CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 novembre 2013, n. 25203
Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Prova sicura di tutti i fatti addebitati – Valutazione della gravità dell’illecito disciplinare
Svolgimento del processo
1. – La sentenza attualmente impugnata respinge l’appello di T. D. avverso la sentenza del Tribunale di Genova n. 262 del 19 marzo 2010, di rigetto della domanda della D. volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole da Poste Italiane s.p.a. per avere allegato a numerose richieste di rimborso biglietti ferroviari non corrispondenti alle tratte relative alle trasferte autorizzate (in particolare: biglietti da o per Celle Ligure anziché da o per Chiavari) ovvero biglietti poco leggibili.
La Corte d’appello di Genova, per quel che qui interessa, precisa che:
a) il Tribunale di Genova ha, in primo luogo, affermato che Poste Italiane aveva assolto l’onere di provare i fatti contestati alla ricorrente in riferimento a ciascuna delle trasferte di cui si tratta, attraverso la produzione di tutte le richieste di rimborso delle spese per le trasferte e della documentazione ad esse allegata;
b) pertanto, il Tribunale ha ritenuto che era onere dell’interessata dare dimostrazione della validità della propria tesi difensiva secondo cui i biglietti ferroviari timbrati alla stazione di Celle Ligure sarebbero stati inseriti nelle pratiche relative alle proprie richieste di rimborso o a causa di errori nell’archiviazione da parte dell’ufficio competente oppure ad opere di terzi animati dall’intento di nuocere alla lavoratrice;
c) ebbene, la prima ipotesi per il primo Giudice era da ritenere impossibile, visto che in sede di libero interrogatorio la stessa lavoratrice ha ammesso che l’ufficio che gestiva le trasferte per Celle Ligure era diverso da quello competente per le proprie trasferte;
d) la seconda ipotesi, per il Tribunale, era del tutto inverosimile e sfornita di prova;
e) comunque, anche sulla base di altri elementi emersi dall’istruttoria, il Tribunale è pervenuto alla conclusione che il comportamento addebitato alla D. era stato – oltre che provato, per quel che si è detto – idoneo ad incrinare in modo definitivo il rapporto fiduciario tra le parti e quindi a giustificare il licenziamento;
f) in appello la lavoratrice ha ribadito la contrarietà alla logica della tesi sostenuta dalla datrice di lavoro, ha rilevato come non era verosimile – e comunque non era stato provato – che ella abbia imito di passaggi di cortesia anziché utilizzare il treno ed ha precisato che non era dirimente la circostanza addebitatale di avere indicato come motivo delle trasferte le visite alle scuole invece della partecipazione a manifestazioni filateliche;
g) la decisione del Tribunale deve essere confermata in quanto, per le ragioni indicate nella sentenza di primo grado, si deve considerare certo che alle richieste di rimborso presentate dalla D. siano stati allegati biglietti che non si riguardavano la tratta Genova-Chiavari, cui si riferivano le richieste suindicate;
h) è da escludere sia l’errore di Poste Italiane, sia l’intervento di terzi e, al fine di supportare la tesi della difesa della lavoratrice, non vale neanche la circostanza che alla richiesta di trasferta del 14 agosto 2008 risulti allegato un biglietto ferroviario datato 27 agosto 2008 giorno in cui la ricorrente era in ferie, “perché ciò non prova che l’allegazione sia avvenuta ad opera di un terzo anziché della stessa appellante, magari al rientro dalle ferie”;
i) non resta quindi che riconoscere che è stata la D. a presentare – intenzionalmente – i biglietti che risultano allegati alle sue richieste di rimborso delle spese di viaggio e che non sono congruenti con le richieste medesime;
l) ai fini della prova del fatto addebitato – consegna di biglietti irregolari – e ai fini della valutazione della gravità dell’illecito disciplinare contestato non assume particolare rilievo stabilire quale sia stata la motivazione che ha spinto la lavoratrice ha porre in essere la suddetta condotta;
m) ciò che conta, infatti, è che si è trattato di un comportamento che ha consentito alla ricorrente di ottenere, con l’inganno, un rimborso delle spese di viaggio non dovuto o che non poteva dimostrare che le spettasse;
n) questo “è sufficiente a giustificare il licenziamento in riferimento all’intento perseguito dalla lavoratrice in danno del suo datore di lavoro” e, d’altra parte, “l’esiguità dell’utilità avuta di mira” non rende meno grave il fatto addebitato, in considerazione delle modalità fraudolente con le quali la D. ha agito.
