La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 25358 depositata il 12 novembre 2013 intervenendo in tema di contestazione della pretesa fiscale ha statuito che il contribuente può contestare una pretesa tributaria anche in sede di impugnazione della cartella emessa sulla base delle sue dichiarazione, nel caso in cui la cartella costituisca il primo atto con cui la pretesa viene portata a conoscenza del contribuente e non risulta necessario, per la sua impugnazione, che il contribuente versi quanto chiesto in cartella e presenti la domanda di rimborso con impugnazione del silenzio-rigetto.
La vicenda ha visto protagonista un professionista, secondo cui il proprio reddito non era da assoggettare ad IRAP, che a seguito della presentazione della dichiarazione dei redditi l’Amministrazione Finanziaria, per il tramite del concessionario, notificava la cartella di pagamento per IRAP non pagato. Il contribuente avverso la cartella di pagamento propone ricorso inanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, i giudici, però, respingono le doglianze in quanto rivolte “contro la cartella di pagamento emessa a seguito della denuncia dei redditi”.
Ma questa visione viene ribaltata dai giudici della Cassazione, per la semplice ragione che “il contribuente può contestare una pretesa tributaria anche in sede di impugnazione della cartella emessa sulla base delle sue dichiarazioni” e senza versare “quanto chiesto in cartella”. A patto, però, che “tale cartella costituisca il primo atto con cui la pretesa viene portata a conoscenza del contribuente”. Il professionista impugna la sentenza del giudice di prime cure dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale che rigettava l’appello del contribuente confermando la sentenza di primo grado.
Il professionista per la cassazione della sentenza del giudice di merito propone ricorso inanzi alla Corte Suprema.
Gli Ermellini nell’accogliere il ricorso del contribuente precisano, affermano un principio di diritto, che il contribuente può contestare una pretesa tributaria anche in sede d’impugnazione della cartella emessa sulla base delle sue dichiarazioni purché la cartella costituisca il primo atto con cui la pretesa viene portata a conoscenza del contribuente. Inoltre, per i giudici di legittimità, non è affatto necessario che il medesimo versi quanto chiesto in cartella e presenti domanda di rimborso, impugnando il silenzio-rigetto.
Pertanto per i giudici trova applicazione il principio, statuito dalla stessa cassazione (sentenza n. 9872 del 2011), secondo cui “il contribuente può contestare, anche emendando le dichiarazioni presentate all’Amministrazione Finanziaria, l’atto impositivo che lo assoggetti a oneri diversi e più gravosi di quelli che, per legge, devono restare a suo carico; e tale contestazione deve farla proprio impugnando la cartella esattoriale, non essendogli consentito di esercitare l’azione di rimborso dopo il pagamento della cartella. Peraltro in difetto d’impugnazione della cartella è precluso il rimborso previsto dall’articolo 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602. “
Con la sentenza in esame i giudici del Palazzaccio hanno continuato nel solco delle precedenti pronunce ( vedi 17 luglio 2012, n. 12338, e 19 febbraio 2013, n. 4003). Per cui si può affermare che la giurisprudenza di legittimità e concorde nell’escludere che il contribuente sia prima tenuto a versare quanto chiesto in cartella e poi a presentare domanda di rimborso, impugnando il diniego dell’Ufficio. Il contribuente può invece dedurre il non assoggettamento a IRAP dei suoi redditi professionali nell’atto d’impugnazione della cartella di pagamento, se necessario correggendo gli eventuali errori commessi nella dichiarazione dei redditi.
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