Tribunale di Alessandria sez. 1 sentenza depositata l’ 8 gennaio 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – INFORTUNIO SUL LAVORO – RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO – MISURE NECESSARIE E VIOLAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA
Ritenuto in fatto
Con ricorso depositato il 26.10.2015, Fa. Va. esponeva:
– di avere lavorato alle dipendenze della società Naturalmente Gelato S.r.l. corrente in Alessandria presso il centro commerciale Panorama dal 1.10.2011 con contratto a chiamata e dal 1.4.2012 con contratto a tempo indeterminato con mansioni di addetta alla produzione e vendita gelato ed inquadramento al 5. livello;
– di avere subito un infortunio sul lavoro il 2.6.2014 così ricostruito: il 2.6.2014 aveva preso servizio per il turno dalle ore 14:00 alle ore 21:00. Si trovava dietro al banco frigo in piedi sopra la pedana del negozio e stava servendo i clienti. Verso le 15:30 scivolava rovinosamente sulla pedana posta dietro il bancone refrigerato dei gelati; cadendo sulla pedana, provocava un rumore tale che attirava l’attenzione del datore lavoro che in quel momento si trovava nel retrostante laboratorio; dopo essere caduta, si risollevava in piedi e proseguiva nel proprio lavoro. Circa 45 minuti dopo la caduta percepiva un forte dolore alla zona lombo-sacrale che non le consentiva di ulteriormente proseguire nell’attività lavorativa. Comunicava pertanto al datore di lavoro la necessità di recarsi al Pronto Soccorso e telefonava al proprio compagno per farsi ivi accompagnare. Vi giungeva alle 20:44 e le veniva diagnosticata una “contusione lombo-sacrale” (doc. 2, fasc. ricorrente);
– che l’INAIL riconosceva l’infortunio come causa di servizio fino al 5.12.2014 (doc. 3, fasc. ricorrente);
– di essere stata in malattia dal 5.12.2014 al 3.6.2015, stante l’impossibilità a riprendere l’attività lavorativa per il peggioramento delle condizioni di salute con difficoltà di deambulazione (dapprima uso del busto e successivamente stampella per camminare) come risulta da certificati INPS (doc. 3bis, fasc. ricorrente);
– di avere ricevuto dal datore di lavoro in data 23.3.2015 a mezzo raccomandata una contestazione disciplinare per “violazione art. 7 L 300/70 e del vigente ccnl alimentari artigianato (…) come prevede il su citato CCNL, in caso di malattia o di infortunio non sul lavoro, il lavoratore deve avvertire l’azienda entro la seconda ora del normale orario di lavoro del primo giorno in cui si verifica l’assenza (…)” (doc. 4, fasc. ricorrente);
– di avere respinto tale contestazione e fornito le proprie giustificazioni nei cinque giorni (doc. 4bis, fasc. ricorrente);
– di avere ricevuto dal datore di lavoro in data 30.4.2015 (ancora in pendenza di malattia) lettera di licenziamento (sospeso fino al termine della malattia in corso) per “esigenze di carattere economico, nonché tecnico-produttivo hanno obbligato la scrivente azienda ad operare una riorganizzazione interna e la soppressione del posto di lavoro (…)” (doc. 5, fasc. ricorrente);
– di avere impugnato il licenziamento il 11.6.2015 (doc. 6, fasc. ricorrente);
– di avere presentato ricorso amministrativo avverso la chiusura dell’infortunio disposta dall’INAIL (docc. 7 e 7 bis, fasc. ricorrente);
– a seguito di collegiale fissata dall’INAIL il 28.5.2015, di avere appreso di avere “(…) una inabilità a riprendere l’attività lavorativa (…)” derivante da “(…) una ipotonotrofia dell’arto inferiore sinistro e zoppia da sofferenza del gluteo superiore” (doc. 7 ter, fasc. ricorrente);
– di non avere riscontrato alcun miglioramento e di lamentare ancora difficoltà di deambulazione con obbligo di usare la stampella.