2.- Il ricorso di T. D. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, Poste Italiane s.p.a.
Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
I – Sintesi dei motivi di ricorso
1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., nullità della sentenza per omessa motivazione sui seguenti fatti decisivi della controversia: 1) passaggio nella totale disponibilità dell’azienda datrice di lavoro della documentazione allegata alla richiesta di rimborso delle spese di viaggio per la trasferta dopo la relativa consegna da parte dell’ interessata al proprio Capo-Servizio; 2) avvenuto superamento positivo di tre livelli di controllo dell’anzidetta documentazione con corresponsione di quanto richiesto e con rilevamento solo retrospettivo e tardivo delle contestate irregolarità.
Si ribadisce quanto già sostenuto in appello sull’omessa effettuazione della doverosa verifica della documentazione in oggetto da parte degli uffici competenti al momento della relativa consegna da parte della D..
Si sottolinea, altresì, che la omessa effettuazione dei controlli – risultante dalle deposizioni testimoniali – si è posta in contrasto con una disposizione regolamentare (art. 11 del c.d. Travel policy vigente nella società Poste Italiane dal 2008, diretto a disciplinare le trasferte e costituente parte integrante della contrattazione collettiva, per questo allegato al presente ricorso) volta a garantire contemporaneamente l’azienda e i lavoratori.
Si rileva che la società non ha assolto adeguatamente l’onere probatorio a suo carico relativo alla dimostrazione della sicura allegazione, da parte della lavoratrice, di documentazione incoerente rispetto alle richieste di rimborso.
Sul punto non è rinvenibile alcuna motivazione nella sentenza impugnata, pur procedendo alla relativa integrazione con la sentenza di primo grado, ugualmente laconica al riguardo.
2. – Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione o erronea applicazione dell’art. 2702 cod. civ. nonché (anche sotto il profilo della mancata applicazione) degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., pure in riferimento all’art. 115, secondo comma, cod. proc. civ., in ragione della prova logica che, alla luce di presunzioni semplici e di regole di esperienza, è stata fornita dalla ricorrente nel giudizio di primo grado.
Si sottolinea che sia il Tribunale sia la Corte d’appello hanno dato per scontato che il mancato disconoscimento da parte della D. delle richieste di rimborso delle spese di trasferta valesse ad attribuire efficacia probatoria piena pure ai documenti allegati alle richieste stesse e, in particolare, ai biglietti ferroviari, che erano privi di sottoscrizione della interessata, mentre la lavoratrice ha sempre sostenuto che i documenti di viaggio sulla cui base è stata effettuata la contestazione disciplinare che ha portato al licenziamento erano diversi da quelli da lei originariamente posti a corredo delle richieste di rimborso.
Ne consegue che, per stabilire se i documenti stessi fossero o meno quelli originari il giudice aveva il potere-dovere di attingere elementi di prova dalla logica e dalla comune esperienza. A tal fine, nell’atto di appello, la D. aveva elencato una serie di elementi (riprodotti nell’attuale ricorso) che, con un ragionamento logico-deduttivo porterebbero ad escludere – con elevatissimo grado di probabilità – l’avvenuta allegazione di documentazione incongruente rispetto alle richieste di rimborso.
Tra tali elementi figurano: 1) l’identità del costo del biglietto nelle tratte Genova-Chiavari e Genova-Celle Ligure; 2) le risultanze della prova testimoniale da cui è emersa la regolare efFettuazione di tutte le trasferte in oggetto (diversamente da quanto originariamente contestato dall’azienda); 3) l’assenza di rilievi disciplinare nei confronti della D. durante 23 anni di servizio; 4) la minima entità della somma che la lavoratrice avrebbe indebitamente riscosso, dopo che la stessa, nella primavera del 2005, aveva sua sponte provveduto a restituire all’azienda la ben più elevata somma di 504,90 euro, per errore accreditatale nella busta paga.
In questa situazione è evidente – ad avviso della ricorrente – che non avrebbe potuto affermarsi che, con la sola produzione di copie della richieste di rimborso e dei relativi biglietti ferroviari oggetto di contestazione, Poste Italiane hanno dato prova della certa addebitabilità alla ricorrente della condotta ingannevole contestatale.
