CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 dicembre 2013, n. 27929
Lavoro – Previdenza e assistenza – Società a partecipazione pubblica – Natura privata dell’impresa – Esenzione contributiva
Svolgimento del fatto
1. La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 617/10, depositata il 2 agosto 2010, decidendo sull’impugnazione proposta, in ordine alla sentenza del Tribunale di Torino del 28/30 maggio 2008, da I.M. spa, già società di intermediazione energia Torino spa, I. spa, già Azienda energetica metropolitana Torino spa, nei confronti dell’INPS e di EQUITALIA NOMOS, in parziale accoglimento dell’appello, revocava la cartella opposta e condannava I.M. spa al pagamento della somma di euro 2673,04, oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
2. I.S. e I. spa (già A.E.M.Torino spa) avevano proposto opposizione avverso la suddetta cartella esattoriale n. 2006 0056635784000, notificata il 12 marzo 2008, con la quale veniva ingiunto il pagamento della somma di euro 8.277,47 a titolo di contributi per disoccupazione ed indennità di malattia dei lavoratori dipendenti per il periodo marzo 2005-dicembre 2005, comprensiva di somme aggiuntive e interessi di mora.
Il Tribunale di Torino respingeva il ricorso, confermando l’intera cartella.
3. La Corte d’Appello ha accolto l’impugnazione con riguardo ai contributi per la disoccupazione, e l’ha respinta con riguardo alla contribuzione di malattia, ritenendo quest’ultima non dovuta.
3.1. La Corte d’Appello disattendeva la prospettazione della società secondo cui operava l’esonero di cui all’art. 40, n. 2, del RD n. 1827 del 1935, e dell’art. 36 del DPR n. 818 del 1957, e che in forza dell’intervenuta abrogazione della disposizione contenuta nel citato art. 40, n. 2, nell’art. 36 citato, ad opera dell’art. 20 del di n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, l’obbligo contributivo, in capo alle imprese dello Stato, degli enti pubblici e degli enti locali privatizzate o a capitale misto, veniva fissato con decorrenza dal 1° gennaio 2009, con la conseguenza che data l’irretroattività dell’affermato obbligo, la pretesa dell’INPS formalizzata nella cartella opposta non era dovuta, afferendo la stessa ad un periodo precedente.
Il giudice di appello ha richiamato la sentenza di questa corte n. 14847 del 2009 che, con riguardo all’interpretazione dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. C.P.S. n. 869 del 1947, come successivamente modificato, ha disatteso la tesi interpretativa secondo cui la locuzione “imprese industriali degli enti pubblici” non farebbe riferimento tanto alla proprietà o titolarità dell’impresa quanto invece ad un potere di controllo totale ed effettivo dell’impresa stessa.
Ha precisato che S. (poi I.M.), pur controllata da A.E.M., a sua volta controllata dal Comune di Milano, è una società per azioni il cui capitale è sia pure la spa A.E.M. soggetto diverso) e che a sua volta I. spa, nata dalla fusione di due società per azioni, A.E.M. spa e A.M.G.A. spa, entrambe aziende ex municipalizzate, era società per azioni con maggioranza di capitale pubblico.
Ha, quindi, ritenuto di non accogliere la tesi secondo cui I.M. spa sarebbe un’impresa pubblica, perché sottoposta all’influenza dominante sugli assetti organizzativi e sulle finalità societarie da parte di un pubblico potere, cioè del Comune di Torino.
Per quanto attiene ai contributi per la disoccupazione involontaria il giudice di secondo grado ha escluso che l’appellante rientrasse tra le categorie di imprese esonerate, atteso che alla ricorrente non poteva riconoscersi né la qualità di azienda pubblica, né quella di azienda esercente pubblici esercizi. Neppure sarebbe sussistito il requisito della cosiddetta “stabilità di impiego in forza del CCNL Elettrici/Federelettrica, successivamente alla sua trasformazione da municipalizzata a spa.
