La Corte di Cassazione con la sentenza n. 31085 depositata il 28 novembre 2019 intervenendo in tema di evasione fiscale ed utilizzo di dati ottenuti dall’Amministrazione finanziaria ha affermato che “l’Amministrazione finanziaria nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento di valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionali. Sono perciò utilizzabili nell’accertamento e nel contenzioso con il contribuente, i dati bancari, ottenuti mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria, dal dipendente di una banca residente all’estero, il quale li abbia acquisiti trasgredendo i doveri di fedeltà verso il datore di lavoro e di riservatezza, privi di copertura costituzionale e tutela legale nei confronti del fisco italiano”
La vicenda ha riguardato un contribuente a cui veniva notificato un avviso di accertamento con cui, l’Agenzia dell’Entrate, gli contestava la detenzione di attività finanziarie e di investimento presso una Banca Svizzera in violazione degli obblighi di dichiarazione. Le informazioni all’Amministrazione finanziaria erano pervenute dal Fisco francese (cd.lista Falciani). Avverso tale atto impositivo veniva proposto dal contribuente ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale. I giudici di prime cure accolsero le doglianze del contribuente. L’Amministrazione finanziaria impugnava la decisione della CTP a mezzo ricorso alla Commissione Tributaria Regionale. I giudici di appello riformarono la sentenza impugnata riconoscendo che l’acquisizione dei dati finanziari relativi al contribuente era stata legittima in quanto avvenuta, a seguito di rituale richiesta all’Autorità francese, nel pieno rispetto delle procedure e dei Trattati.
Il contribuente impugnava la sentenza della CTR con ricorso in cassazione fondato su sei motivi.
Gli Ermellini nel rigettare il ricorso del contribuente evidenziavano che “la netta differenziazione tra processo penale e processo tributario, secondo un principio -sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari, ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 cod. proc. pen., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen.- che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale”.
Pertanto la Corte Suprema ha riconosciuto il principio di diretto secondo cui “nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 191 cod. proc. pen., a norma del quale « le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”
Per cui, secondo i giudici di legittimità, il possesso di denaro su conti correnti esteri, provata sulla base dei contenuti della c.d. Lista Falciani, costituisce una presunzione sufficiente a fondare l’accertamento qualora non efficacemente contrastato e smentito dal contribuente. In quanto, in base al sistema normativo tributario, è sufficiente, per la rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche, anche un solo indizio, purché grave e preciso. In particolare hanno ribadito che “in tema di presunzioni semplici, gli elementi di prova non debbano essere più di uno, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su uno solo di essi, purché grave e preciso, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi”.
Inoltre l’articolo 12 del D.L. n. 78/2009 prevede che gli investimenti e le attività detenuti in Paesi aventi regimi fiscali privilegiati, di cui al decreto del Ministro delle finanze 4 maggio 1999, non indicati nel quadro RW si presumono, salvo prova contraria, costituiti mediante redditi sottratti a tassazione.
In conseguenza, anche delle gravi e pesanti sanzioni, assume particolare rilevanza la questione della retroattività dell’articolo 12 del D.L. 78/2009, convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2009. I giudici del palazzaccio con la sentenza in commento hanno ribadito che “la presunzione di evasione sancita, con riferimento agli investimenti ed alle attività di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato, dall’art. 12, comma 2, del d.l. n. 78 del 2009, conv., con modif., dalla l. n. 102 del 2009, in vigore dal 1° luglio 2009, non ha efficacia retroattiva, in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, essendo le norme in tema di presunzioni collocate, tra quelle sostanziali, nel codice civile, ed inoltre perché una differente interpretazione potrebbe -in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.- pregiudicare l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione.”
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