Il vizio denunciato con il presente motivo è, quindi, quello di aver considerato incontestabile sulla base della suddetta produzione dell’azienda – che la lavoratrice abbia allegato a tutte le molteplici richieste di rimborso de quibus documentazione (biglietti ferroviari) in conferente e fittizia.
3 – Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., nullità della sentenza per insufficiente e/o contraddittoria motivazione sul fatto controverso e decisivo per il giudizio rappresentato dall’allegazione alla richiesta di rimborso in data 14 agosto 2008 di biglietto ferroviario timbrato il 27 agosto 2008 (quando la D. era in ferie in Spagna), fatto da considerare rivelatore dell’avvenuta manipolazione degli allegati in discussione.
Si sottolinea che, benché anche nell’atto di appello la suddetta circostanza fosse stata evidenziata, la Corte genovese ha ritenuto tale elemento irrilevante, affermando che “ciò non prova che l’allegazione sia avvenuta ad opera di un terzo anziché della stessa appellante, magari al rientro dalle ferie”.
Tale motivazione, secondo la ricorrente, è palesemente illogica, per varie ragioni e, in particolare, perché: 1) la data della timbratura del biglietto coincidente sicuramente con un momento in cui la ricorrente non si trovava in Italia; 2) la lavoratrice non ha mai saputo dove fossero collocati i moduli delle richieste di rimborso dopo essere stati controllati ed evasi (tanto che dopo il licenziamento ha presentato una denuncia penale nella quale chiedeva al PM anche di verificare dove tali moduli erano custoditi); 3) non si comprende per quale ragione la D. avrebbe dovuto creare questa strana situazione avvalendosi, magari, di un “complice” per la timbratura del 27 agosto 2008.
Viceversa, la circostanza evidenziata era da considerare decisiva per avere la prova della possibile manomissione degli allegati in oggetto, sempre sostenuta dalla D. e negata da Poste Italiane.
II – Esame delle censure
4. – I tre motivi di ricorso – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – sono da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
4.1. – In tema di licenziamento per giusta causa – nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare la norma elastica (che, per sua natura, si limita ad indicare un parametro generale) da cui si desume la suddetta nozione – il giudice del merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, per cui dà concretezza a quella parte mobile di essa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale (non diversamente da quando un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorché la legge richieda tale elemento). Pertanto, il suindicato giudizio di valore deve essere effettuato dando conto del procedimento logico su cui si basa, nel rispetto delle nozioni di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni socio- economici e con l’osservanza dei principi generali dell’ordinamento (orientamento consolidato, vedi, per tutte: Cass. 8 agosto 2011, n. 17093).
Ne consegue che la suddetta valutazione può essere sindacata in sede di legittimità solo in riferimento alla presenza di una motivazione congrua ed immune da vizi ma resta salva la spettanza alla Corte di cassazione, nell’ambito della funzione nomofilattica affidatale dall’ordinamento, di valutare la conformità del giudizio di valore espresso dal giudice dei merito per la funzione integrativa che esso ha delle regole giuridiche.
Orbene, la motivazione in base alla quale la Corte genovese ha ritenuto i! comportamento addebitato alla lavoratrice idoneo ad incrinare in modo definitivo il rapporto fiduciario tra le parti – e tale da costituire, quindi, giusta causa del licenziamento – non appare plausibile perché risulta fondata su una serie di presupposti erronei.
Il primo e fondamentale presupposto erroneo emerge ictu oculi dalla lettura delle ultime due righe della terza pagina della sentenza, che testualmente recitano: “non resta quindi che riconoscere che è stata la stessa Della casa a presentare – intenzionalmente – quei biglietti che risultano allegati alle sue richieste di rimborso delle spese di viaggio”.
Queste poche espressioni rivelano che l’intera impostazione della motivazione si fonda su una cattiva conoscenza delle regole del riparto dell’onere probatorio nelle controversie in materia di licenziamento disciplinare nonché del tipo di prova che si deve raccogliere prima di poter affermare che sussistano tutti gli elementi propri della suddetta fattispecie.