Né poteva assumere rilievo l’esonero disposto con D.M. n. 25338 del 12 novembre 1998, ai sensi dell’art. 36 del DPR n. 818 del 19578, che aveva accertato la stabilità dell’impiego in favore del personale dipendente dalla società A.E.M.. Si trattava, infatti, di un provvedimento in favore di un soggetto rispondente al momento della domanda ai requisiti richiesti, la cui efficacia non poteva essere estesa, superando l’assenza di successivi provvedimenti della medesima natura, alle diverse configurazioni societarie che, nel corso del tempo, si sono succedute, attraverso le trasformazioni intervenute.
4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello, quanto alla ritenuta debenza all’INPS dei contributi per la disoccupazione, ricorrono IR.M spa, già IR. spa, nei confronti di INPS, EQUITALIA NOMOS e SCCI spa, prospettando due motivi di ricorso.
5. Resiste l’INPS con controricorso
6. La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, in relazione alla indennità di disoccupazione, violazione e falsa applicazione dell’art. 40, n. 2 del RDL n. 1827/35, dell’art. 20, commi 2, 4, 5 e 6 della legge n. 133 del 2008, dell’art. 2359 cc, dell’art. 22 della legge n. 142 del 1990, dell’art. 113 del d.lgs n. 267 del 2000, dell’art. 35 della legge n. 448 del 2001, dell’art. 2 del d.lgs n. 158 del 1995, dell’art. 3, comma 28, del d.lgs n. 163 del 2006, dell’art. 2112 cc, in relazione all’art. 360, n. 3, epe. Motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria su punti essenziali della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5, cpc.
Parte ricorrente eccepisce che la giurisprudenza di legittimità, richiamata in sentenza, fa riferimento ad un contesto normativo che ha subito rilevanti modifiche in ragione della legge n. 448 del 2001, nonché del d.lgs. n. 333 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/52/111/CE. Ricorda, in particolare, che, ai sensi dell’art. 35 della suddetta legge n. 448 del 2001, l’unica forma gestionale, che ha sostituito le precedenti, è la società di capitali partecipata ed è pertanto questa che deve essere qualificata come l’ente strumentale dell’ente locale per l’esercizio dei pubblici servizi, e che l’art. 2 del d.lgs. n. 333 del 2003, definisce impresa pubblica ogni impresa nei cui confronti i poteri pubblici esercitino, direttamente o indirettamente una situazione di controllo.
Tale posizione di controllo sarebbe ravvisabile nel caso di specie. Le società ricorrente, sarebbe, dunque, impresa pubblica, per un servizio pubblico e sottoposta al regime pubblicistico di legge, presentando elementi che la differenziano dalla spa di diritto comune, con la conseguenza esclusione della contribuzione in questione. La motivazione della Corte d’Appello, sarebbe, altresì viziata, quanto al ritenuto inquadramento giuridico, da illogicità e contraddittorietà.
Essa ricorrente sarebbe, dunque, riconducibile alle categorie di aziende di cui al citato art. 40, come confermato anche dall’art. 20, comma 2, della legge n. 133 del 2008, che ricomprende, in una nozione unitaria “le imprese dello Stato, degli enti pubblici e degli enti locali privatizzate ed a capitale misto, sancendo il venire meno
Deduce la ricorrente, altresì, che doveva essere esteso a sé medesima l’esonero della contribuzione ottenuto da A.E.M. con DM 25338/98 in ragione del riconoscimento della stabilità dell’impiego.
Dunque, sia ex art. 2112 cc, sia per applicazione del CCNL di settore, avendo il personale mantenuto il medesimo trattamento da CCNL e il medesimo trattamento INPDAP, sussisteva la stabilità dell’impiego per l’esenzione contributiva.
Assume la ricorrente, altresì, che la normativa in questione è stata novellata dal citato dl n. 112 del 2008, per effetto del quale l’imposizione contributiva per disoccupazione nei confronti delle aziende di cui all’art. 40, n. 2, del RDL n. 1827 del 1935 decorre dal 1° gennaio 2009.
