La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 44170 depositata il 3 novembre 2023, intervenendo in tema di prove per i reati tributari alla luce dell’art. 24 della Costituzione e del suo principio di presunzione di innocenza e del rispetto del principio della libertà personale , ha affermato che “… Ai fini del d.lgs. n. 74 del 2000 per «imposta evasa» si intende «la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine» (art. 1, lett. f). Per l’accertamento dell’an e del quantum dell’imposta “dovuta” è giocoforza necessario far riferimento alla legislazione fiscale che si avvale però, in buona misura, anche di presunzioni (non sempre gravi, precise e concordanti). In questa delicata operazione ricostruttiva, di natura squisitamente fattuale, il giudice penale deve utilizzare gli strumenti posti a sua disposizione dal codice di rito e, soprattutto, adottare il criterio di giudizio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio che costituisce il corollario della presunzione di innocenza costituzionalmente imposto dall’art. 27, comma secondo, Cost.. Il giudice non può, di conseguenza, far ricorso alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l’inversione dell’onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell’imputato, nemmeno quando ricorrono i casi previsti dall’art. 39, comma 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (così come non può direttamente stabilire l’imposta effettivamente dovuta in base agli studi di settore di cui all’art. 62-bis, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito con modificazioni dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 e successive modificazioni e integrazioni, o alla determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche di cui all’art. 38, commi 4 e segg., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). Il giudice penale può utilizzare le informazioni e i dati acquisiti dagli uffici finanziari nell’ambito delle attività di cui agli artt. 31-bis, 32 e 33, d.P.R. n. 600 del 1970, ma non può avvalersi degli stessi criteri di giudizio ivi previsti per l’accertamento presuntivo dell’imposta dovuta giustificato, sul piano fiscale, dal comportamento non collaborativo del contribuente, né gli è preclusa la possibilità di acquisire e utilizzare, a fini di accertamento del reato, gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi dal contribuente che quest’ultimo può utilizzare in sede tributaria solo se dimostri di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici finanziari per cause a lui non imputabili (art. 32, commi 3 e 4, d.P.R. n. 600 del 1973). In conformità a quanto prevede l’art. 220, disp. att. cod. proc. pen., può utilizzare, a fini di ricostruzione del fatto, il processo verbale di accertamento o di constatazione (ma non le valutazioni e i giudizi in essi contenuti) e le giustificazioni e i chiarimenti sollecitati in sede pre contenziosa al contribuente ai sensi dell’art. 37-bis, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973, purché tali atti siano stati redatti e assunti prima che emergano anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Rv. 220291; cfr. altresì Sez. 3, n.. 1969 del 21/01/1997, Rv. 206944; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, Rv. 242523; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Rv. 246599, che hanno ribadito il principio secondo il quale è causa di inutilizzabilità dei risultati probatori la violazione delle disposizioni del codice di procedura penale la cui osservanza, nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, è prevista per assicurare le fonti di prova in presenza di indizi di reato).
3.12. In conclusione, l‘indagine che il giudice penale deve compiere deve essere volta all’accertamento autonomo e diretto degli elementi costitutivi del reato secondo i canoni propri del processo penale. …”
Pertanto nel processo penale, anche per gli illeciti tributari, occorre sempre, nei rati di evasione, dimostrare che l’imposta eventualmente evasa superi la soglia di punibilità prevista dalla legge, prescindendo dai pvc. Il giudice penale non può, in virtù del principio costituzionale della presunzione d’innocenza e delle libertà personali, ricorrere alle presunzioni tributarie semplici utilizzate dall’amministrazione finanziaria in quanto invertono l’onere della prova ponendola a carico del contribuente
La vicenda ha riguardato il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata che a seguito di una verifica fiscale viene redatto il pvc in cui i verificatori evidenziano, sulla base dei controlli e presunzioni tributarie, il superamento della soglia di 50 mila euro. Il Tribunale condanna per il reato ascritto l’amministratore della srl. Avverso la decisione del giudice di prime cure propone appello. La Corte territoriale conferma la sentenza impugnata per il reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000. L’imputato avverso la decisione del giudicie di appello propone ricorso in cassazione fondato su tre motivi.
Gli Ermellini annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione.
Per i giudici di legittimità “… il diritto penale tributario si caratterizza per la sua specialità che gli deriva dalla particolare materia che ne costituisce l’oggetto, ma resta pur sempre diritto penale, diritto cioè dei comportamenti ritenuti lesivi di beni giuridici o di valori ad essi preesistenti, non diritto degli atti o c:legli interessi regolati dalle norme tributarie e certamente non dell’obbligazione tributaria.
[…]
In quanto “diritto penale”, esso si caratterizza per la sua natura autonoma e costitutiva rispetto alle altre branche del diritto, essendo stata da tempo ripudiata, per l’incandescenza del suo oggetto (la libertà personale), la teoria della funzione meramente sanzionatoria di istituti di altri rami del diritto.
[…]
il diritto penale tributario non fornisce l’armamentario necessario a reprimere la violazione degli obblighi tributari altrove disciplinati. Non v’è dubbio che il comune oggetto di tutela sia il dovere di concorrere alle spese pubbliche, previsto dall’art. 53, Cost. quale specifica articolazione del più generale dovere di solidarietà di cui all’art. 2, Cost., ma tale tutela non viene penalmente perseguita in modo indiretto, sanzionando puramente e semplicemente gli obblighi tributari altrove disciplinati nell’an, nel quomodo e nel quando. Al legislatore penale tributario non sta a cuore il recupero in sé del gettito fiscale evaso, né il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, ma esclusivamente la decisione circa la natura illecita delle condotte e l’irrogazione delle relative sanzioni nel contesto dei principi fissati dall’art.27 della Costituzione.
