Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Calabria, sezione n. 8, sentenza n. 194 depositata il 17 gennaio 2024
E’ illegittimo il provvedimento che accerta il conseguimento di una plusvalenza patrimoniale esclusivamente sulla base dei valori dichiarati ai fini dell’imposta di registro nell’atto di compravendita
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto depositato in data 4.3.2019, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso in appello avverso la sentenza n. 6142/2018 del 5.10.2018 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Calabria, decisione con la quale era stato accolto il ricorso proposto da T I avverso l’avviso di accertamento descritto in epigrafe, relativo a IRPEF e addizionali per l’anno d’imposta 2010, per un valore di causa di €. 15.180,00.
Con l’atto impositivo in esame l’Agenzia delle Entrate aveva accertato nei confronti dell’odierno appellato (e della coniuge P M) la realizzazione di una plusvalenza pari ad € 60.000/00 (ovvero € 30.000 per il T ed € 30.000,00 per la P), e quindi chiedeva il pagamento della maggiore imposta Irpef e le relative sanzioni e interessi. La determinazione della plusvalenza era stata effettuata comparando il prezzo di acquisto degli immobili dichiarato nell’atto notarile stipulato in data 15.1.1980 con quello dichiarato nell’atto pubblico con cui i suddetti coniugi avevano venduto i medesimi immobili, stipulato in data 3.3.2010.
Parte appellante si duole della assoluta carenza di motivazione della sentenza impugnata. Deduce la correttezza del proprio operato, ribadendo di avere accertato la plusvalenza sulla base della differenza, pari a €. 60.000,00 in totale, fra il prezzo con cui i contribuenti avevano acquistato gli immobili e quello di successiva vendita degli stessi beni. Affermava che non si comprederebbe su quali basi – normative o giurisprudenziali – il primo giudice abbia ritenuto illegittimo l’atto impugnato, anche considerando che il ricorrente odierno appellato non aveva documentato spese effettate durante il trentennio di possesso degli immobili che potessero far diminuire la quantificazione della somma accertata.
Si è costituita la parte appellata che chiede il rigetto dell’appello. Afferma che, contrariamente a quanto sostenuto nell’atto di appello dall’Agenzia delle Entrate, la sentenza ha adeguatamente spiegato le ragioni della decisione, applicando correttamente i principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di legittimità e ormai consolidati. Detti principi conseguono peraltro – deduce parte appellata – all’applicazione della norma di cui all’ art. 5, comma 3, del Dlgs n. 147 del 2015 , che esclude che la plusvalenza patrimoniale possa essere accertata solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro. Soggiunge che detta norma, di interpretazione autentica, come tale, ha efficacia retroattiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Osserva il Collegio che l’appello è infondato e deve essere rigettato.
La sentenza impugnata, le cui conclusioni questa Corte condivide appieno, pur in maniera assai sintetica, contiene motivazione condivisibile, laddove ha affermato che “l’Ufficio ha erroneamente applicato la normativa vigente in materia, poiché la plusvalenza acclarata non può essere calcolata sul valore di acquisto di tre decenni prima, ma avrebbe dovuto basarsi su altri parametri certi come stabilito dalla norma.”
Non è dubbio, infatti, per come ha fermamente indicato l’Agenzia appellante, che la plusvalenza sia stata determinata sulla sola base della differenza fra il prezzo di acquisto e quello di vendita dichiarati negli atti notarili. Tale operazione, contrariamente a quanto da essa dedotto, è da ritenersi illegittima.
Come correttamente ha osservato parte appellata, la giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata sul punto, anche in forza della norma di legge di cui all’ art. 5 del Dlgs n. 147 del 2015 .
Da ultimo, tali principi sono stati ribaditi dalla ordinanza della S. C. di cassazione del 27 maggio 2021, n. 14877 : ” … Infatti, seppure questa Corte ha costantemente affermato come nella fase di accertamento di una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di beni a titolo oneroso, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via presuntiva sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato col valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di aver in concreto venduto ad un prezzo inferiore (così Cass. n. 4057/2007, poi ribadita in Cass. n. 21020/2009, Cass. n. 18705/2010), non di meno, successivamente è intervenuta una norma di interpretazione , autentica; più precisamente, l’ art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147 del 2015 – che, quale norma di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva – esclude che l’Amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini di altra imposta commisurata al valore del bene, posto che la base imponibile ai fini IRPEF è data non già dal valore del bene, ma dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo; il riferimento contenuto in detta norma all’imposta di registro ed alle imposte ipotecarie e catastali svolge una funzione esemplificativa, volta esclusivamente a rimarcare la ratio della norma incentrata sulla non assimilabilità della differente base impositiva (valore) rispetto a quella prevista per l’IRPEF (corrispettivo) (Cfr. Cass. n. 19227/2017, Cass. n. 12265/2017, Cass. 27614/18);”.
Pertanto, alla luce della indicata disposizione di legge e delle successive applicazioni giurisprudenziali, è da considerarsi illegittimo il provvedimento che accerti la plusvalenza solo sulla base dei valori dichiarati ai fini dell’imposta di registro nell’atto di compravendita, come è accaduto nel caso di specie, l’appello è da ritenersi infondato e deve essere rigettato. Nè vale dedurre, come ha fatto l’appellante con i motivi di impugnazione, che il contribuente non avrebbe dimostrato costi relativi agli immobili venduti, in quanto detto elemento (cioè la mancata dimostrazione di eventuali costi) non fa parte della motivazione del provvedimento impugnato. In ogni caso, l’accertamento della plusvalenza avrebbe dovuto riposare anche su altri parametri, desumibili, ad esempio dai valori a fini IMU, o da altri dati forniti da pubbliche istituzioni sul valore degli immobili, cosa che non è stata effettuata dall’Amministrazione appellante.
Coerentemente con le superiori argomentazioni, l’appello deve essere rigettato, con conferma della sentenza di primo grado.
Le spese seguono la soccombenza. La parte appellante deve pertanto esser condannata al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore della parte appellata, spese che si stima equo liquidare in €. 1.000,00, oltre oneri di legge, se dovuti.
P.Q.M.
Decidendo sul ricorso in appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 6142/2018 del 5.10.2018 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Calabria, su ricorso proposto da T I , rigetta l’appello e conferma la sentenza impugnata. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore della parte appellata, spese che liquida in €. 1.000,00, oltre oneri di legge, se dovuti.
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