CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 maggio 2018, n. 13503
Tributi – Accertamento – Socio di società a ristretta compagine sociale – Utili extracontabili accertati definitivamente nei confronti della società – Presunzione di distribuzione ai soci
Rilevato
– che l’Agenzia delle entrate, sulla base delle risultanze di due verifiche fiscali effettuate nei confronti di due società (C.F. s.r.l e L. s.r.l.) di cui la contribuente D.B. era socia al 50%, che aveva accertato, con riferimento all’anno di imposta 2005, un maggior reddito di A, impresa ai fini IVA, IRES ed IRAP, e sul presupposto che la predetta società fosse a ristretta base societaria, recuperava a tassazione tali maggiori imposte nei confronti della socia B. nei limiti della quota di partecipazione della medesima nelle predette società, nei cui confronti gli avvisi di accertamento erano divenuti definitivi;
– che la CTR delle Marche, con la sentenza in epigrafe, accoglieva l’appello proposto dalla contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, annullando l’atto impositivo ritenendo di non condividere l’orientamento giurisprudenziale in materia di imputazione ai soci di società di capitali a ristretta compagine sociale dei maggiori redditi accertati nei confronti della società, che peraltro produce l’effetto di raddoppiare l’imposizione; rilevava, altresì, l’esistenza di «un vizio procedurale» consistente nell’omessa notifica alla contribuente dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società e la mancanza di prova della conoscenza da parte di quella del suo contenuto;
– che per la cassazione della sentenza di appello ricorre con quattro motivi l’Agenzia delle entrate, cui non replica l’intimata;
– che sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio;
– che il Collegio ha disposto la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata;
Considerato
– che con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 112, 324 e 329 cod. proc. civ. e 53 d.lgs. n. 546 del 1992 lamentando che la CTR aveva pronunciato ultrapetita atteso che la questione della illegittimità della presunzione di distribuzione ai soci degli utili extrabilancio che l’amministrazione finanziaria accerta a carico di una società a ristretta base societaria era stata posta dalla contribuente con l’originario ricorso ma non era stata riproposta con il ricorso in appello;
– che il motivo è infondato;
– che, al riguardo, deve preliminarmente osservarsi che, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, identica è la questione posta dalla contribuente in primo e secondo grado, giacché quello dello stretto rapporto di familiarità e complicità dei soci costituiva, secondo la tesi sostenuta dai giudici di primo grado, poi contestato dalla contribuente nel motivo di ricorso in appello, per come desumibile dal contenuto di tali atti riprodotti in parte qua dalla difesa erariale nel ricorso in esame (pagg. 13-17), elemento dimostrativo della fondatezza di quella presunzione; ed infatti, con riferimento a tale statuizione, con l’appello la contribuente ha contestato la «illegittimità/erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto il motivo di ricorso relativo alla inapplicabilità alla fattispecie della presunzione di distribuzione dei maggiori redditi accertati in capo alla società», non solo per l’inesistenza di rapporti di complicità tra i soci, non avendo rapporti di parentela o affinità con gli altri componenti della compagine societaria, ma anche che «la presunzione in questione non sarà comunque sostenibile in caso di accertamento di maggior reddito derivante dalla semplice constatazione di costi non inerenti»;
– che, ciò precisato, deve osservarsi che l’accertamento della eventuale «illegittimità in sé» di quella presunzione (ricorso, pag. 14) non era comunque precluso al giudice di merito, a prescindere dalla proposizione di apposito motivo di ricorso, costituendo il presupposto su cui era fondata la pretesa fiscale, che logicamente precedeva la valutazione della sussistenza degli elementi circostanziali che la suffragassero; e deve, in ogni caso, ricordarsi che «l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, la cui statuizione, ancorché erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione dovesse ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato la erroneità di quella motivazione, sicché, in tal caso, il dedotto errore non si configura come “error in procedendo”, ma attiene al momento logico dell’accertamento in concreto della volontà della parte» (Cass. n. 1545 del 2016);