4.2. – Secondo orientamenti assolutamente consolidati di questa Corte, che costituiscono ormai “diritto vivente” e ai quali il Collegio intende dare continuità:
a) l’onere della prova della giusta causa del licenziamento – che spetta al datore di lavoro, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 – deve riguardare la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, con riferimento agli aspetti concreti di esso, afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nella organizzazione dell’impresa, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità del fatto volitivo (vedi, per tutte: Cass. 14 luglio 2001, n. 9590).
b) in tema di licenziamento disciplinare o per giusta causa, la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti non va operata in astratto ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo. – Principio affermato ai sensi dell’art. 360-bis, primo comma, cod. proc. civ. (Cass. 26 luglio 2011, n. 16283).;
c) in base all’art. 5 della legge n. 604 del 1966 l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento (gravante sul datore di lavoro) riguarda tutti gli elementi costitutivi della fattispecie posta a base del recesso. Non è pertanto consentito, in ipotesi di mancato assolvimento del suddetto onere probatorio, con riguardo alle circostanze che impongono la soppressione del posto di lavoro, il ricorso alla presunzione, per ritenerne dimostrata l’impossibilità di utile reimpiego del lavoratore cui il detto posto era assegnato. La presunzione, infatti, costituendo la conseguenza che si trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, presuppone che il fatto noto sia accertato ed univoco. Inoltre il giudice di merito, al cui apprezzamento discrezionale è riservata l’utilizzazione del suddetto mezzo di prova, è tenuto a fornire adeguata motivazione della scelta operata. Pertanto, è da ritenere non sufficientemente motivata la sentenza di merito nella quale non solo non siano stati specificamente indicati la fonte e il contenuto delle emergenze istruttorie poste alla base del convincimento della sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, ma non siano state neppure spiegate le ragioni che avevano consigliato il ricorso alla prova presuntiva la quale aveva portato a ritenere provata la circostanza che il datore di lavoro non avesse la possibilità di adibire il lavoratore licenziato ad altre mansioni confacenti alle sue capacità professionali (Cass. 16 gennaio 1999, n. 410);
d) la giusta causa di licenziamento richiede l’accertamento, da parte del giudice di merito dell’entità dell’inadempimento e della colpa, nonché della grave incidenza di essi sull’elemento della fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre sul lavoratore, ai fini della prosecuzione del rapporto (Cass. 7 luglio 2004, n. 12508).
4.3. – Tali principi, oltre che un portato della stessa impostazione generale della disciplina in tema di licenziamenti individuali dettata dalla legge n. 604 del 1966 ove il licenziamento è considerato come una sanzione estremamente afflittiva cui ricorrere solo in casi estremi, trovano riscontro anche nella nostra Costituzione che, proclamando solennemente, al primo comma dell’art. 1, che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», lo fa – come risulta dai relativi lavori preparatori – nella ottica di considerare il lavoro dei singoli consociati non solo come il mezzo con cui mettere a frutto i propri talenti e procurarsi un reddito, ma soprattutto nel senso di considerare il lavoro come lo strumento principale per dare un contenuto concreto alla partecipazione del singolo alla comunità, e quindi, per tutelarne la dignità (come, del resto, risulta confermato dai successivi artt. 3, 4, 36 e 41 Cost.).
In questo quadro, ben si comprende come la giurisprudenza di questa Corte non solo abbia sempre affermato che l’onere probatorio della giusta causa sia a carico del datore di lavoro, ma abbia anche richiesto che la prova da questi offerta debba essere completa con riguardo a tutti gli elementi della fattispecie e debba anche essere certa, non avendo cittadinanza nel nostro ordinamento un licenziamento fondato esclusivamente su prove indiziarie non adeguate mante verificate, cioè con l’applicazione di un metodo che non sarebbe applicabile neppure in sede di procedimento penale.
Tanto più che è jus receptum che il giudice del merito, nel caso di licenziamento per giusta causa (o per giustificato motivo soggettivo), deve effettuare la valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore non solo in relazione al concreto rapporto in tutti i suoi elementi ma anche apprezzando l’inadempimento stesso in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 cod. civ., nel rispetto della generale premessa secondo cui l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (Cass. 4 marzo 2013, n. 5280; Cass. 22 marzo 2010, n. 6848; Cass. 10 dicembre 2007, n., 25743Cass. 24 luglio 2006, n. 16864Cass. 25 febbraio 2005, n. 3994; Cass. 14 gennaio 2003, n. 444).