La sentenza sarebbe, altresì viziata da motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria su punti essenziali della controversia, sia perché la Corte d’Appello nega che essa ricorrente sia disciplinata da norma diverse rispetto a quelle della spa, sia perché effettua una commistione tra la disciplina dell’art. 20 della legge n. 133 del 2008 e quella anteriore dell’art. 40, n. 2, del RDL n. 1827 del 1935.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ad integrazione del primo motivo, violazione dell’art. 40, n. 2, del RDL n. 1827/35, dell’art. 20, commi 2, 4, 5 e 6 della legge n. 133 del 2008, dell’art. 2112 cc, in relazione all’art. 360, n. 3, cpc.
La ricorrente censura la sentenza laddove pur riconoscendo la derivazione, ex art. 2112 cc., della ricorrente dalla società A.E.M. ha negato l’applicazione del diritto all’esonero di A.E.M., con motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria.
3. I suddetti motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
4. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.
5. Questa Corte, con le sentenze n. 19087, n. 20818, n. 20819, n. 22318, del 2013, ha già avuto modo di pronunciarsi con riguardo ad analoga fattispecie, confermando, con articolate motivazioni, l’orientamento secondo cui la società partecipata non può identificarsi con “le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata nella quale l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, dovendosi altresì escludere, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella mera partecipazione – per maggioranza , ma non propria dello totalitaria, da parte dell’ente pubblico sia idonea a determinare la natura dell’organismo attraverso cui la gestione del servizio pubblico viene attuata”.
Questa Corte ha, quindi, affermato, che la forma societaria di diritto privato è per l’ente locale la modalità di gestione degli impianti consentita dalla legge e prescelta dall’ente stesso per la duttilità dello strumento giuridico, in cui il perseguimento dell’obiettivo pubblico è caratterizzato dall’accettazione delle regole del diritto privato. Quindi le società per azione a partecipazione pubblica vanno esclude dal concetto di “imprese pubbliche” (citate sentenze Cassazione)
A tale orientamento, che si condivide, questa Corte intende dare continuità, anche in ragione delle argomentazioni di seguito illustrate, che pongono in evidenza come l’evoluzione della normativa comunitaria e nazionale promuova forme e strumenti di natura essenzialmente non autoritativa per la gestione dei servizi pubblici locali (rispetto alla quale, peraltro, si sta progressivamente sviluppando una attività, a carattere strumentale, di customer care) e di attività di impresa dell’amministrazione pubblica.
6. Storicamente, può ricordarsi che il fenomeno delle società a partecipazione pubblica ha visto lo Stato assumere la veste di imprenditore, in particolare, o a partire dagli anni trenta del novecento, per poi passare negli anni ’90 alla privatizzazione formale di enti pubblici sino a pervenire a fenomeni di estemalizzazione di attività dell’amministrazione, al fine di renderne meno farraginosa l’azione amministrativa (cfr., Cass., S.U., ordinanza n. 19667 del 2003).
7. Come si vedrà, certo non è senza rilievo l’oggetto di servizio pubblico locale dell’attività esercitata mediante società di diritto privato, e la partecipazione pubblica alle stesse, preoccupandosi, tuttavia, il legislatore comunitario e quello nazionale che non vengano lese le dinamiche della concorrenza nel mercato e per il mercato, introducendo misure cd. antitrust, misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche; misure per favorire l’apertura del mercato alla concorrenza, garantendo i mercati ed i soggetti che in essi operano (cfr. Corte cost., sentenza n. 430 del 2007).
8. Ciò tuttavia, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, non è dirimente ai fini previdenziali in esame, atteso che proprio il passaggio della gestione dei servizi pubblici locali da soggetti pubblici (quali le aziende municipalizzate) a soggetti privati, anche se partecipati, incide sulla disciplina dei rapporti di lavoro in modo significativo, e fa venir meno le condizioni a cui il legislatore ha connesso l’esclusione dal pagamento della contribuzione in questione.
