TRIBUNALE DI PALERMO – Ordinanza 27 aprile 2004, n. 838
Pignoramento dei crediti del lavoratore per stipendio, salario e altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento – Limitazione ad un quinto anche nel caso in cui il credito opposto in compensazione abbia origine dal medesimo rapporto di lavoro o di impiego – Ingiustificato trattamento di privilegio del datore di lavoro rispetto agli altri creditori del lavoratore .
Letti gli atti e sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 22 aprile 2004;
Premesso che con distinti ricorsi successivamente riuniti, depositati il 27 luglio 2001 la S.p.a. Banco di (…) ha convenuto in giudizio il proprio ex dipendente (…) Pietro, chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo n. 740/2001 R.G., con il quale questo tribunale le aveva ingiunto di pagare al convenuto la somma di L. 56.006.676. pari ai quattro quinti del T.F.R. e delle altre spettanze di fine rapporto da lui maturate, e in via riconvenzionale la condanna del convenuto a pagarle la somma di L. 638.888.496, da lui illecitamente sottrattele nello svolgimento delle mansioni alle quali era adibito;
Premesso, inoltre, che lo stesso importo chiesto in via riconvenzionale è stato opposto in compensazione atecnica ex art. 1243 c.c. fino a concorrenza delle somme dovute al convenuto a titolo di T.F.R. e altre spettanze di fine rapporto;
Premesso, ancora, che il convenuto, costituitosi in giudizio, ha eccepito che il credito vantato dalla società non sarebbe opponibile in compensazione oltre i limiti del quinto delle somme ingiunte, in quanto avente natura extracontrattuale, e in subordine ha eccepito l’incostituzionalità, per contrasto con l’art. 3 Cost., del combinato disposto degli artt. 1246 n. 3 e 545 terzo, quarto e quinto comma, nella parte in cui non prevedono espressamente che la compensazione e il pignoramento di quanto dovuto a titolo di stipendio, salario e altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego operi nei limiti ivi previsti anche in relazione a crediti vantati dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro o di impiego;
Ritenuto che, secondo il costante orientamento della suprema Corte di legittimità, l’azione volta al risarcimento dei danni cagionati dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni cui e adibito (ivi compresi quelli scaturenti, come nella specie, da una condotta di appropriazione indebita) ha natura contrattuale, essendo fondata sulla violazione dei doveri di diligenza imposti dall’art. 2104 c.c. (cfr. fra le più recenti Cass. nn. 4083 del 2002, 6664 del 2000, 950 e 13891 del 1999, 7861 del 1987);
Osserva
Dubita parte convenuta della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1246 n. 3 c.c. e 545 c.p.c. nella parte in cui non affermano che il pignoramento e la compensazione dei crediti del lavoratore per retribuzioni e indennità di fine rapporto debba avvenire nei limiti del quinto anche nel caso in cui il credito di parte datoriale abbia origine dal medesimo rapporto di lavoro o d’impiego.
Va premesso, al riguardo, che appare ormai consolidato quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui non costituirebbe compensazione in senso proprio, bensì mero conguaglio dare/avere, come tale non soggetto ad alcuna delle limitazioni di cui al combinato disposto degli artt. citt., l’operazione che il datore di lavoro compie detraendo dalla retribuzione l’importo corrispondente a un proprio credito verso il lavoratore nascente dallo stesso rapporto di lavoro (cfr. fra le più recenti, Cass. nn. 9904 del 2003, 4174 del 1998, 6033 del 1997, 4873 del 1995, 3067 del 1990, 301 del 1988, 1245 del 1987, 5745 del 1982). Ad avviso del supremo Collegio, infatti l’istituto della compensazione presupporrebbe l’autonomia dei rapporti cui sì riferiscono i rispettivi crediti e debiti, onde non sarebbe configurabile allorché le contrapposte pretese scaturiscano da un unico rapporto, nel qual caso la loro valutazione importerebbe soltanto un semplice accertamento contabile di dare/avere, che sfuggirebbe non solo ai limiti concernenti la rilevabilità della compensazione ma altresì ai limiti quantitativi entro cui essa può essere proposta (così, in part. Cass. n. 1245 del 1987 cit.).