4.4. – La Corte genovese – come sinteticamente si desume dalla parte di motivazione dianzi riprodotta – si è discostata dai suddetti principi in quanto:
1) ha ritenuto che la società datrice di lavoro abbia assolto l’onere probatorio a sua carico semplicemente attraverso la produzione delle richieste di rimborso delle spese per le trasferte con la allegata documentazione (biglietti ferroviari);
2) ha quindi ritenuto che dovesse essere la D. a dimostrare che la suddetta documentazione (biglietti ferroviari) prodotta da Poste Italiane in allegato alle richieste di rimborso sottoscritte dalla lavoratrice stessa non corrispondeva a quella che dall’interessata era stata originariamente allegata alle richieste medesime, così attribuendo alla lavoratrice un onere probatorio che non solo non le spettava, ma era praticamente impossibile da assolvere visto che tutti gli elementi per fornire tale prova erano in possesso della datrice di lavoro, che peraltro, in base alla disciplina sui licenziamenti era tenuta a provvedervi;
3) neppure ha dato rilievo al fatto che, essendo avvenuta la contestazione degli addebiti in sede di verifica retroattiva e non essendo alcuna prescrizione che obbligasse la lavoratrice a tenere copia della documentazione consegnata in sede di richiesta di rimborso, non poteva certamente considerarsi conforme al fondamentale diritto di difesa riconosciuto dagli artt. 24 e 111, primo comma, Cost. nonché dagli artt. 6 e 13 della CEDU, non dare rilievo alla circostanza che, al momento in cui è stata eseguita la suddetta verifica, era trascorso del tempo da quando alla D. erano stati corrisposti tutti i rimborsi richiesti sicché, anche accedendo per assurdo al presupposto – erroneo, per quanto si è detto – che dovesse essere la lavoratrice a dimostrare che non vi era corrispondenza tra i biglietti ferroviari da lei consegnati all’ufficio e quelli esibiti in sede giudiziale dalla datrice di lavoro, in ogni caso si configurava una ipotesi di impossibilità incolpevole alla fornitura della prova richiesta, che avrebbe dovuto imporre al Tribunale prima e alla Corte d’appello poi di indagare, caso mai, sulle ragioni per cui la società Poste Italiane – che pure, si ribadisce, aveva provveduto ad effettuare regolarmente tutti i rimborsi richiesti – non era stata in grado di dare la sicura dimostrazione dei fatti addebitati alla lavoratrice stessa;
4) ha, impropriamente, desunto dal corretto riconoscimento come proprie delle firme apposte sulle richieste di rimborso da parte della lavoratrice che lo stesso riconoscimento si estendesse ai biglietti allegati, quando la questione controversa era proprio quella della corrispondenza dei biglietti prodotti in giudizio rispetto a quelli consegnati all’ufficio dalla D. insieme con le richieste di rimborso;
5) non ha valorizzato l’elemento secondo cui l’ufficio di Genova al quale la lavoratrice ha presentato le richieste di rimborso era territorialmente competente per le richieste di rimborso per la tratta Genova-Chiavari e ritorno, mentre non lo era per le richieste di rimborso addebitatele relative alla tratta Genova-Celle Ligure e ritorno, perché per tali ultime richieste la competenza spettava all’ufficio di Savona – sicché essendo stati, come si è detto, corrisposti tutti i rimborsi richiesti – tale elemento non era certamente secondario;
6) non ha valutato adeguatamente la circostanza, debitamente allegata dall’interessata, secondo cui alla richiesta di trasferta del 14 agosto 2008 risultava allegato un biglietto ferroviario datato 28 agosto 2008, giorno in cui la lavoratrice era in ferie;
7) ha motivato in merito a tale circostanza in modo del tutto illogico ed erroneo affermando testualmente che tale circostanza “non prova che l’allegazione sia avvenuta ad opera di un terzo anziché della stessa appellante, magari al rientro dalle ferie” e così, dando ulteriore conferma dell’erronea impostazione della motivazione, basata sulla violazione del canone della ricerca della verità materiale, che caratterizza il rito del lavoro e riceve nei giudizi in materia di licenziamento rigorosa applicazione, come si è detto.
4.5. – È anche da sottolineare come la Corte genovese non abbia neppure preso in considerazione la possibilità di ricorrere all’esercizio dei poteri d’ufficio di cui agli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., che peraltro di regola presuppone è doveroso solo allorquando si sia in presenza di allegazioni e di un quadro probatorio che, pur delineati dalla parti, presentino incertezze (Cass. 26 luglio 2011, n. 16182).
