La Corte di Cassazione con la sentenza n. 9670 del 14 aprile 2017 intervenendo in tema di termini per l’azione di accertamento in relazione alle considerazioni sul raddoppio dei termini configurandosi un’ipotesi di reato, che costituiva il presupposto della proroga dei termini di accertamento. Il raddoppio dei termini per l’accertamento sussiste quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato ex Dlgs 74/2000.
La vicenda ha riguardato una società soggetta a procedure concorsuale il cui curatore proponeva ricorso alla Commissione Tributaria, che in entrambi i gradi di giudizio, non accoglieva le doglianze del ricorrente. Avverso la decisione dei giudici di appello il curatore proponeva ricorso in cassazione fondato su tre motivi. Tra cui lamentava che l’Agenzia delle entrate non aveva dato conto nell’avviso di accertamento delle ragioni poste a fondamento dell’applicabilità del termine lungo.
Gli Ermellini respingono il ricorso del curatore. Le motivazione dei giudici di legittimità recepiscono le ben note conclusioni cui è giunta la Corte Costituzionale nella sentenza 25 luglio 2011, n. 247, integrate con la giurisprudenza più recente sul tema. Ricordiamo che la Consulta fu all’epoca chiamata a pronunciarsi sul comma 25 dell’art. 37 del d.l. 223/2006, questione posta nell’Ordinanza del 29 aprile 2010 n. 266 con la quale la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli aveva rinviato la questione per sospetta illegittimità della norma sotto il profilo dell’irragionevolezza.
Si prospettò da parte dei giudici partenopei la questione per cui una norma che prevedeva il raddoppio dei termini di accertamento in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per reati tributari sarebbe potuta risultare arbitraria: “L’A.F., in questa prospettiva e non senza una stridente contraddizione di ragionevolezza, cumulerebbe il doppio antitetico ruolo di organo verificatore (pienamente legittimo) e di soggetto-arbitro, chiamato a fissare i termini di decadenza attraverso l’esercizio, non controllabile, del potere di denuncia. Una tale previsione non appare manifestamente infondata sotto il profilo di una possibile violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza, soprattutto considerato che l’iniziativa dell’accertamento risulta totalmente svincolata dallo stesso esito finale dell’azione penale”.
La questione fu risolta (almeno sotto il profilo dell’irragionevolezza, ma non sotto quello della violazione del diritto di difesa, questione non richiamata nell’ordinanza…) dalla Corte Costituzionale che declinò alcuni principi ancora attuali e che si sono, nel tempo, arricchiti di nuove letture giurisprudenziali. La sentenza in commento li sintetizza come segue:
“-a) il raddoppio dei termini per l’accertamento si applica anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni indicate (4 luglio 2006), perché queste, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del d.l. n. 223 del 2006, incidono necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data;
-b) questo effetto deriva non dalla natura retroattiva delle norme, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, «la legge non dispone che per l’avvenire» (art. 11, prima parte del primo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile; analogamente, l’art. 3, comma 1°, I. n. 212 del 2000, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo»);
-c) il “raddoppio” deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia (in termini, Cass. n. 1171 del 2016), dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (dato anche il regime del cosiddetto “doppio binario” tra giudizio penale e procedimento e processo tributario, evidenziato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000);
-d) detto obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000 (anche se sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento, al pari dell’antigiuridicità e del dolo, resta riservato all’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita; -e) il medesimo obbligo opera in base a condizioni obiettivamente rilevabili, considerato che anche il pubblico ufficiale commetterebbe il reato di cui all’art. 361 c.p. per il caso di ritardo od omissione nella denuncia;
-f) il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione dell’atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza (cioè circa la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento);
-g) in presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare i presupposti dell’obbligo di denuncia penale (non certo l’esistenza del reato) è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo”.
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