Chiede ora la ricorrente che venga dichiarato illegittimo il licenziamento intimatole dal datore di lavoro il 30.4.2015 con conseguente condanna di quest’ultimo al pagamento di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto a titolo di indennità risarcitoria ex art. 8 L. 604/1966;
Con la premessa della responsabilità dell’infortunio occorso in capo alla datrice di lavoro Società Naturalmente Gelato S.r.l. chiede il risarcimento dei danni patrimoniali e non patiti per effetto dello stesso;
resiste con tempestiva memoria di costituzione Naturalmente Gelato S.r.l. chiedendo il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
sulla contestata illegittimità del licenziamento si osserva che esso è stato intimato per motivo oggettivo consistente in una riduzione di personale con le seguenti motivazioni: “Con la presente la scrivente azienda Le comunica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3, legge 18 dicembre 1966, n. 604 con effetto dalla data di ricevimento della presente, il licenziamento rimane comunque sospeso fino al termine della malattia attualmente in corso. Esigenze di carattere economico, nonché tecnico-produttivo hanno obbligato la scrivente azienda ad operare una riorganizzazione interna e la soppressione del Suo posto di lavoro (…)”.
Rientra nella nozione di giustificato motivo oggettivo anche l’ipotesi di riassetto organizzativo dell’azienda. In tali casi, peraltro, grava sul datore di lavoro l’onere di provare l’effettività delle ragioni poste a fondamento del licenziamento.
Per costante giurisprudenza della Cassazione maturata in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo la soppressione del reparto o della posizione lavorativa cui era adibito il dipendente licenziato (a tal fine non bastando un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale), ma anche l’impossibilità di una sua utile riallocazione in mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate, vale a dire l’impossibilità del suo c.d. repechage, giustificandosi il recesso solo come extrema ratio (cfr., ad esempio, Cass. n. 13116/15; Cass. n. 13112/14; Cass. n. 7381/10; Cass. n. 11720/09 e numerose altre conformi).
Sempre la Suprema Corte ha avuto modo di statuire altresì che il dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo, se non ha il diritto di essere comparato ad altri colleghi di lavoro affinché la scelta del licenziamento cada su uno di loro, nondimeno ha quello di pretendere che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo o tecnico – organizzativo e che dimostri l’impossibilità di utilizzarlo in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui era precedentemente adibito (cfr., per tutte, Cass. n. 7620/98).
In breve, secondo costante giurisprudenza, per la validità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo non basta che esso sia l’effetto della soppressione del reparto o del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, ma è necessario che l’azienda sia impossibilitata al suo repechage, ossia non abbia come riutilizzarlo, consideratane la professionalità raggiunta (cfr., ancora, Cass. n. 18416/13), in altra posizione lavorativa e/o in altra dipendenza aziendale analoga a quella venuta meno.
Dalla documentazione offerta da parte resistente non emerge una situazione di difficoltà finanziaria dovuta alla diminuzione degli incassi, relativi all’anno 2013. Il bilancio 2014 prodotto dalla resistente infatti non mostra una situazione di crisi così evidente. In definitiva, si ritiene che non sia stata da parte resistente documentata una situazione di seria crisi aziendale né comunque che parte resistente abbia provato l’impossibilità di riutilizzare la ricorrente in altre mansioni, come sopra specificato.
Il licenziamento deve pertanto essere dichiarato illegittimo; conseguentemente, Naturalmente Gelato S.r.l. deve essere condannata al risarcimento del danno in applicazione dell’art. 8 l. 604/66.
La relativa indennità, tenuto conto della durata del rapporto e delle dimensioni del datore di lavoro, può essere quantificata nella misura di quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, il cui ammontare non è stato contestato dalla convenuta.
Circa l’infortunio occorso alla lavoratrice, la ricorrente individua nella violazione dell’art. 2087 cod. civ. la fonte della responsabilità datoriale deducendo che la pedana sulla quale era scivolata fosse usurata, resa scivolosa dall’acqua ed evidenziando che dopo l’infortunio Naturalmente Gelato srl aveva provveduto a sostituirla. Si osserva in proposito che il datore di lavoro ha il dovere di accertarsi del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera. In altri termini, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa: tale obbligo, oltre che a disposizioni specifiche, più generalmente si deve proprio ricondurre al disposto dell’art. 2087 cod. civ., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro.
Si tratta di verificare se con riferimento alla fattispecie dedotta sia o meno ascrivibile alla società convenuta il mancato rispetto di cautele doverose.
