Al fine di comprendere a pieno la sentenza n. 64569/09 depositata il 10 ottobre 2013 della Corte Europea, riguardante il caso Delfi sa contro Estonia, occorre precisare che le decisioni della Corte europea non sono norme generali che trovano applicazione in ogni Paese del Consiglio d’Europa, ma pronunce relative a casi specifici, originati in peculiari contesti nazionali.
La premessa risulta opportuna e necessaria per comprendere la corretta portata della sentenza nel caso Delfi as contro Estonia (n. 64569/09), che è stata accolta probabilmente con eccessivo allarmismo dal mondo dell’informazione e della rete.
La vicenda ha riguardato uno dei più grandi portali d’informazione dell’Estonia, che nel gennaio del 2006 pubblicò un articolo sulle scelte controverse operate da una compagnia di navigazione. I lettori reagirono postando commenti estremamente offensivi, diffamatori, e minacciosi nei confronti della compagnia di navigazione e del suo proprietario. Quest’ultimo fece causa al portale che fu condannato a pagare 320 euro per danni morali.
I giudici di Strasburgo hanno infatti stabilito che un portale d’informazione può essere «giustamente» ritenuto responsabile se non interviene, per prevenire, moderare o cancellare commenti anonimi offensivi, diffamatori o minacciosi, ritenendo compatibile con l’articolo 10, che tutela la libertà di espressione, della Convenzione una condanna al risarcimento dei danni a carico di un portale informativo estone, per i commenti volgari e diffamatori pubblicati da anonimi lettori in calce a una notizia.
Un aspetto che ha influenzato, sicuramente, la sentenza dei giudici è stato il tenore ed il contenuto dei messaggi che erano gravemente diffamatori e intimidatori. Inoltre, nonostante un disclaimer precisasse che il sito non era responsabile dei commenti e che minacce e insulti non sarebbero stati tollerati, le soluzioni tecniche adottate non erano state in grado di bloccare le più comuni ed esplicite parole volgari. Nemmeno era possibile individuarne gli autori, in quanto si consentiva di lasciare post senza registrarsi. In questo contesto, il processo civile alla società che gestiva il portale era terminato con una condanna al risarcimento del danno non patrimoniale di 320 euro, a fronte di una richiesta cento volte maggiore. In più, il legislatore nazionale ha fatto una scelta esplicita a favore della sede civile per la diffamazione che da una parte intimorisce chi scrive meno di quella penale e dall’altra rende più difficile al privato cittadino, privo dei poteri del Pm, individuare gli autori di testi anonimi.
Tutti questi dati aiutano a capire perché nel caso estone, nel classico bilanciamento fra reputazione e libertà di espressione, la Corte si è mostrata più attenta alle ragioni della reputazione.
La Corte sottolinea che i gestori del portale, nel caso di specie, «esercitavano un livello considerevole di controllo sui commenti che erano pubblicati». I gestori erano gli unici che potevano impedire o cancellare i commenti, e avevano anche i sistemi per farlo. Sistemi di cui tuttavia «non hanno fatto pieno uso». Inoltre hanno evidenziato che il portale ha in qualche modo coperto gli autori e che quindi «si deve ritenere che i gestori del sito si siano assunti una certa responsabilità per quanto pubblicato dai lettori». Infine i giudici della Corte hanno respinto la tesi secondo cui il proprietario della compagnia di navigazione avrebbe dovuto fare causa a chi ha scritto i commenti. «In un caso come questo, per motivi puramente tecnici appare sproporzionato imporre alla parte lesa l’onere dell’identificazione degli autori dei commenti». E la Corte «non è convinta che una tale azione avrebbe, in questo caso, garantito l’effettiva protezione della parte lesa».
Il principio su cui si è basata la sentenza e quello secondo cui chi è stato diffamato deve essere messo nelle condizioni di trovare qualcuno a cui chiedere conto della lesione subita. Oggi giorno quasi tutti i siti di informazione che pubblicano numerose notizie a cui di frequente seguono numerosi commenti dei lettori. Per evitare “condanne” occorre dare la possibilità al diffamato di identificazione dell’autore di qualunque messaggio oppure attribuire al titolare del sito posizioni di garanzia, responsabilità e inevitabili poteri di controllo preventivo.
La scelta fra le due vie non appare neutra. Mentre la prima soluzione esalta il rapporto tra responsabilità e libertà, insomma, «sei libero ma devi dirmi chi sei», la seconda apre a ipotesi di censure, più o meno dichiarate. Caricare sulle spalle di un soggetto come il gestore di un portale un – invero realisticamente inesigibile – controllo dei messaggi degli utenti, significa indurlo a introdurre meccanismi automatici che finiscono per eliminare non solo i contenuti davvero illeciti ma anche quelli rischiosi. Tutto ciò per garantire un anonimato spesso così male utilizzato.
Per l’Italia probabilmente non avrà alcuna influenza in quanto la sentenza «Brambilla» (Cass. pen. 35511/2010) ha escluso che il titolare del sito risponda per omesso controllo. Nei processi civili, la Corte europea ha forse contribuito a aprire una breccia nel muro dell’irresponsabilità di quest’ultimo, ma certo non ha fissato una regola generale secondo cui il sito risponde di tutto ciò che pubblica.
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