prova positiva che superi ogni ragionevole dubbio) e non nei casi in cui la pronuncia di assoluzione sia resa ex art. 530 , comma 2, cod. proc. pen. (prova mancante, insufficiente o carente).

Ne deriva che, ai fini della disciplina in esame, non è suscettibile di rilievo, con valenza di giudicato, l’assoluzione pronunciata ai sensi del secondo comma dell’ art. 530 cod. proc. pen., che determinerebbe un mero automatismo a fronte della necessità di verificare che la decisione penale abbia operato un concreto ed effettivo accertamento dei fatti.

19. D) Rapporti tra accertamento sulla sanzione e accertamento sull’imposta.

19.1. L’incidenza del giudicato assolutorio penale sulla sola sanzione lascia inalterato il regime probatorio e la rilevanza della decisione penale sul rapporto d’imposta.

19.2. Più specificamente, l’art. 21-bis ha anticipato alla fase di cognizione il sistema del “doppio binario” penale-tributario:

– per i profili sanzionatori occorre valutare se i fatti siano i medesimi e, quindi, in applicazione dell’art. 21-bis, riconoscere efficacia di giudicato alla sentenza penale di assoluzione;

– per l’accertamento dell’imposta, il giudizio, i criteri di ripartizione dell’onere della prova e la valutazione da parte del giudice restano soggetti agli ordinari criteri e principi che disciplinano il giudizio civile e tributario: la sentenza penale di assoluzione conserva la sua rilevanza nell’alveo dei principi della circolazione della prova ai sensi dell’ art. 654 cod. proc. pen. e 20 D.Lgs. n. 74 del 2000 , dunque quale prova, soggetta all’autonoma valutazione del giudice, da apprezzare insieme alle altre prove acquisite nel giudizio.

19.3. Tale esito, del resto, è conforme alla struttura del rapporto tra giudizio tributario e giudizio penale, già a fondamento degli artt. 19 e 21 D.Lgs. n. 74 del 2000 , improntato a criteri di reciproca autonomia, salva la previsione di un (reciproco) collegamento probatorio ai fini accertativi e di una valutazione unitaria ai fini sanzionatori.

Differenti, del resto, sono le esigenze e gli obbiettivi che presiedono i due ambiti.

Sulla sanzione (penale e amministrativa-tributaria) è preminente la necessità che il regime sanzionatorio, in applicazione del principio del ne bis in idem, sia unitario, non contraddittorio e proporzionato.

Sull’imposta, invece, l’accertamento mira ad assicurare l’attuazione delle norme impositive in funzione dell’obbiettivo di attuare la “giusta imposizione”, nell’equilibrio tra dovere contributivo e principio della capacità contributiva, che viene realizzato con gli strumenti previsti dall’ordinamento tributario e secondo i criteri di riparto della prova tra il contribuente e il fisco.

Si tratta, in evidenza, di oggetti radicalmente differenti, il primo dei quali, inoltre, è solo eventuale e occasionale.

19.4. La questione è di particolare e specifico rilievo ove, in ragione della sentenza penale assolutoria, la sentenza sia stata annullata con rinvio al giudice del merito per le ulteriori valutazioni.

In tale evenienza, il giudice del rinvio – a fronte della sentenza penale dibattimentale di assoluzione ex art. 530 , comma 1, cod. proc. pen. perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso – sarà tenuto ad operare una duplice operazione: a) quanto alla ripresa impositiva dovrà apprezzare, con valutazione autonoma, la suddetta decisione come elemento di prova unitamente agli altri elementi introdotti nel giudizio ai sensi degli artt. 654 cod. proc. pen e 20 D.Lgs. n. 74 del 2000 , con un giudizio di sintesi che non è condizionato dal passaggio in giudicato della decisione penale; b) quanto alla sanzione tributaria, ove accerti la medesimezza dei fatti, dovrà applicare il 21-bis, annullando la sanzione irrogata.