[…]
La funzione della pena, l’inviolabilità della libertà personale che viene in gioco, la ineliminabile valorizzazione degli elementi soggettivi della condotta che innervano e danno sostanza alla natura esclusivamente personale della responsabilità penale e alla funzione rieducativa della pena, impongono una lettura “autonoma” delle norme penali tributarie, secondo i canoni interpretativi che l’inviolabilità del bene potenzialmente a rischio impongono (i soli “casi e modi previsti dalla legger,- scilicet penale – entrata in vigore prima del fatto commesso).
[…]
il disvalore espresso dalla condotta penalmente sanzionata, dunque, deve essere individuato esclusivamente all’interno della norma che la descrive che deve essere a sua volta applicata in conformità ai principi di stretta legalità, tassatività e determinatezza che governano l’interpretazione della legge penale, rifuggendo pertanto dalle sempre possibili suggestioni che il comune oggetto della materia trattata può comportare e che possono determinare il rischio sia di non ammesse interpretazioni analogiche che di scorciatoie probatorie volte ad attrarre nella fattispecie penale la pura e semplice constatazione dell’inadempimento dell’obbligo tributario che la norma stessa non ritiene sufficiente ai fini della punibilità dell’autore.
[…]
La presenza nella fattispecie penale di elementi normativi altrove disciplinati non può rappresentare la falla attraverso la quale il travaso di istituti giuridici di altri rami del diritto possa geneticamente mutare la norma penale …”
Per il Supremo consesso “… non v’è spazio nel processo penale di cognizione per l’ingresso di presunzioni (tantomeno legali) ma solo di indizi, valorizzabili a fini di prova nei limiti e modi indicati dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., valendo, per il processo penale, uno statuto probatorio suo proprio necessariamente strumentale al tendenziale accertamento della verità (i.e., della corrispondenza al vero) del fatto contestato nell’editto accusatorio.
[…]
il reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, si consuma nel momento in cui scade il termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione, momento nel quale deve sussistere il dolo specifico di evasione il quale, a sua volta, presuppone la consapevolezza dell’ammontare delle imposte evase e non dichiarate, non richiedendo affatto la norma anche la coincidenza tra il soggetto gravato dell’obbligo dichiarativo e quello che ha posto in essere le operazioni imponibili.
[…]
Non v’è dubbio che il fine di evasione qualifica la condotta sul piano penale; ove venga accertata un’imposta effettivamente dovuta superiore a quella dichiarata (o non dichiarata affatto) e/o componenti positive di reddito inferiori a quelle effettive o elementi passivi fittizi, l’indagine non avrebbe verificato altro che alcuni degli elementi costitutivi del reato, quelli che qualificano, sul piano oggettivo, l’offesa degli interessi erariali e giustificano (ma non esauriscono) la rilevanza penale della condotta. Ma tale indagine non assorbe quella relativa all’accertamento del dolo specifico di evasione che nei reati dicl1iarativi concorre a tipizzare la condotta. Altrimenti si corre il rischio di identificare il dolo specifico di evasione con la pura e semplice consapevolezza dell’obbligo dichiarativo violato e dell’entità dell’imposta non dichiarata
[…]
il reato è illecito di modo; il dolo di evasione è volontà di evasione dell’imposta mediante le specifiche condotte tipizzate dal legislatore penale tributario. Se per il legislatore penale tributario nemmeno l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, o le false rappresentazioni contabili e i mezzi fraudolenti per impedire l’accertamento delle imposte, sono sufficienti ad attribuire penale rilevanza alle condotte di cui agli artt. 2 e 3, d.lgs. n. 74 del 2000, essendo necessario il fine di evasione, a maggior ragione il “dolo di omissione” non solo non può essere ritenuto sufficiente a integrare, sul piano soggettivo, il reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, ma nemmeno può essere confuso con il dolo di evasione. La volontà omissiva prova la consapevolezza della sussistenza dell’obbligazione tributaria e del suo oggetto, e dunque di uno o alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie, non prova il fine ulteriore della condotta.
[…]
il dolo di evasione esprime l’autentico disvalore penale della condotta e restituisce alla fattispecie la sua funzione selettiva di condotte offensive ad un grado non ulteriormente tollerabile del medesimo bene tutelato anche a livello amministrativo. L’inviolabilità della libertà personale costituisce il metro di misura della rilevanza penale di condotte che potrebbero essere sanzionate in altro modo. Al legislatore penale non interessa il recupero del gettito fiscale ma della persona. Il dolo specifico di evasione, per la sua forte carica intenzionale, segna il punto di frattura più grave tra l’atteggiamento antidoveroso dell’autore del fatto illecito, l’ordinamento giudico ed il bene protetto, un punto di non ritorno che giustifica il sacrificio della inviolabilità della libertà personale in considerazione del livello di aggressione al bene e della funzione rieducc1tiva della pena. E’ proprio questo scopo che nei reati in materia di dichiarazioni fiscali giustifica, rispetto agli omologhi illeciti amministrativi, la reazione punitiva dello Stato e ne spiega la rilevanza penale che si giustifica solo in costanza di condotte poste in essere nella deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo.
[…]
Non si può di conseguenza ritenere sufficiente, ai fini della prova del dolo specifico, la mera consapevolezza dell’entità dell’imposta evasa; l’entità dell’imposta evasa costituisce solo uno degli elementi del fatto tipico, la cui consapevolezza potrebbe, al più, giustificare un addebito a titolo di dolo generico, non di certo di dolo specifico che richiede un quid pluris rispetto alla mera consapevolezza dell’oggetto dell’omissione …”