L’art. 2087 cod. civ., come visto, impone al datore di lavoro di predisporre tutte le misure idonee, secondo l’esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro, a prevenire situazioni di danno per la salute fisica e la personalità del lavoratore sulla base del principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile.
Tale concetto è espresso dalla giurisprudenza laddove si precisa che l’operatività della norma non è esclusa, bensì rafforzata dalla sussistenza di norme speciali che dispongano l’adozione di particolari cautele ed obbliga l’imprenditore ad adottare, ai fini della tutela delle condizioni di lavoro, non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, nonché quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela della sicurezza del lavoro in base alla particolarità dell’attività lavorativa, all’esperienza ed alla tecnica (Cass. n. 20142/2010), misure per l’individuazione delle quali può farsi riferimento, ove sussista identità di ratio, anche a norme dettate ad altri fini, ancorché peculiari ad attività diverse da quella dell’imprenditore (Cass. n. 3738/1995). Pertanto il rispetto degli obblighi posti dalla normativa antinfortunistica non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di porre in essere le misure necessarie per prevenire, secondo le modalità organizzative necessarie nel caso concreto, la realizzazione di infortuni sul lavoro (Cass. n. 14468/2017; Cass. n. 944/2012).
La norma in commento impone quindi al datore di lavoro non solamente di adottare le idonee misure protettive, ma anche di accertare e vigilare che di quelle misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (Cass. n. 10097/2011), non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (Cass. n. 798/2017; Cass. n. 7127/2007; Cass. n. 19559/2006; Cass. n. 5493/2006), essendo il datore di lavoro tenuto a proteggere l’incolumità del dipendente nonostante la sua negligenza e imprudenza (Cass. n. 24798/2016; Cass. n. 21127/2013).
E’ pacifico che l’art. 2087 introduce un dovere che trova fonte immediata e diretta nel contratto di lavoro subordinato (Cass. n. 1168/1995). Pertanto, ad avviso della giurisprudenza, alla responsabilità datoriale nei confronti del lavoratore per danni da infortunio sul lavoro a causa di inadempimento all’obbligo contrattuale di sicurezza si applicano le regole civilistiche sull’inadempimento ex art. 1218 (Cass. n. 8855/2013).
Ne deriva che l’azione di responsabilità promossa dal lavoratore esige la dimostrazione dell’esistenza del danno, dell’esposizione al rischio in base alle mansioni svolte, del fatto-inadempimento del datore di lavoro, oltre che del nesso di causalità materiale tra questi fattori. Una volta soddisfatto tale onere, grava sul datore di lavoro la prova contraria. Quando le misure di sicurezza sono tipiche e nominate, la prova liberatoria consiste nella negazione dei fatti addotti dal lavoratore (insussistenza dell’inadempimento all’obbligo di predisporre le misure protettive e/o del nesso causale); quando invece (come è il caso di specie) le misure protettive sono atipiche o innominate il datore di lavoro dovrà dimostrare di aver osservato lo standard di diligenza richiesto dall’art. 2087 c.c., adottando i comportamenti idonei e specifici, che sono poi quelli generalmente praticati ed acquisiti nella determinata attività produttiva.
All’esito dell’istruttoria svolta, la responsabilità civile in ordine all’infortunio occorso a Fa. Va. deve essere affermata ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. in capo a Naturalmente Gelato srl, avendo parte ricorrente provato le condizioni usurate della pedana resa scivolosa dall’acqua (e pertanto la nocività dell’ambiente di lavoro) ed il nesso di causalità tra dette condizioni e il danno, non avendo di contro il datore di lavoro dimostrato di aver adottato tutte le cautele necessarie (vds., ex multis, Cass. 2038/2013);
infatti è stato dimostrato nel corso dell’istruttoria orale con l’audizione dei colleghi di lavoro della ricorrente all’epoca dei fatti che la pedana su cui la medesima era scivolata mentre stava lavorando, era formata da diversi pannelli di legno, uniti tra loro da giunture d’acciaio, che era usurata, rotta in un punto e resa scivolosa dalla caduta dell’acqua che vi cadeva sopra in prossimità del pozzetto.