20. E) Il tempestivo deposito della sentenza penale in Cassazione.

20.1. L’ art. 21-bis , comma 2, D.Lgs. n. 74 del 2000 stabilisce che “La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio.”

La norma, nel porre il termine di 15 giorni prima dell’udienza e/o adunanza, non ne stabilisce espressamente la perentorietà.

Peraltro, neppure gli artt. 372, 378 e 380.bis.1 cod. proc. civ. qualificano il termine ivi previsto per il deposito della memoria come perentorio ancorché ciò non sia discusso.

I termini del giudizio di cassazione sono preordinati all’esigenza di garantire il contraddittorio e consentire al collegio di prendere preventiva e adeguata conoscenza della documentazione prodotta, sicché hanno necessariamente natura perentoria (v. Cass. n. 29933 del 27/10/2023 con riguardo al termine ex art. 372 cod. proc. civ.; Cass. n. 30592 del 27/11/2018 con riguardo alla memoria ex art. 378 cod. proc. civ.).

20.2. Occorre comunque evidenziare che, alla luce del complessivo assetto normativo sopra delineato, l’eventuale preclusione che si sia verificata nel giudizio di cognizione non impedisce alla parte di far valere in un momento successivo – innanzi alla stessa Amministrazione finanziaria o in sede riscossiva ai sensi dell’ art. 20 D.Lgs. n. 74 del 2000 – gli effetti derivanti dal giudicato penale ai fini della caducazione della sanzione che nel giudizio sia stata irrogata.

21. F) Profili di compatibilità unionale.

21.1. Con riguardo ai profili di compatibilità unionale, assume rilievo l’incidenza dell’estensione del giudicato penale favorevole al giudizio tributario.

In realtà, non sussiste una contrarietà, in via generale, a tali effetti rispetto al diritto dell’Unione.

La questione è stata oggetto di specifica disamina da parte della Corte di giustizia su rinvio disposto dalla Corte di cassazione in materia di sanzioni CONSOB (CGUE 20 marzo 2018, nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16, Di Puma) e, in termini ancora più puntuali, si è espressa CGUE 2 aprile 2020, cause riunite C-370/17 e C-37/18, Vueling.

Centrale è l’importanza del principio dell’autorità di cosa giudicata poiché “al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici quanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento dei mezzi di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi non possano più essere rimesse in discussione”.

La CGUE, inoltre, ha statuito che il diritto dell’Unione non impone di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale e ciò “neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con” il diritto dell’Unione.

Tuttavia, la Corte si è espressa in termini parzialmente diversi nel caso dell’estensione di una sentenza (penale) passata in giudicato – e lesiva dei principi unionali – ad un giudizio civile, ritenendo che la possibilità dell’estensione dovesse essere oggetto di disamina da parte del giudice civile.

È utile riportare i parr. 94-96 della sentenza Vueling:

“94 – Nelle presenti cause si deve constatare che l’interpretazione del principio dell’autorità di cosa giudicata menzionato al punto 92 della presente sentenza impedisce di rimettere in discussione non solo una decisione giudiziaria di natura penale avente autorità di cosa giudicata, anche se tale decisione comporta una violazione del diritto dell’Unione, ma anche, in occasione di un procedimento giurisdizionale di natura civile relativo ai medesimi fatti, qualsiasi accertamento vertente su un punto fondamentale comune contenuto in una decisione giudiziaria avente autorità di cosa giudicata (v., per analogia, sentenza del 3 settembre 2009, Fallimento Olimpiclub, C-2/08, EU:C:2009:506, punto 29).