Siffatta compensazione «atecnica», come è stata chiamata, si fonderebbe sul rilievo per cui operare la compensazione fra obbligazioni derivanti dal medesimo rapporto, quando quest’ultimo è connotato dalla corrispettività delle prestazioni, sarebbe in contrasto con la funzione sinallagmatica del contratto e con l’interesse del creditore a ottenere la controprestazione: come ebbe ad esprimersi antica e autorevole dottrina, sarebbe strano compensare le obbligazioni derivanti da un solo contratto a prestazioni corrispettive, anzi contraddittorio con la finalità del contratto, ch’è appunto quella di garantire a ciascun contraente la prestazione convenuta.
Per quanto consolidate, le suesposte conclusioni non sono necessariamente convincenti. Si può infatti concordare con quella dottrina che, richiamandole criticamente, ha osservato che un contratto a prestazioni corrispettive consistenti nell’immediata dazione di una somma di denaro o di altra quantità di cose fungibili ed omogenee sarebbe nullo per mancanza di causa, sicché sarebbe inutile cercare, per così dire, di preservare la funzionalità del sinallagma contrattuale introducendo l’ulteriore requisito dell’autonomia dei rapporti ai fini dell’operatività della compensazione: per essere causalmente significativo, infatti, il contratto dovrebbe quanto meno prevedere che le prestazioni oggetto degli obblighi corrispettivi, per quanto omogenee e liquide, non siano contemporaneamente esigibili, onde alla compensazione non potrebbe comunque procedersi per mancanza di uno dei requisiti di cui all’art. 1243 c.c.
Se ciò è vero, non vi sarebbero ragioni per escludere che la compensazione operi anche nei rapporti di debito/credito scaturenti da un medesimo rapporto giuridico e per negare che i medesimi limiti posti dal combinato disposto di cui agli artt. 1246 n. 3 c.c. e 545 c.p.c. debbano trovare applicazione anche nei rapporti di debito/credito fra il datore di lavoro e il lavoratore; e ciò pur considerando che i debiti e i crediti di cui trattasi, benché potenzialmente diversi quanto a fatto costitutivo (non v’ha dubbio che il debito di natura risarcitoria del lavoratore ha un fatto costitutivo diverso da quello che fonda il suo credito alla retribuzione), posseggono indubbiamente il medesimo titolo (inteso quale «causa remota»), cioè il contratto di lavoro.
Non può tuttavia tacersi che una simile proposta interpretativa è ben lungi da quel che può convenientemente definirsi il «diritto vivente»: come già osservato, la giurisprudenza della suprema Corte di legittimità è solidamente attestata in senso contrario, tanto da ritenere che solo un’apposita pattuizione del contratto collettivo (o del contratto individuale) potrebbe impedire il verificarsi della compensazione atecnica e, dunque, l’estinzione del credito del lavoratore ben oltre il quinto di cui all’art. 545 comma 4 c.p.c. (così Cass. n. 9904 del 2003, cit.).
E’ proprio quest’ultima conseguenza – che nel caso di specie importerebbe il totale sacrificio delle somme dovute al convenuto a titolo di T.F.R. e altre spettanze di fine lavoro – a indurre il giudicante a dubitare della legittimità costituzionale della norma.
Come già affermato dalla Corte costituzionale (cfr. sent. n. 20 del 1968 e ord. n. 260 del 1987 la disposizione dell’art. 545, comma 4 c.p.c., che consente il pignoramento (e, in virtù del richiamo di cui all’art. 1246 n. 3 c.c., la compensazione) di un quinto della retribuzione dovuta al lavoratore, ha per scopo il contemperamento dell’interesse del creditore con quello del debitore: posto che la privazione di una parte del salario è un sacrificio normalmente gravoso per il lavoratore, stante la funzione alimentare della retribuzione, il legislatore ha contenuto in limiti angusti la somma pignorabile (e quindi compensabile). Di contro, è evidente che nessun contemperamento avviene nella norma che la costante giurisprudenza di legittimità ritiene di poter desumere dal testo degli artt. 1246 n. 3 c.c.e 545 c.p.c.: il lavoratore può vedersi pignorare (o estinguere) l’intero credito per retribuzioni e indennità di fine rapporto come conseguenza di un suo debito nei confronti del datore di lavoro. E se ciò può talora rispondere a esigenze di giustizia sostanziale (sembra infatti ingiusto che il datore dì lavoro debba corrispondere al dipendente licenziato per furto o appropriazione indebita i quattro quinti del T.F.R. senza poter defalcare quanto illecitamente egli gli ha sottratto), non è meno vero che, operando in tal modo, viene completamente a vanificarsi la funzione alimentare della retribuzione, che – a norma dell’art. 36 Cost. – non solo remunera quantità e qualità del lavoro prestato ma altresì assicura al lavoratore e alla sua famiglia la possibilità di condurre un’esistenza libera e dignitosa.