9. Tenuto conto della ratio deciderteli della pronuncia della Corte d’Appello e dei motivi di ricorso, un compiuto vaglio di questi ultimi in relazione alla normativa di riferimento, richiede di soffermarsi sul rilievo che assume l’esercizio di un pubblico servizio locale da parte di società per azioni partecipata, come avviene nel caso di ragioni sopra esposte.
10. A sostegno delle proprie tesi difensive, la ricorrente ha fatto riferimento alla disciplina della gestione dei servizi pubblici locali, all’impresa pubblica, alle peculiarità del proprio modello societario.
Tali modelli, cosi come le cd. imprese strumentali, presentano molteplici peculiarità e pongono diverse problematiche proprio con riguardo agli effetti della partecipazione pubblica, ma a fini diversi da quelli della contribuzione previdenziale, per la quale permane l’esclusivo rilievo del carattere privato della società, come si vedrà dalla ricognizione normativa che segue.
11. L’assetto originario dei servizi pubblici locali è stato delineato dall’art. 22 della legge 142 del 1990, poi confluito negli artt. 112 e 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, recante il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.
L’art. 112 del T.U. afferma che gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni ed attività rivolte alla realizzazione di fini sociali, nonché a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.
L’art. 113, così come formulato originariamente, prevedeva, indipendentemente dalla rilevanza economica o meno dei servizi, la possibilità per gli enti locali sia di ricorrere alla gestione in economia sia di affidare la gestione dei servizi pubblici locali in concessione anche a società per azioni a prevalente capitale pubblico.
11.1. Successivamente l’art. 35 della legge n. 448 del 2001 sostituiva l’art. 113 ed introducendo l’art. 113-bis, provvedendo in tal modo a distinguere le formule da adottare per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza industriale da quelle per la gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale.
Tale riforma era stata necessaria al fine di assicurare l’apertura del mercato dei servizi pubblici di rilevanza industriale, ed il rispetto dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi e soprattutto della libera concorrenza; infatti, il novellato art. 113 affidava la gestione dei servizi di rilevanza industriale esclusivamente a società di capitali, abrogando la gestione in economia che restava invece possibile per i servizi pubblici privi di rilevanza industriale.
11.2. Tale novella veniva seguita da altri interventi legislativi, con una nuova formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 267 del 2000 ad opera dell’art. 14 del d.l. 269 del 2003 e dell’art. 4 della legge n. 350 del 2003.
Dette norme sostituivano il criterio della rilevanza industriale con quello della rilevanza economica.
11.3. In proposito si può ricordare quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 325 del 2010 e cioè che in ambito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea, emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’ambito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo» (Corte costituzionale, sentenza n. 272 del 2004).
11.4. Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio che:
a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato;
b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni.
Le due nozioni, inoltre, assolvono l’analoga funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante pubblica (citata sentenza corte cost. n. 325 del 2010).
Può osservarsi come la normativa comunitaria ammette la gestione diretta del SPL da parte dell’autorità pubblica nel caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole di concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE).
11.5. Successivamente al richiamato intervento del Giudice delle Leggi, è poi intervenuto l’art. 23-bis del d.l. 112 del 2008, convertito dalla legge n.133 del 2008.
La disciplina dettata da tale norma si caratterizzava per il fatto che fissava una normativa generale di settore, volta a restringere, rispetto al livello minimo stabilito dalle regole concorrenziali comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, consentite solo in casi eccezionali ed al ricorrere di specifiche condizioni, la cui regolamentazione veniva, peraltro, demandata ad un regolamento governativo, poi adottato con il d.P.R. 7 settembre 2010 n. 168.
Tale disciplina superava il vaglio di legittimità costituzionale (sentenza Corte cost. n. 325 del 2010), ma veniva abrogata dal referendum popolare dell’ 11 e 12 giugno 2011, realizzandosi, pertanto, l’intento referendario di «escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)» (sentenza Corte cost. n. 24 del 2011).