Né abbia valutato l’eventualità di ricorrere alla prova presuntiva, tenendo, peraltro conto che, per consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, l’esistenza di una presunzione sulla quale sia possibile fondare la decisione di una causa può validamente desumersi in presenza di una pluralità di elementi di valutazione gravi precisi e concordanti, nei quali il requisito della gravità è ravvisabile per il grado di convincimento che ciascuno di essi è idoneo a produrre a fronte di un fatto ignoto, la cui esistenza deve poter essere dimostrata in termini di ragionevole certezza , il requisito della precisione impone che i fatti noti e l’iter logico del ragionamento probabilistico ben determinati nella loro realtà storica, ed il requisito unificante della concordanza richiede che il fatto ignoto sia di regola desunto da una pluralità di fatti noti gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, mentre la sommatoria di una serie di dati in sé insignificanti e privi di precisione e gravità non può assumere rilevanza alcuna (vedi, per tutte: Cass. 24 febbraio 2004, n. 3646).
E neppure la Corte territoriale ha tenuto conto del secondo cui nel rito del lavoro, il giudice, ove si verta in situazione di semiplena probatio, ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti, dovendo, quindi, motivare sulla mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi là dove sollecitato dalla parte ad integrare la lacuna istruttoria (Cass. 10 dicembre 2008, n. 29006; Cass. 1 agosto 2013, n. 18410).
Ora, benché sia pacifico che l’individuazione dell’esistenza di quella zona grigia tra prova mancata e prova fornita in modo completo, integrante una situazione di cosiddetta semiplena probatio, sia rimessa al prudente e discrezionale apprezzamento del giudice di merito e sia sindacabile in sede di legittimità, solo sotto il profilo dell’adeguatezza e logicità della motivazione che lo sorregge (vedi, per tutte: Cass. 11 giugno 1999, n. 5752), è da rilevare che, nella specie, si verifica proprio tale ultima evenienza.
Infatti, la motivazione della sentenza impugnata non contiene una adeguata e logica giustificazione della conclusione cui si è pervenuti, perché la Corte territoriale pur non avendo raggiunto la prova certa e piena della riferibilità alla D. dei fatti addebitatile, attraverso una puntuale ricostruzione dei loro elementi oggettivi e soggettivi, ha ugualmente affermato la legittimità del licenziamento, addirittura ipotizzando il dolo – l’inganno – della lavoratrice, pur dopo aver ritenuto, contraddittoriamente, irrilevante stabilire quale sia stata la motivazione che avrebbe spinto la D. a porre in essere – peraltro, secondo la Corte genovese, con “modalità fraudolente” – la condotta addebitatale.
4.6. – Infine, non va omesso di rilevare che la Corte d’appello non ha attribuito alcun rilievo alla durata ultraventennale del rapporto di lavoro della D. alle dipendenze di Poste Italiane e all’assenza di addebiti disciplinari a suo carico, prima del licenziamento in oggetto.
Va, infatti, ricordato che per consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Pertanto, il giudice del merito deve valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che della mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto – alla sua durata ed all’assenza di precedenti sanzioni – alla sua particolare natura e tipologia (vedi, per tutte: Cass. 22 giugno 2009, n. 14586; Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).
Pertanto, anche per la mancata considerazione dei suindicati elementi, la Corte genovese si è discostata dai principi affermati dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte.
IlI – Conclusioni
5. – In sintesi il ricorso va accolto. La sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Torino, che si uniformerà tutti i suindicati principi e, in particolare, ai seguenti:
1) «In tema di licenziamento per giusta causa l’onere probatorio della giusta causa, posto a carico del datore di lavoro, comporta che questi fornisca la prova completa di tutti gli elementi della fattispecie e richiede, altresì, che tale prova sia certa, non essendo previsto nel nostro ordinamento un licenziamento fondato esclusivamente su prove indiziarie non adeguatamente verificate»;
2) «in caso di licenziamento per giusta causa, nella valutazione della congruità della sanzione espulsiva al fatto addebitato, il giudice del merito, dovendo considerare ogni aspetto concreto della vicenda processuale sottoposta alla sua attenzione, non può non tenere conto anche delle modalità di svolgimento del rapporto antecedenti la mancanza che ha dato luogo al licenziamento e, in tale ambito, non può non considerare la durata del rapporto stesso e l’assenza di è precedenti sanzioni a carico del lavoratore».
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Torino.
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