CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 14619 depositata il 15 luglio 2016
LAVORO – COLLABORATRICE DOMESTICA – SUSSISTENZA DI UN RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – MODALITA’ DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA – PROVA
Fatto e diritto
Il Consigliere relatore ha depositato la seguente relazione ai sensi degli artt. 375 e 380 bis cod. proc. civ.: “La Corte d’appello di Lecce, pronunziando sull’impugnazione di G.C. e A.A., ha confermato la sentenza di primo grado che, in parziale accoglimento della domanda proposta da R.R., aveva condannato gli appellanti al pagamento della somma di € 8.534,77, nonché del tfr, oltre accessori, a titolo di differenze retributive spettanti alla ricorrente per l’attività di collaboratrice domestica disimpegnata limitatamente al periodo 2003/2007.
La statuizione di conferma è stata adottata all’esito del riesame delle risultanze istruttorie sollecitato con il ricorso in appello.
Per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso G.C. e A.A. sulla base di tre motivi. Ritualmente evocata la parte intimata non ha svolto attività difensiva.
Con il primo motivo deducendo, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione degli artt. 116 e 244 cod. proc. civ., i ricorrenti hanno censurato la decisione per avere attribuito rilevanza probatoria alla deposizione del teste C., che aveva riferito “de relato” in ordine al preteso rapporto di lavoro dipendente instaurato dalla R. con i convenuti C. e A..
Hanno sostenuto che tale deposizione, avente rilevanza attenuata in quanto indiretta, era smentita da deposizioni contrastanti rese da altri testi.
Con il secondo motivo, deducendo, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., hanno censurato la decisione per avere attribuito valore probatorio al possesso da parte della R. delle chiavi delle abitazioni dei C. e del fratello della A. e per avere ritenuta generica la contestazione a riguardo del C. in ordine alla consegna delle chiavi alla R.
Con il terzo motivo, deducendo ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., hanno censurato la decisione per avere omesso di valutare una prova dalla quale emergeva in maniera chiara e precisa che la R. non aveva prestato attività di lavoro subordinato in favore dei coniugi C.. Tale prova era costituita dalla deposizione testimoniale del sig. A. A., fratello della convenuta A.A., dalla quale si evinceva che la R. si recava ogni tanto presso l’abitazione dei coniugi C. solo per ricevere aiuti economici e non per svolgere attività di lavoro domestico.
Il ricorso è manifestamente infondato.
Si premette che la statuizione di conferma della decisione di primo grado è stata adottata dal giudice di appello all’esito del riesame delle risultanze probatorie, sollecitato, secondo quanto riferito nella medesima sentenza di appello, dal gravame proposto dagli odierni ricorrenti. La Corte territoriale ha, quindi, proceduto alla puntuale verifica degli elementi acquisiti dalla istruttoria espletata in prime cure e della relativa valenza probatoria pervenendo alla conferma della decisione di primo grado in ordine alla esistenza inter partes di un rapporto di lavoro subordinato, alla relativa durata ed alle relative modalità di articolazione della prestazione lavorativa.
Tale ricostruzione non risulta inficiata dai motivi di ricorso svolti dagli odierni ricorrenti.
Il primo motivo di ricorso risulta manifestamente infondato per essere lo stesso ancorato ad un presupposto di fatto in realtà inesistente e cioè alla natura “de relato” della deposizione resa dal teste Gazzetta, circostanza questa smentita “per tabulas” dalla sentenza d’appello la quale, con affermazione non specificamente censurata dagli odierni ricorrenti, ha rilevato che le dichiarazioni del teste C. che “vide personalmente e in più occasioni l’appellata intenta ai lavori domestici (“faceva pulizie, stirava, faceva di tutto, cucinava”) e quelle del V., avevano confermato l’espletamento da parte della R. di attività lavorativa, la conoscenza delle abitudini di casa, la dimestichezza con gli arredi e gli oggetti.
Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, trattati congiuntamente per connessione sono manifestamente infondati.
Preliminarmente, in merito alle dedotte violazioni degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., si rileva che, come chiarito da questa Corte, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5), cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. (Cass. n. 14267 del 2006)
La costante giurisprudenza di legittimità, nel vigore dell’art. 360 comma primo n. 5 cod. proc. civ. nel testo anteriore a quello attualmente vigente, aveva ripetutamente affermato che la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonché scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le altre, v. Cass. n. 18119 del 2008, n. 5489 del 2007, n. 20455 del 2006, n. 20322 del 2005, n. 2537 del 2004). In conseguenza, il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito quale risulta dalla sentenza impugnata e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logicogiuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato diversi che, agli stessi elementi siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti (v., per tutte Cass. S.U. n. 10345 del 1997). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata in quanto siffatta revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.
In sede di legittimità il controllo della motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice del merito circa la propria statuizione esibisca i requisiti strutturali minimi dell’argomentazione (fatto probatorio – massima di esperienza – fatto accertato) senza che sia consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata (potendo questa essere disattesa non già quando l’interferenza probatoria non sia da essa necessitata, ma solo quando non sia da essa neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita, avendosi, in tal caso, una mera apparenza del discorso giustificativo) o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione” (Cass. n. 14953 del 2000).
E’ stato inoltre affermato che la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 n. 4 cod. proc. civ., e l’osservanza degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., non richiede che il giudice di merito dia conto dell’esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, offrendo una motivazione logica ed adeguata, evidenziando le prove ritenute idonee a confortarla,, mentre non si deve dar conto dell’esito dell’ esame di tutte le prove prospettate o comunque acquisite. (Cass. n. 5241 del 2011, n. 17145 del 2006, n. 7058 del 2003).
Nella prospettiva del vizio di motivazione denunziabile con il motivo di ricorso di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ. nella sua attuale configurazione, è stato precisato che “la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”. (Cass. ss.uu. n.8053 del 2014) e che il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). (Cass. ss.uu. n. 8053 del 2014 cit.)
Alla luce dei richiamati principi le deduzioni di parte ricorrente si rivelano inidonee alla valida censura della decisione in quanto articolate in termini non coerenti con l’attuale formulazione del vizio di motivazione di cui all’art. 360 n.5 cod. proc. civ. e comunque intesi a sollecitare un diverso apprezzamento delle risultanze probatorie, apprezzamento che esula dal sindacato di legittimità.
E’ infatti da sottolineare che parte ricorrente non individua alcun fatto storico, avente rilevanza decisiva, il cui esame è stato omesso dal giudice di appello.
Le circostanze richiamate – possesso delle chiavi dell’abitazione del C. da parte della lavoratrice, genericità di contestazione a riguardo, deposizione del teste A. – oltre a non costituire “fatto storico” nel senso chiarito da ss.uu. 8053 del 2014 sono state, infatti, tutte oggetto di vaglio da parte della Corte di merito che ne ha liberamente apprezzato la valenza probatoria ponendole a confronto con gli altri elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria.
In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve quindi essere respinto.
Si chiede che il Presidente voglia fissare la data per l’adunanza camerale”.
Ritiene questo Collegio che le considerazioni svolte dal Relatore sono del tutto condivisibili siccome coerenti alla ormai consolidata giurisprudenza in materia e, che ricorre, quindi, con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, comma 1°, n. 5 cod. proc. Civ., per la definizione camerale”.
A tanto consegue il rigetto del ricorso. Nulla per le spese non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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