In particolare, la teste Ra. Il., presente il giorno dell’infortunio, ha dichiarato “Non ho visto mentre la ricorrente cadeva. L’ho vista davanti alla vetrina già a terra (…). Sul luogo di lavoro c’era una pedana di cui non ricordo il materiale, era costituita da più pezzi uniti da giunture in acciaio; a mio avviso la pedana era perciò continua. Io non ho visto i particolari della caduta, come detto, ma quando era per terra, aveva il fondoschiena sulla pedana. Successivamente la pedana è stata sostituita. La pedana è stata cambiata anche dove avevamo il pozzetto per sciacquare i porzionatori. (…)”.
Anche la teste Sa. Fi. Nu. Ra. era presente al lavoro il giorno dell’infortunio anche se era entrata in servizio dopo il fatto. Ella ha dichiarato: “So della caduta della ricorrente perché lei mi aveva fatto vedere la schiena, era piuttosto gonfia. La ricorrente dopo la caduta ha ripreso a lavorare per quanto zoppicasse. (…) appena sono entrata, lei mi aveva detto che le faceva male la schiena, raccontandomi della caduta. La pedana che era presente nella gelateria era discontinua; c’erano delle giunture tra un pezzo e l’altro, le giunture non erano aperte, la giuntura rispetto alla pedana non determinava dislivelli. La pedana era presente all’entrata sul bancone. Nel laboratorio retrostante, diviso da un’entrata a parte, non c’era pedana. La pedana era davanti al banco. So che la pedana era stata sostituita, non so di preciso quando la società l’abbia cambiata. C’è stato uno stacco di alcuni giorni, più o meno due o tre settimane, e, quando sono rientrata, la pedana era già stata cambiata. (…) che io ricordi la pedana è stata cambiata in tutto il bancone (…). Che io ricordi, non ci sono stati altri lavori nel locale dopo l’infortunio della ricorrente, mi pare solo sia stato messo un freezer nuovo”.
La teste Gu. Fe. ha dichiarato: “La pedana dietro al bancone, al tempo dell’infortunio di Va., aveva una parte che era rotta. Era rotta nella parte vicino al pozzetto. Non era bucata ma stava marcendo per colpa dell’acqua che finiva sopra quando si pulisce il porzionatore, tra un gusto e l’altro, facendo i gelati”.
La teste Ar. Gu. Ma. ha dichiarato: “La pedana era a posto e funzionante, ricoperta di un materiale antiscivolo. Però, nel periodo dell’infortunio alla signora Fa., più o meno a metà della pedana, in corrispondenza con il pozzetto del gelato, la pedana era rovinata, cioè il legno era consumato in conseguenza del problema che avevamo avuto con le tubature”.
Tali dichiarazioni non sono state scalfite da quelle (parzialmente diverse) rese dal teste Pa. Pa. An., manutentore di impianti di condizionamento che in merito allo stato della pedana, ha dichiarato: “Mi capita di dover percorrere la pedana che sta dietro il bancone della gelateria per accedere al laboratorio, dal laboratorio poi passo in un locale spogliatoio con degli armadietti e da lì passo nel sottotetto dove c’è l’impianto di condizionamento. Si tratta di una pedana smontabile, probabilmente in legno, ricoperta con un foglio di linoleum antiscivolo, costituita di più parti. Camminandoci sopra mi sembrava perfettamente funzionante. Non so il periodo preciso in cui si verificò l’incidente alla signora Fa.. Nel 2014, come tutti gli anni, ho percorso la pedana della gelateria almeno quattro volte, perché sono almeno quattro gli interventi annuali di manutenzione sull’impianto di condizionamento. Di solito si interviene a Gennaio, a Maggio, ad Agosto e a Novembre”.
Parte convenuta non ha dimostrato di avere espletato sulla pedana tutte le attività di controllo, vigilanza e manutenzione su di essa gravanti e quindi di avere adottato tutte le cautele necessarie al fine di prevenire l’infortunio alla lavoratrice.
A conferma dell’inadeguatezza della pedana è la circostanza che dopo l’infortunio occorso alla ricorrente la stessa veniva sostituita.
Quanto alla consulenza disposta nella presente causa, il CTU ha concluso che “il tipo di lesione ed il quadro obiettivo seguito al nocumento stesso paiono rapportabili con elevata probabilità logica (e comunque nel rispetto del criterio del più probabile che non) all’evento traumatico così come descritto in atti”.
Rispettati appaiono i criteri di riferimento topografico, temporale e della continuità fenomenica, di efficienza lesiva e dell’efficienza qualitativa e quantitativa, esclusione di altri
In definitiva, il nesso causale deve darsi per accertato in questa sede sulla base delle conclusioni del consulente.