L’art. 4 del d.l. 138 del 2011 riprendeva in larga parte la disciplina abrogata per via referendaria, sollevando dubbi di legittimità costituzionale confermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 199 del 2012, atteso il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost.
11.6. All’azzeramento della normativa contenuta nell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 148 del 2011, ad opera della sentenza della Corte Costituzionale n. 199 del 2012, è conseguito un effetto di semplificazione; con la conseguente applicazione, nella materia dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, oltre che della disciplina di settore non toccata dalla detta sentenza, della normativa e dei principi generali dell’ordinamento europeo, nonché di quelli affermati alla giurisprudenza della Corte di giustizie e di quella nazionale-.
11.7. Così riepilogato il quadro di riferimento normativo comunitario e nazionale, si deve rilevare come una prima definizione giurisprudenziale della figura dell’in house, è fornita dalla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 18 novembre 1999, causa C-107/98 – Teckal.
In quella sede si è affermato che non è necessario rispettare le regole della gara in materia di appalti nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi:
a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi;
b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.
11.8. Con la sentenza n. 50 del 2013, la Corte costituzionale ha, poi, affermato che: la Corte di giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto che rientra nel potere organizzativo delle autorità pubbliche degli Stati membri “autoprodurre” beni, servizi o lavori, mediante il ricorso a soggetti che, ancorché giuridicamente distinti dall’ente conferente, siano legati a quest’ultimo da una “relazione organica” (il cd. affidamento in house). Allo scopo di evitare che l’affidamento diretto a soggetti in house si risolva in una violazione dei principi del libero mercato e quindi delle regole concorrenziali, che impongono sia garantito il pari trattamento tra imprese pubbliche e private, la stessa Corte ha affermato che è possibile non osservare le regole della concorrenza a due condizioni. La prima è che l’ente pubblico svolga sulla società in house un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; la seconda è che il soggetto affidatario realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente pubblico (citata sentenza 18 novembre 1999, in causa C-107/98, Teckal).
12. Come si può rilevare, dunque, la finalizzazione della spa alla gestione in house di un servizio pubblico, come nel caso di specie, non muta la natura giuridica privata della società con riguardo alle ricadute previdenziali dei rapporti di lavoro, ma assume rilievo nell’ordinamento nazionale e comunitario con riguardo al mercato e alla tutela della concorrenza.
13. Né argomenti possono desumersi dal richiamo della nozione di impresa pubblica che costituisce anch’essa categoria all’attenzione del legislatore comunitario, che se ne occupa all’art. 86 del Trattato e poi negli artt. 101, 102 e 103 sul divieto di facilitazioni finanziarie.
Il legislatore comunitario ha, infatti, previsto, e sotto questo aspetto l’ha disciplinata, che essa non fosse sottratta, in virtù dei rapporti con i pubblici poteri, alle regole del mercato imposte, indipendentemente dalla loro appartenenza, a tutte le imprese: regole che valgono per tutti gli operatori economici e non ammettono deroghe per le imprese pubbliche.
Non è senza significato, in proposito, che i caratteri distintivi dell’impresa pubblica devono essere ricercati nelle direttive sulla trasparenza devono essere ricercati nelle direttive sulla trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche (direttiva 80/723 della Commissione, successivamente modificata dalle direttive 2000/52 e 2005/81, ora codificate nella direttiva 2006/111), che hanno posto l’accento sull’esigenza di assicurare la parità di trattamento tra imprese pubbliche e private e, a questi fini, sulla necessità di una compiuta trasparenza circa le relazioni finanziarie intercorrenti tra poteri pubblici nazionali e imprese pubbliche, in modo da distinguere chiaramente il ruolo svolto dalla pubblica amministrazione quale potere pubblico e quello svolto dalla stessa quale privato.
La qualifica di un soggetto come impresa pubblica prescinde perciò dal fine perseguito, mentre assume valenza decisiva il legame tra l’impresa e la pubblica amministrazione (intesa nella sua accezione più ampia, propria alla materia degli appalti, comprensiva perciò anche dell’organismo di diritto pubblico) “dominante”.