95 – Una siffatta interpretazione del principio dell’autorità di cosa giudicata ha quindi come conseguenza che, qualora la decisione di un giudice penale divenuta definitiva si fondi su un accertamento di frode compiuto da tale giudice non tenendo conto del procedimento di dialogo di cui all’ articolo 84 bis , paragrafo 3, del regolamento n. 1408/71 nonché su un’interpretazione delle disposizioni relative all’effetto vincolante dei certificati E 101 contraria al diritto dell’Unione, la non corretta applicazione di tale diritto si riprodurrebbe in ogni decisione adottata da giudici civili riguardanti i medesimi fatti, senza che sia possibile correggere tale accertamento e tale interpretazione effettuati in violazione di detto diritto (v., per analogia, sentenza del 3 settembre 2009, Fallimento Olimpiclub, C-2/08, EU:C:2009:506, punto 30).

96 – In tali circostanze, si deve concludere che simili ostacoli all’applicazione effettiva delle norme del diritto dell’Unione riguardanti detta procedura nonché l’effetto vincolante dei certificati E 101 non possono ragionevolmente essere giustificati dal principio della certezza del diritto, e devono quindi essere considerati contrari al principio di effettività (v., per analogia, sentenza del 3 settembre 2009, Fallimento Olimpiclub, C-2/08, EU:C:2009:506, punto 31).”

Da ciò ha escluso che fosse opponibile la vincolatività del giudicato penale, pur prevista dal diritto nazionale, ai fini della decisione del giudice civile.

21.2. Una potenziale criticità di sistema dei nuovi meccanismi, invero, potrebbe porsi rispetto ai principi affermati dalla Corte di giustizia in tema di operazioni fraudolente (ma anche abusive ovvero in relazione all’applicazione di specifici istituti), dove è richiesta, da parte del contribuente, una diligenza oggettiva, ossia che egli sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale. In caso di operazioni oggettivamente inesistenti, poi, le questioni sono scevre da componenti soggettive, sicché, a maggior ragione, possono porsi profili di criticità.

21.3. Tuttavia, tali criticità presuppongono che il giudicato refluisca anche sull’imposta.

Ben diversa, infatti, è la situazione tra l’ipotesi in cui la decisione penale sia idonea a produrre effetti di giudicato ai fini sanzionatori rispetto a quella in cui tali effetti incidano sulla situazione impositiva sostanziale.

Solo in questo secondo caso, infatti, assumono rilievo i presupposti sostanziali individuati dalla decisione Vueling ove la decisione in sede penale finisca per risolversi in una violazione del diritto unionale, mentre l’ambito delle sanzioni esula dalle materie di rilievo unionale ed è governato, anche nella sede unionale, dal principio di proporzionalità (oltre che di effettività ed equivalenza), di cui il nuovo impianto normativo è in realtà portatore.

21.4. In questa prospettiva, pertanto, la riconduzione dell’art. 21-bis cit. alla sola materia delle sanzioni, oltre a rispondere a criteri di interpretazione sistematica e letterale e di coerenza con il complessivo sistema ordinamentale tributario, risponde ai principi unionali ed elide ogni possibile frizione con essi.

22. G) Profili di legittimità costituzionale.

22.1. Come evidenziato anche dal Procuratore Generale nella requisitoria scritta, l’art. 21-bis cit. e l’estensione del giudicato penale al giudizio tributario è suscettibile di porre plurime perplessità di rilievo costituzionale.

La prima attiene, in sostanza, all’impatto sul complessivo regime probatorio dell’ordinamento tributario, con profonde divaricazioni tra le categorie di utenti e contribuenti, allorché la valenza di giudicato della sentenza assolutoria per le formule indicate dall’art. 21-bis refluisca sull’accertamento dell’imposta.

La seconda discende dalla mancata partecipazione dell’Agenzia delle entrate al giudizio penale, che deve essere effettiva non potendosi ritenere sufficiente la mera indicazione come parte offesa dal reato tributario.

22.2. Quanto al primo profilo, come già su evidenziato, il sistema tributario è caratterizzato da oneri ripartiti tra contribuente e Ufficio, mentre nel sistema penale l’onere è integralmente a carico della parte pubblica, essendo sufficiente, per la parte privata, un atteggiamento anche solo silente per ottenere un esito positivo del processo penale se la prova piena non sia stata raggiunta.