Sulla base di quanto precede, occorre individuare i danni concretamente risarcibili a favore di parte ricorrente.
Occorre quantificare il danno biologico c.d. differenziale e quello patrimoniale, per poi procedere alla regolazione delle spese del procedimento.
Quanto al danno biologico cd differenziale, la ricorrente innanzi tutto percepiva dall’INAIL la somma di Euro 5430,10 (doc. 11bis, fasc. ricorrente) che le aveva riconosciuto un danno biologico pari al 6%; il CT medico-legale evidenziava che la ricorrente, a causa dell’infortunio, riportava “un quadro algo-disfunzionale all’arto inferiore sinistro imputabile ad una sofferenza neurogena cronica da lesione diretta del nervo gluteo superiore ed in minor misura del nervo gluteo inferiore e del nervo sciatico”. Aggiungeva che “il tipo di lesione ed il quadro obiettivo seguito al nocumento stesso paiono rapportabili con elevata probabilità logica (e comunque nel rispetto del criterio del più probabile che non) all’evento traumatico così come descritto in atti”.
Individuava un danno biologico permanente quantificabile nella misura dell’11%: “si può far cenno alle principali tabelle di riferimento, ove la paralisi completa del nervo gluteo superiore è tabellata all’8%, mentre la paralisi completa del gluteo inferiore è tabellata al 15%. Considerato che nel caso di specie non risultano quadri di paralisi completa, ma che sono interessati più rami nervosi, si può individuare un danno biologico permanente quantificabile nella misura dell’11%”. Tale percentuale risulta corretta alla luce del tipo di lesione riportata dalla ricorrente.
Circa la valutazione del danno biologico temporaneo, il CTU (d’accordo sul punto con i consulenti di parte) rilevava che non risultavano periodi di ricovero inquadrabili come danno biologico temporaneo assoluto (100%) ma che la suddivisione dei periodi era difficoltosa in quanto non erano state indicate precisamente “le fasi di impiego di appoggi singoli o doppi, i periodi di relativa immobilizzazione ecc.”. Concludeva pertanto considerando il periodo di inabilità lavorativa temporanea indicato dall’INAIL e individuava:
un danno biologico temporaneo parziale al 75% per giorni sessanta
un danno biologico temporaneo parziale al 50% per giorni sessanta
un danno biologico temporaneo parziale al 25% per giorni sessanta
Quanto al danno biologico cd differenziale, esso va calcolato sottraendo dall’importo derivante dalla valutazione medico-legale, l’importo erogato dall’INAIL (trattandosi di danno biologico anche in ambito INAIL).
Venendo al calcolo del danno biologico, emerge la necessità di applicare un criterio liquidativo univoco per garantire uniformità di trattamento attraverso l’applicazione delle Tabelle di Milano 2014 utilizzabili nel caso che ci occupa.
Sulla base delle predette tabelle pertanto, considerata l’età della ricorrente al momento dell’infortunio (34 anni) correlata alla percentuale di invalidità permanente pari all’11% il danno biologico ammonta ad Euro 26.730,00.
Quanto all’aumento per la personalizzazione del danno (che la ricorrente chiede stimarsi nel 20%), si rileva che la Cassazione con una recente sentenza ha stabilito che “La nozione unitaria del danno non patrimoniale e la potenziale personalizzazione del danno morale come prevista dalle tabelle milanesi implicano, sul piano probatorio, l’onere per il danneggiato di allegare circostanze specifiche ed eccezionali idonee a fornire riscontro alla possibile personalizzazione” (Cassazione civile, sez. III, 31/10/2017, n. 2581). In tale pronuncia la Corte di Cassazione ha inoltre aggiunto che “Questa Corte ha invero ribadito che il grado di invalidità permanente espresso da un bareme medico legale esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana della vittima, restando preclusa la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona, quali il danno alla vita di relazione e alla vita sessuale, il danno estetico e il danno esistenziale. Soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione” (si veda anche Cass. 07/11/2014, n. 23778; Cass. 13/10/2016, n. 20630).