Anche in questo caso, occorre rilevare, il peculiare regime della cd. impresa pubblica, non può determinare, ex sé, ricadute sul regime previdenziale della spa che rivesta tali caratteristiche.
14. Infine si rileva come esuli, altresì, dal caso di specie la nozione di società pubblica strumentale, attesa l’esclusione “dei servizi pubblici locali” sancita dall’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006. Le stesse destinate a produrre beni e servizi finalizzati alle esigenze dell’ente pubblico partecipante, si distinguono dalle società a partecipazione pubblico- privata, esercitate secondo modelli paritetici, in cui il ruolo degli enti territoriali corrisponde a quello di un azionista di una società per azioni (cfr., Consiglio di Stato, Sezione VI, 11 gennaio 2013, n. 122).
15. Così ripercorso il quadro normativo di riferimento circa le modalità di esercizio di un servizio pubblico locale tramite spa, rileva la Corte che non sussistono le condizioni per escludere la contribuzione per cui è causa.
16. In ragione di quanto sopra esposto, come già ritenuto da questa Corte, la società partecipata non può identificarsi con le imprese industriali degli enti pubblici esonerate, trattandosi di società di natura essenzialmente privata nella quale l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e dovendosi escludere, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, che la mera partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria – da parte dell’ente pubblico sia idonea a determinare la natura dell’organismo attraverso cui la gestione del servizio pubblico viene attuata.
17. Quanto all’indennità di disoccupazione va ricordato che l’art. 40, comma 1, n. 2 del RDL n. 1827 del 1935, sanciva che non sono soggetti all’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria “gli impiegati, agenti e operai stabili di aziende pubbliche, nonché gli impiegati, agenti e operai delle aziende esercenti pubblici servizi e di quelle private, quando ad essi sia garantita la stabilità d’impiego”.
L’art. 32 della legge n. 264 del 1949, ha poi stabilito, al comma 1, lettera b), che l’obbligo dell’assicurazione contro la disoccupazione era esteso agli impiegati, anche delle pubbliche amministrazioni, cui non fosse garantita la stabilità dell’impiego, senza limite di retribuzione.
L’art. 36 del d.P.R. n. 818 del 1957, nel testo originario, stabiliva che ai fini dell’applicazione dell’articolo 40, n. 2 , del d.P.R. n. 1827 del 1935 e dell’art. 32, lettera b), della legge n. 264 del 1949, la sussistenza della stabilità dell’impiego, quando non risultava da norme regolanti lo stato giuridico e il trattamento economico del personale dipendente dalle pubbliche amministrazioni, dalle aziende pubbliche e dalle aziende esercenti pubblici servizi, era accertata in sede amministrativa su domanda del datore di lavoro, con provvedimento del Ministro del lavoro e la previdenza sociale decorrente a tutti gli effetti dalla data della domanda medesima.
Detto art. 36 è stato modificato dall’art. 20, comma 5, del d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, che ha soppresso le parole “dell’articolo 40, n.2, del dPR n. 1827 del 1935”.
Il medesimo art. 20 del d.l. n. 112 del 2008, al comma 4, ha abrogato l’art. 40, n. 2 del R.D.L. n. 1827 del 1935, prevedendo (al successivo comma 5) che l’estensione dell’obbligo assicurativo, di cui al comma 4, si applicava con effetto dal primo periodo di paga decorrente dal 1 ° gennaio 2009.
L’art. 40 è stato poi abrogato, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dall’art. 2, comma 69, lettera c della legge 92 del 2012.
Le richiamate sopravvenienze normative non incidono sulla fattispecie in esame atteso il periodo di contribuzione in contestazione (marzo-dicembre 2005).
