La Corte di Cassazione sez. tributaria con la sentenza n. 22010 depositata il 25 settembre 2013 intervenendo in materia di accertamento per operazioni transazionali ha affermato che il transfer pricing costituisce elusione fiscale qualora restituisce al finanziatore estero interessi molto più alti rispetto al mercato straniero ed inoltre ha escluso la deduzione delle spese sostenute dalla società del gruppo con sede in Italia.
La vicenda ha avuto origine da una verifica fiscale presso una società i cui risultati venivano trascritte nel processo verbale di accertamento. Successivamente veniva notificato un avviso di accertamento per il recupero di IRAP ed IRES per l’anno accertato. L’Amministrazione finanziaria basava la sua pretesa fiscale sul recupero degli interessi passivi indebitamente dedotti, in misura di 6 267.621,86, su un finanziamento erogato dalla società capogruppo tedesca S.G.L. C. A. G. alla società italiana S.G.L. C. s.p.a. L’Amministrazione finanziaria riteneva, infatti, che il tasso di interesse applicato alla suddetta operazione infragruppo fosse notevolmente superiore a quello medio praticato nel mercato tedesco, e risultante dai relativi bollettini ufficiali, sì da ingenerare il convincimento che si trattasse di un’operazione elusiva (in violazione dell’art. 110, co. 7 d.P.R. 917/86) diretta, mediante levitazione dei costi, a ridurre il reddito imponibile della contribuente ai fini IRES, incrementando quello della capogruppo tedesca.
La società avverso l’atto impositivo ricorreva inanzi alla Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva le motivazioni del ricorrente ed annullava l’accertamento. L’Amministrazione Finanziaria presentava ricorso avverso la decisione dei giudici di prime cure dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale che accogliendo le doglianze dell’Agenzia riformava la sentenza di primo grado ritenendo non deducibili gli interessi passivi sul predetto finanziamento un operazione elusiva di transfer pricing. Le motivazioni di tale convincimento si basavano sulla circostanza che il tasso pattuito per l’operazione di finanziamento infragruppo era superiore a quello praticato mediamente sul mercato finanziario tedesco. E ciò, al fine di abbattere – mediante la deduzione del relativo costo – gli utili prodotti in Italia, in conseguenza della più severa tassazione italiana rispetto a quella tedesca.
Il contribuente ricorse contro la decisione del giudice di appello alla Corte Suprema per la cassazione della sentenza basando il tutto su tre doglianza.
Gli Ermellini nel rigettare il ricorso presentato hanno evidenziato la centralità e la corretta interpretazione dell’art. 110, co. 7 del d.P.R. n. 917/86 e dall’art. 9 del modello di convenzione fiscale OCSE del 1995-1996 per cui hanno concluso che “può dirsi che la previsione in parola completi il catalogo delle garanzie offerte dalla legislazione a favore dell’Erario, con riferimento a tutte quelle ipotesi nelle quali il corrispettivo pattuito – data la sostanziale unicità del soggetto economico, trattandosi di rapporti commerciali tra articolazioni dello stesso gruppo – può non riflettere il reale valore dei beni e dei servizi scambiati. La disposizione di cui al co. 7 dell’art. 110 d.P.R. 917/86, pertanto, in presenza di norme specificamente dirette ad impedire il dirottamento di flussi reddituali, ad esempio verso Paesi a fiscalità agevolata (co. 10, 11 e 12 dell’art. 110, artt. 167 e 166 d.P.R. 917/86), mediante condotte “simulatorie” danti luogo a fenomeni di tipo “evasivo”, ha la finalità ulteriore di evitare che, mediante fenomeni non simulatori – e perciò “elusivi” come l’alterazione del prezzo di trasferimento del bene o di cessione del servizio, l’Erario italiano abbia a subire comunque un concreto pregiudizio.”
Inoltre viene definito, dai giudici del Palazzaccio, il concetto di “valore normale” come come “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”. La seconda parte della medesima disposizione, poi, enuncia i criteri “per la determinazione del valore normale”, disponendo che debba farsi riferimento, a tal fine, “in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”. Ne discende che, tra i diversi criteri indicati dal modello OCSE del 1995, per la valutazione dei corrispettivi delle transazioni commerciali tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, il legislatore italiano ha prescelto quello del “confronto del prezzo” (comparable uncontrolled price method), la cui disciplina si articola nella prima e seconda parte – summenzionate – del co. 3 dell’art. 9 del d.P.R. 917/86.”
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