In via esemplificativa, in caso di indagini bancarie il regime probatorio che assiste i prelievi e i versamenti non giustificati previsto dall’ art. 32 D.P.R. n. 600 del 1973 non assume rilievo nel giudizio penale, dove incombe al P.M. provare che quelle somme sono riconducibili ad una evasione, prova che se non fornita è suscettibile di determinare una assoluzione per insussistenza del fatto.

Il profilo risulta ulteriormente rilevante per le ipotesi in cui per la rilevanza della condotta ai fini penali sia prevista una soglia di valore: per le condotte evasive che si attestano al di sotto della soglia di rilevanza penale varrebbe sempre e comunque il regime probatorio, con oneri ripartiti su entrambe le parti del giudizio, previsto nel processo tributario; invece, per le evasioni più gravi, qualora l’esito del giudizio penale si risolvesse nella prova del mancato superamento della soglia (o anche la mancata prova del superamento), troverebbe applicazione il regime probatorio previsto per il processo penale.

Da ciò deriverebbe un irreparabile vulnus al principio di uguaglianza e di ragionevolezza posto che per le evasioni di più limitata entità (non suscettibili di rilevanza penale) varrebbe l’ordinario (e più rigoroso) regime probatorio del giudizio tributario, mentre per quelle più gravi la parte potrebbe fruire del regime proprio del giudizio penale.

22.3. La connotazione dell’intervento normativo come mirato sui soli profili sanzionatori, peraltro, appare idonea, per le considerazioni sopra illustrate, a superare tali possibili criticità.

Infatti, l’estensione ai fini del solo trattamento sanzionatorio trova il suo fondamento nella necessità di assicurare una unitarietà del momento afflittivo, che deve rispondere a criteri di non contraddizione, adeguatezza e proporzionalità, mentre l’imposizione resta – in ogni caso – soggetta all’ordinario regime probatorio, sicché resta esclusa una ingiustificata divaricazione e differenziazione tra i contribuenti.

22.4. Pure il secondo profilo – la mancata partecipazione al giudizio penale dell’Agenzia delle entrate – resta superato ove l’art. 21-bis sia inteso come limitato alla sfera sanzionatoria.

Occorre premettere, in primo luogo, che, controvertendosi solo sulle sanzioni e sulla loro esistenza e/o dosimetria, costituisce un dato fisiologico l’intervento ultimo, anche d’ufficio, da parte del giudice tributario, dovendo egli, in ogni caso, tenere conto delle sanzioni precedentemente irrogate (“comunque introdotti davanti a giudici diversi”) già ai sensi dell’ art. 12 , comma 5, D.Lgs. n. 472 del 1997 .

In ogni caso, l’art. 21-bis prefigura un intervento (e una valutazione) sulle sanzioni che non si differenzia da quello previsto dall’ art. 21 D.Lgs. n. 74 del 2000 , di cui è onerato direttamente l’erario per l’esecuzione e la riscossione dei relativi importi.

In altri termini, l’art. 21-bis anticipa alla fase di cognizione ciò che l’Amministrazione finanziaria dovrà comunque effettuare in un momento successivo.

Del resto, il medesimo intervento presidia anche la valutazione, di segno contrario, che è sottostante alle determinazioni sul cumulo sanzionatorio ex art. 21-ter D.Lgs. n. 74 del 2000 .

Anche qui, dunque, ha valore dirimente la circostanza che la rilevabilità della sentenza penale nel giudizio tributario non attiene alla pretesa impositiva ma alla sanzione, la cui effettività, proporzionalità e consistenza costituisce un accertamento rimesso costantemente – in ogni fase processuale e procedimentale – alla stessa Amministrazione fiscale, restando priva di rilievo la circostanza che essa non abbia partecipato, in una qualche veste, al processo penale.

23. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:

L’ art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 , introdotto con l’ art. 1 , D.Lgs. n. 87 del 2024 , poi recepito nell’art. 119 T.U. della giustizia tributaria, in base al quale la sentenza penale dibattimentale di assoluzione, con le formule perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto, ha, nel processo tributario, efficacia di giudicato quanto ai fatti materiali, si riferisce, alla luce di una interpretazione letterale, sistematica, costituzionalmente orientata e in conformità ai principi unionali, esclusivamente alle sanzioni tributarie irrogate e non all’accertamento dell’imposta, rispetto alla quale la sentenza penale assolutoria ha rilievo come elemento di prova, oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario unitamente agli altri elementi di prova introdotti nel giudizio“.

24. All’interno della sopra descritta cornice, dunque, va valutata l’incidenza nella vicenda in giudizio della sentenza penale prodotta dalla società ricorrente.

Orbene, la sentenza n. 1532/2020 del Tribunale di Roma non può assumere efficacia di giudicato nel presente giudizio in quanto:

a) è stata emessa dal giudice dell’udienza preliminare a seguito di giudizio abbreviato;

b) è stata pronunciata ai sensi dell’ art. 530 , comma 2, cod. proc. pe n. Si tratta, dunque, di una pronuncia che si colloca all’esterno del perimetro oggettivo disegnato dalla nuova disposizione.

Assume ancor meno rilievo, poi, la sentenza 2695/2022 che, oltre ad essere stata anch’essa pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, riguarda fatti diversi, ossia l’uscita effettiva (o meno) dei beni ceduti dal territorio nazionale.

24.1. Per completezza – trattandosi di profilo carente in punto di rilevanza – neppure sussiste la dedotta illegittimità quanto alla mancata inclusione nell’alveo dell’art. 21-bis cit. delle sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato, dovendosi escludere un’irragionevolezza della norma sotto il profilo della differenza di trattamento rispetto alla sentenza di assoluzione dibattimentale in ragione del diverso contenuto probatorio alla base della decisione.

25. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’ art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e degli artt. 2697 , 2727 e 2729 cod. civ. per non aver la CTR preso in considerazione la sentenza penale irrevocabile e le relative risultanze probatorie, che costituisce, come tale, elemento di prova oggetto di valutazione da parte del giudice tributario, accordando invece valore probatorio solo a mere argomentazioni dell’Ufficio, in lesione delle norme sostanziali sulla formazione delle prove e sul loro regime legale.

25.1. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’ art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., 2697, 2727 e 2729 cod. civ. e degli artt. 19 e 21 , settimo comma, D.P.R. n. 633 del 1972 per aver la CTR omesso di valutare tutti i fatti e gli indizi accertati nel processo penale sulla buona fede della ricorrente, fondando la decisione sulle mere argomentazioni dell’Ufficio senza raffrontarle a quanto accertato nelle sentenze penali e tributarie intervenute.

26. I motivi, suscettibili di esame congiunto per connessione logica, sono inammissibili.

26.1. Entrambe le doglianze, infatti, pur formalmente lamentando una violazione di legge, si risolvono, in realtà in una contestazione della motivazione impugnata e, ancor più, della stessa valutazione delle risultanze probatorie operata dal giudice di merito, in vista di un riesame del materiale probatorio.

Va del resto osservato, in primo luogo, che, per dedurre la violazione dell’ art. 115 cod. proc. civ., “è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma” ossia che abbia “giudicato o contraddicendo espressamente la regola, dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio”, mentre “detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre”, trattandosi di attività consentita dall’ art. 116 cod. proc. civ. (v. Cass. n. 11892 del 10/06/2016 ).

Quanto alla dedotta violazione dell’ art. 2697 cod. civ., inoltre, essa è configurabile solo “nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’ art. 360 , n. 5, c.p.c.” ( Cass. n. 26769 del 23/10/2018 ; Cass. n. 17313 del 19/08/2020 ; Cass. n. 18092 del 31/08/2020 ).