Le circostanze dedotte dalla ricorrente sono relative ai postumi dell’infortunio rappresentati dalla difficoltà di deambulazione, dall’uso della stampella, dalla affaticabilità e dai dolori che limitano la sua capacità di attendere alle faccende domestiche e di badare ai figli. L’istruttoria svolta sul punto attraverso l’audizione di familiari e amici della ricorrente ha consentito di provare che “tutt’ora mia figlia deambula col supporto della stampella (…) i pesi non li può portare, la spesa non la può fare e cose simili, si stanca subito se fa qualcosa un po’ più del solito (si regge solo su una gamba, l’altra non funziona)” (teste Fr. Ro., madre della ricorrente); “è vero che la mia convivente ha bisogno d’aiuto per fare i lavori di casa e occuparsi della figlia” (teste Po. An., convivente della ricorrente); “per i lavori di casa si fa aiutare perché per via della stampella ha un po’ di problemi” (teste Bo. Gi., amica della ricorrente).
In ragione delle deduzioni di parte ricorrente ed in considerazione dell’orientamento della Corte di Cassazione sopra riportato, si ritiene che, avuto riguardo ai disagi che l’infortunio ha causato ad una donna in giovane età costretta ad aiutarsi con la stampella e delle sue sofferenze fisiche e psichiche derivanti dall’impossibilità di attendere alle proprie occupazioni domestiche senza l’aiuto costante di familiari ed amici, si reputa congruo un aumento personalizzato nella misura del 10%.
Si deve poi calcolare l’aumento per l’invalidità temporanea parziale (al 75% per sessanta giorni, al 50% per sessanta giorni e al 25% per sessanta giorni).
Il danno biologico va pertanto liquidato nella misura di Euro 40.247,50: Euro 26.730,00 + il 10% = Euro 29.403,00 + 10.844,50 (Euro 5.422,50+3.615,00+1807,50).
Considerato che Fa. Va. ha percepito dall’INAIL a titolo di danno biologico la somma di Euro 5430,10 il danno biologico c.d. differenziale deve pertanto essere liquidato in Euro 34.817,40.
Il ragionamento del CTU non può essere condiviso laddove egli ritiene che il danno differenziale dovrebbe essere calcolato considerando una percentuale più alta del danno valutato dall’INAIL. Le tabelle dell’INAIL sono infatti differenti da quelle di Milano e le voci non sono pertanto omogenee.
Il CTU individuava infine una riduzione della capacità lavorativa generica pari al 10-15% calcolata invero sulla base delle tabelle di riferimento dell’invalidità civile, evidenziando comunque che “risulta a tratti difficoltoso indicare il reale decremento della stessa secondo parametrizzazioni più proprie del danno biologico”.
Sul punto occorre considerare che la Corte di Cassazione ha stabilito che “In caso di postumi di lieve entità – o allorquando manchino elementi da cui desumere un’incidenza della lesione sull’attività di lavoro attuale o futura del soggetto leso – vanno escluse l’esistenza e la risarcibilità di qualsiasi danno da riduzione della capacità lavorativa, mentre va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) idoneo a cogliere, nella sua totalità, il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psicofisica” (Cassazione Civile, sez. III, sentenza 12/06/2015 n. 12211). Considerato che nel caso di specie (a differenza di quello oggetto della pronuncia citata) non è stata accertata un’incapacità tale da non consentire alla ricorrente la possibilità di attendere (anche) ad altri lavori “confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali ed idonei alla produzione di fonti di reddito”, si ritiene non risarcibile tale voce di danno sotto il differente profilo del danno patrimoniale in quanto rappresentativa di un pregiudizio incidente su di un generico modo di essere del danneggiato, non rilevante sul piano reddituale, e come tale risarcibile quale danno biologico (così ex multis, Cass. n. 2758/15) ed in esso quindi rientrante.
Quanto alla capacità lavorativa specifica il CTU affermava che “il quadro lesivo limita talune tipologie di attività, potendosi quindi indicare la maggior usura nel caso di mansioni che prevedono l’ortostatismo per periodi prolungati e la necessità di lunghe sessioni deambulatorie (in riferimento proprio all’attività di commessa)”.
Si osserva in proposito che la Corte di Cassazione ha affermato che la menomazione della capacità lavorativa specifica, configurando un pregiudizio patrimoniale, va ricondotta nell’ambito del danno patrimoniale e non del danno biologico (Corte di Cassazione, sentenza n. 1879 del 27 gennaio 2011).