E’ il caso di precisare che non si vuol qui sostenere che, stante la funzione alimentare della retribuzione, il datore di lavoro sarebbe impedito financo a opporre l’exceptio inadimpleti contractus e tenuto a corrispondere la retribuzione perfino se il lavoratore non ha prestato alcuna attività: data la regola della post-numerazione, un diritto alla retribuzione non può sorgere se non in presenza di una preventiva prestazione lavorativa, onde giammai potrebbe addursi l’art. 36 Cost. per obbligare il datore di lavoro a pagare il lavoratore che non esegue la prestazione. Si vuol piuttosto rimarcare che, se è vero che i limiti alla compensazione sono preordinati ad attuare il principio del solve et repete, che è proprio di quei crediti che, per la natura del loro titolo, non ammettono remore alla loro soddisfazione, e se è vero che fra tali crediti figurano le pretese retributive, siccome funzionali a permettere il soddisfacimento di bisogni primari del lavoratore e della sua famiglia, consentire che il datore di lavoro possa frustrare questi ultimi, opponendovi propri controcrediti scaturenti dal rapporto di lavoro, non appare conforme al disposto dell’art. 36 Cost.: basti pensare che potrebbe portare all’assurdo di permettere al datore di lavoro di rifiutarsi mese per mese di corrispondere la retribuzione al proprio dipendente, nonostante questi abbia regolarmente lavorato, in considerazione del maggior credito vantato nei suoi confronti per danni da pregresso inadempimento contrattuale.
Peraltro, il fatto che i reciproci crediti originino da un medesimo rapporto, invece che da rapporti differenti, non sembra idoneo a fondare una così marcata differenza di trattamento tra il datore di lavoro e tutti gli altri creditori del lavoratore, tenuti invece a non poter opporre oltre il quinto i propri crediti, onde la norma in questione, potrebbe essere passibile di censura anche ex art. 3, primo comma Cost.
Pertanto, ritenuto l’insegnamento della Corte costituzionale secondo cui il giudice a quo può proporre validamente la questione di legittimità costituzionale del significato normativo attribuito dalla giurisprudenza dominante alla disposizione applicabile nel giudizio principale anche qualora mostri di non condividerlo e di ritenere possibile un’interpretazione diversa e conforme a Costituzione (cfr. Corte cost. nn. 110 e 188 del 1995) e considerato che il significato univocamente attribuito dalla giurisprudenza di legittimità al combinato disposto degli artt. 1246 n. 3 c.c.e 545 c.p.c. può ormai considerarsi «diritto vivente», essendo frutto di una serie continua di pronunce uniformi (cfr. Corte cost. n. 108 del 1986, in motivazione), va senz’altro sollevata la questione di legittimità costituzionale nei termini di cui in dispositivo, cui si rinvia anche per i provvedimenti ulteriori.
P.Q.M.
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, comma primo, e 36 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1246 n. 3 c.c.e 545 comma 4 c.p.c., nella parte in cui non prevedono che la compensazione dei crediti del lavoratore per stipendio, salario o altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, debba avvenire nei limiti della misura di un quinto anche nel caso in cui il credito opposto in compensazione abbia origine dal medesimo rapporto di lavoro o d’impiego;
Ordina la trasmissione degli atti del giudizio alla Corte costituzionale;
Dispone sospendersi il presente giudizio;
Manda in cancelleria per la comunicazione della presente ordinanza alle parti costituite, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente della Camera dei deputati e al Presidente del Senato della Repubblica.
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