Nessun significato interpretativo può, infatti attribuirsi al d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, che ha previsto, solo con decorrenza 1° gennaio 2009, l’obbligo del versamento dei contributi per malattia e maternità nei conforti delle imprese dello Stato, degli enti pubblici e degli enti locali, privatizzate ed a capitale misto (art. 20, comma 2). Infatti la contribuzione disciplinata da tale norma è diversa da quella inerente i titoli vantati dall’INPS nella presente controversia e non implica “razionalizzazione” dell’intera materia dell’obbligazione contributiva delle imprese pubbliche, privatizzate o a capitale misto, ovvero una assimilazione di tali imprese a qualunque fine previdenziale o assistenziale, dato che, piuttosto, la omogeneità è solo nel senso della estensione dell’obbligo contributivo per la malattia a tutte le imprese, comprese quelle privatizzate e a capitale misto (v., Cass., sentenza n. 19087 del 2013)
17.1. Ne è fondata la doglianza con la quale, nel censurare la statuizione della Corte d’Appello, la ricorrente tende a far derivare l’esonero della richiesta di contribuzione da un provvedimento emesso dall’Autorità amministrativa in favore di AEM, in quanto lo stesso dovrebbe ritenersi produrre effetto esonerativo anche per A.E.M. spa e per le società da essa derivate, per scorporo ovvero per cessione di ramo d’azienda.
Come correttamente ritenuto dalla Corte d’Appello, nel caso di specie, detto provvedimento di accertamento era legato alla condizione dell’Azienda esaminata in relazione alla soggettività specifica del datore di lavoro, come esistente al momento dell’accertamento ed alle condizioni ivi verificate, con impossibilità di trasferire detto provvedimento in capo ad altri soggetti economici (Cass., n. 20818 del 2013).
Peraltro, in presenza di trasferimento d’azienda, trova applicazione l’art. 2112 cc, che persegue lo scopo di garantire ai lavoratori la conservazione dei diritti in caso di mutamento dell’imprenditore assicurando la continuità del rapporto di lavoro nei confronti dell’azienda, o alla parte di essa, trasferita ed esistente al momento del trasferimento. È estranea, invece, alla tutela da essa offerta la garanzia di continuità delle prerogative della struttura aziendale riconosciute alla parte imprenditoriale dall’autorità amministrativa, atteso che dette prerogative sono condizionate alla permanenza dei requisiti richiesti dalla legge per il loro riconoscimento.
17.2. Sempre con riguardo al requisito della stabilità dell’impiego, passando alla rilievo attribuito alle disposizioni collettive, come questa Corte ha più volte affermato, nel giudizio di legittimità le censure relative all’interpretazione di un contratto o di un accordo collettivo offerta da parte del giudice di merito possono essere prospettate sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o della insufficienza o contraddittorietà della motivazione, mentre la mera contrapposizione fra l’interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata non riveste alcuna utilità ai fini dell’annullamento di quest’ultima (da ultimo, Cass., n. 14318 del 2013).
La denuncia della violazione delle regole di ermeneutica richiede una specifica indicazione, e cioè la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione anzidetta, non potendo le censure risolversi, in contrasto con la qualificazione loro attribuita dalla parte ricorrente, nella mera contrapposizione di un’interpretazione diversa da quella criticata.
Nella specie la ricorrente si limita a richiamare il CCNL di settore Elettrici/Federelettrica, citato dalla Corte d’Appello quale elemento preso in esame con il DM 25338/98, senza articolare la censura come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata. La Corte d’Appello, peraltro, dava atto di non poter accedere alla tesi della ricorrente di estensione dell’esonero per il riconoscimento della stabilità di impiego in forza del Contratto Elettrici/Federelettrica, ma rilevava che il provvedimento in questione era stato emesso in favore di un soggetto rispondente al momento della domanda ai requisiti richiesti, la cui efficacia non poteva essere estesa alle diverse figure societarie che nel tempo si erano succedute.
18. Il ricorso deve essere rigettato.
19. Sussistono le condizioni di cui all’art 92 cpc per compensare tra le parti costituite le spese di giudizio in ragione della complessità delle questioni sottoposte all’esame della Corte.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio tra le parti costituite.
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