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha inoltre stabilito che costituisce acquisizione pacifica quella secondo cui il grado di invalidità permanente determinato da una lesione della integrità psicofisica non determina automaticamente la riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica del danneggiato, né, conseguentemente, una diminuzione del correlato guadagno, dovendo comunque il soggetto leso dimostrare, in concreto, lo svolgimento di un’attività produttiva di reddito (o trattandosi di persona non ancora dedita ad attività lavorativa, che presumibilmente avrebbe svolto) e la diminuzione o il mancato conseguimento del guadagno in conseguenza del fatto dannoso (Corte di Cassazione, sentenza n. 4673 del 10 marzo 2016) .
In altre parole, occorre la dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio patrimoniale (Corte di Cassazione, sentenza 2758 del 12 febbraio 2015).
Sulla stessa scia si muove la sentenza n. 7524/2014, con cui la Corte di Cassazione ha ribadito che in tema di risarcimento del danno alla persona, sussiste la risarcibilità del danno patrimoniale solo qualora sia riscontrabile la riduzione o la eliminazione della capacità del danneggiato di produrre reddito. Mentre il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggior usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidendo neanche sotto il profilo delle opportunità di reddito della persona offesa (c.d. perdita di chance) e risolvendosi in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo, va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute (Corte di Cassazione, sentenza n. 5840/2004).
Nel caso di specie, parte ricorrente non ha dimostrato che la riduzione della capacità lavorativa specifica si sia tradotta in un effettivo pregiudizio patrimoniale.
Alla luce delle suesposte considerazioni, si ritiene che la limitazione evidenziata dal CTU si sia invero risolta in un danno alla salute.
Va pertanto rigettata tale richiesta avanzata da parte ricorrente.
Parte ricorrente infine assume di avere sostenuto spese mediche per un importo pari a Euro 988,00, producendo a tal fine le fatture nn. 46/2017 e 9/2017 relative rispettivamente alla perizia medico-legale svolta dalla Dott. Va. per Euro 488,00 (doc. 8, fasc. ricorrente) e l’assistenza prestata dalla predetta quale CTP per Euro 500,00 (doc. 15, fasc. ricorrente).
Quanto alle spese di cui alla fattura n. 46/2017 per Euro 488,00, esse devono essere considerate una voce di danno patrimoniale e parte convenuta deve essere condannata al relativo pagamento a tale titolo.
Considerata la parziale reiezione delle domande attrici, vi è ragione per una compensazione parziale delle spese del giudizio nella misura di 1/3, ponendo quindi a carico della convenuta i 2/3 delle spese di lite.
La convenuta è onerata definitivamente anche dei costi della CTU, già provvisoriamente determinati.
P.Q.M.
Il Tribunale in composizione monocratica, in funzione di Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda, istanza ed eccezione disattesa, così provvede:
1) annulla il licenziamento intimato alla ricorrente il 30.4.2015;
2) dichiara per l’effetto tenuta e, conseguentemente, condanna la convenuta, in persona del legale rappresentante pro-tempore, a corrispondere alla ricorrente un’indennità pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per complessivi Euro 6.014,04, con gli interessi legali, sull’importo capitale da rivalutarsi anno per anno, dalle singole scadenze e fino al saldo;
3) dichiara che l’infortunio sul lavoro e le conseguenti lesioni patite dalla ricorrente si sono verificati per responsabilità della convenuta;
4) condanna la convenuta, in persona del legale rappresentante pro-tempore, a corrispondere alla ricorrente i seguenti importi a titolo di capitale, oltre intessi legali sulle somme annualmente rivalutate dalla data della decisione al saldo: (i) Euro 34.817,40, a titolo di danno biologico differenziale; (ii) Euro 488,00 a titolo di danno patrimoniale conseguente a spese mediche;
5) condanna la convenuta, in persona del legale rappresentante pro tempore, a rifondere la ricorrente i 2/3 delle spese di lite, che liquida in Euro 4.252,00 per compenso professionale, in Euro 350,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario al 15%, CPA e IVA come per legge;
6) compensa tra le parti il restante terzo delle spese di lite;
7) pone definitivamente a carico della convenuta, in persona del legale rappresentante pro-tempore, i costi della consulenza tecnica d’ufficio.
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