– che con il secondo motivo di ricorso, con cui è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 38, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, 44 e 47 d.P.R. n. 917 del 1986, 2697 e 2729 cod. civ., 3 e 53 Cost., la ricorrente contesta la decisione di appello che aveva ritenuto illegittima la presunzione di distribuzione di utili extrabilancio nelle società a ristretta base partecipativa e la necessità che l’amministrazione finanziaria dimostri in concreto il “clima di complicità” che avvince i soci ed il “passaggio di denaro dalle casse della società a vantaggio di quella dei soci”;
– che il motivo è manifestamente fondato e va accolto, ponendosi la statuizione di merito in consapevole ma ingiustificato contrasto con i principi giurisprudenziali in materia; invero, la CTR nella sentenza impugnata non ha fornito alcuna convincente argomentazione idonea a contrastare il consolidato principio giurisprudenziale che ritiene legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili accertati, fatta naturalmente salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati fatti oggetto di distribuzione bensì accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (cfr., ex multis, Cass. n. 27778 del 2017, n. 24534 del 2017, n. 13094 del 2016; v. anche Cass. n. 17928 del 2012; n. 18640 del 2008; n. 6197 del 2007, n. 20851 del 2007, n. 16885 del 2003); la mancata inclusione nella contabilità sociale dei ricavi accertati come conseguiti da operazioni “in nero” fa logicamente presumere che siano stati distribuiti ai soci, ai quali, anche in ragione del principio di vicinanza della prova, non sarà di certo difficoltoso dimostrare – ove confermata l’esistenza di redditi non dichiarati – che gli utili “in nero” conseguiti dalla società, invece che ripartiti tra essi, erano stati accantonati o reinvestiti; alla stregua di tali considerazioni, neppure coglie nel segno la CTR quando sostiene che tale presunzione produceva «il crudele effetto di raddoppiare il prelievo di imposta in quanto vengono tassati sia la società che i soci, senza dare a questi ultimi la possibilità di beneficiare del credito di imposta che altrimenti sarebbe loro spettato»;
– che, al riguardo, precisandosi che la questione è stata posta dalla ricorrente con il terzo motivo di ricorso, con cui la difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 67 d.P.R. n. 600 del 1973, deve osservarsi che la CTR mostra di non conoscere il principio giurisprudenziale (peraltro affermato in fattispecie del tutto analoga) in base al quale «In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’operatività del divieto di doppia imposizione, previsto dall’art. 67 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto. Tale condizione non si verifica in caso di duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, quale quella che si realizza, in caso di partecipazione al capitale di una società commerciale, con la tassazione del reddito sia ai fini dell’IRPEG, quale utile della società, sia ai fini dell’IRPEF, quale provento dei soci, attesa la diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti a base delle due diverse imposizioni» (Cass. n. 19687 del 2011; conf. a Cass. n. 8351 del 2002);
– che con il quarto motivo la difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 e 7 legge n. 212 del 2000, anche con riferimento all’art. 24 Cost., sostenendo che aveva errato la CTR nel ritenere sussistente sub specie «un vizio procedurale» consistente nella omessa notifica al socio dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società;
– che il motivo è fondato non essendosi la CTR attenuta all’insegnamento di questa Corte secondo cui «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’obbligo di porre il contribuente in condizione di conoscere le ragioni dalle quali deriva la pretesa fiscale, sancito dall’art. 42 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come modificato dall’art. 1 del d.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, è soddisfatto dall’avviso di accertamento dei redditi del socio che rinvii “per relationem” a quello riguardante i redditi della società (modalità assolutamente legittima – ex multis, Cass. n. 25296 del 2014, n. 13094 del 2016 e n. 9323 del 2017) ancorché solo a quest’ultima notificato, in quanto, da un lato, l’obbligo di motivazione è assolto anche mediante il riferimento ad elementi di fatto offerti da atti nella conoscibilità del destinatario, e, dall’altro, il socio, ex art. 2261 cod. civ., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi» (Cass. n. 5645 del 2014; in termini anche Cass. n. 8407 del 2002, n. 1952 del 2008, n. 25296 del 2014 di questa Sottosezione, n. 13094 del 2016);
– che, conclusivamente, vanno accolti il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, rigettato il primo, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla competente CTR anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, rigetta il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Commissione tributaria regionale delle Marche, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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