Orbene, il secondo motivo lamenta l’omessa valutazione della pronuncia definitiva in sede penale quale elemento di prova idoneo a ritenere assolto l’onere della prova contraria in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, sicché non riguarda l’erronea valutazione delle regole di riparto della prova ma, in evidenza, la scelta e la valutazione dei mezzi di prova.

Analogamente quanto al terzo motivo, che, parimenti, investe gli elementi indiziari utilizzati dal giudice d’appello al fine di ritenere non assolto l’onere della prova contraria, che non hanno contemplato l’esame delle sentenze penali, della relazione tecnica ivi espletata, nonché delle ulteriori circostanze valorizzate nella diversa sede, tutte censure che non sono deducibili con violazione di legge e, invece, investono la sufficienza e adeguatezza della motivazione, doglianza questa neppure proponibile ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.

27. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’ art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 7 , comma 5-bis, D.Lgs. n. 546 del 1992 , 115 e 116 cod. proc. civ., 2697, 2727 e 2729 cod. civ. e degli artt. 19 e 21 , settimo comma, D.P.R. n. 633 del 1972 per aver la CTR omesso di valutare le prove offerte dalle parti secondo i criteri di valutazione delle prove introdotti dall’art. 7, comma 5-bis, cit., applicabile retroattivamente.

27.1. Il motivo è inammissibile.

La doglianza, oltre ad essere carente di specificità, allegando la ricorrenza di “gravissime violazioni” non ulteriormente specificate, investe, anche in questo caso, la valutazione delle prove operata dal giudice di merito.

Va peraltro rilevato che, contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente, “il nuovo comma 5-bis dell’ art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992 , introdotto dall’ art. 6 della L. n. 130 del 2022 , essendo una norma di natura sostanziale e non processuale” non opera retroattivamente ma “si applica ai giudizi introdotti successivamente al 16 settembre 2022, data di entrata in vigore della legge predetta” ( Cass. n. 20816 del 25/07/2024 ).

Anche per tale profilo, dunque, il motivo va disatteso.

28. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

29. Infine, la trattazione del ricorso è stata chiesta ai sensi dell’ art. 380-bis cod. proc. civ. a seguito di proposta di inammissibilità, sicché, avendo la Corte definito il giudizio in conformità della proposta, deve applicarsi l’ art. 96 , terzo e quarto comma, cod. proc. civ., come previsto dal citato art. 380-bis cod. proc. civ.

La novità normativa introdotta dall’ art. 3 , comma 28, lett. g), D.Lgs. 149/2022 contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore, della sussistenza dei presupposti per la condanna ad una somma equitativamente determinata a favore della controparte ( art. 96 , terzo comma, cod. proc. civ.) e di una ulteriore somma non inferiore ad Euro 500,00 e non superiore ad Euro 5.000,00 a favore della Cassa delle ammende ( art. 96 , quarto comma, cod. proc. civ.). In tal modo, risulta codificata una ipotesi di abuso del processo, peraltro da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale (v. Sez. U., n. 27195 del 22/09/2023 e n. 27433 del 27/09/2023; Cass. Sez. 5, Ord. n. 27414 del 2024 ; Sez. 1, Ordinanza n. 26385 del 2024).

Ne deriva che, sulla scorta di quanto esposto, ed in assenza di indici che possano far propendere per una diversa applicazione della norma, la ricorrente va condannata al pagamento della somma di Euro 5.000,00 ai sensi dell’ art. 96 , terzo comma, cod. proc. civ., e di Euro 2.500,00 sensi del quarto comma della medesima disposizione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali a favore della controricorrente, che liquida in complessive Euro 12.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Condanna la ricorrente al pagamento a favore della controricorrente della somma di Euro 5.000,00 ai sensi dell’ art. 96 , terzo comma, cod. proc. civ. e al pagamento della somma di Euro 2.500,00 a favore della Cassa delle ammende.

Ai sensi dell’ art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002 , dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.