CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 novembre 2018, n. 29084
Tributi – Cessione ramo d’azienda – Partecipazioni societarie – Abuso del diritto – Elusione – Violazione
Fatti di causa
Con sentenza n. 118/42/2012, depositata in data 20/9/2012, la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha respinto l’appello con il quale S.F. s.r.I., e T.N.T. P. Services s.r.I., censuravano la decisione di primo grado, sostenendo la illegittimità della riqualificazione, come cessione di azienda, dell’operazione consistita nella costituzione, in data 26/9/2007, ad opera della prima, della R. Italia s.r.I., mediante conferimento del ramo d’azienda avente ad oggetto l’attività di produzione di materiale pubblicitario, e nella cessione, lo stesso giorno, da parte della conferente, della partecipazione totalitaria delle neo-costituita società R. Italia, atto quest’ultimo registrato a tassa fissa.
Le contribuenti, le quali avevano impugnato senza successo, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, l’avviso di liquidazione, con cui l’Amministrazione determinava in misura proporzionale (3%), e non fissa (€ 168,00), l’imposta di registro, applicando interessi e sanzioni, proponevano appello, e la CTR della Lombardia confermava la gravata sentenza, sul rilievo che, in forza dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, l’imposta va determinata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, e che, nella fattispecie in esame, il collegamento degli atti e le modalità di esecuzione dell’operazione – “costituzione della società R. Italia da parte di R., il conferimento a quest’ultima del ramo d’azienda e, in pari data, la cessione da parte di R. alla T.N.T. dell’intera partecipazione azionaria, il capitale sociale determinato allo stesso valore nominale della intera partecipazione azionaria e al medesimo prezzo di euro 2.600.000,00” – , depongono nel senso che si è trattato di una “precisa scelta del gruppo necessariamente preordinata e studiata al fine di produrre un effetto < indiretto > sotteso agli stessi atti, volto ad ottenere un risparmio d’imposta”.
La società T.N.T. P. Services propone ricorso per cassazione, con cinque motivi, illustrati con memoria, cui resiste l’Agenzia delle Entrate, mentre la società
S.F. non ha svolto attività difensiva.
Ragioni della decisione
Col primo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 131 del 1986, art. 20, e dell’art. 1362 c.c., giacché il Giudice di appello avrebbe dovuto esaminare i negozi, in specie l’atto di cessione di quota, attribuendo alle espressioni ivi impiegate il loro senso letterale, e sarebbe così pervenuto alla conclusione che la società T.N.T. P. Services non ha acquistato un’azienda, bene di secondo grado, bensì una partecipazione societaria, in quanto l’atto tassato è appunto una cessione di quote di società, e nello stesso senso spinge il comportamento complessivo delle parti contraenti, atteso che la cessionaria non ha incorporato la società di cui ha acquistato la partecipazione e, quindi, non è mai diventata titolare del ramo d’azienda oggetto di conferimento.
Col secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 131 del 1986, art. 20, giacché il Giudice di appello ha dato rilevo, nell’operare la riqualificazione della operazione negoziale a fini fiscali, agli effetti economici dell’atto (il trasferimento d’azienda), piuttosto che agli effetti giuridici (la cessione di quota societaria).
Col terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 131 del 1986, art. 20, giacché il Giudice di appello ha attribuito natura elusiva ad un’operazione negoziale, sulla base di un mero risparmio d’imposta conseguito neppure indebitamente.
Col quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dalle valide ragioni economiche addotte dalla contribuente a giustificazione della operazione tassata, considerato che acquistare una partecipazione societaria è cosa ben diversa dall’acquistare una azienda.
Col quinto motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 131 del 1986, art. 20, giacché il Giudice di appello ha interpretato la più volte richiamata disposizione in modo da creare antinomie tra le norme (art. 37 bis, d.p.r. n. 600 del 1973, 176, coma 3, d.p.r. n. 917 del 1986) dell’ordinamento giuridico che sono esplicitamente caratterizzate da una funzione antielusiva.
Le censure, che sono scrutinabili congiuntamente in quanto logicamente connesse, vanno disattese perché infondate.
La giurisprudenza di questa Corte è da tempo orientata nel senso di escludere che l’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, sia predisposto al recupero di imposte “eluse”, perché l’istituto dell'”abuso del diritto” – disciplinato oggi dall’art. 10 bis L. n. 212 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015 – presuppone una mancanza di “causa economica” che non è viceversa prevista per l’applicazione dell’art. 20 citato, disposizione la quale semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto, o il collegamento di più atti, in ragione della loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale.
La fattispecie regolata dall’art. 20, d.p.r. citato, nemmeno ha a che fare con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel dato collegamento negoziale, e ciò perché quel che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi (tra le tante, Cass. n. 9582/2016; n. 10211/2016; n. 9573/2016; n. 18454/2016; n. 2050/2017).
La Corte, inoltre, ha chiarito che la prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul loro titolo, e sulla loro forma apparente, vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (Cass. n. 10216/2016; n. 1955/2015; n. 14150/2013; n. 6835/2013).
Detta interpretazione tiene conto dell’evoluzione normativa che ha caratterizzato la prestazione patrimoniale tributaria di registro, dal regime della tassa, avente come oggetto l’atto inteso nella sua forma documentale, e come contenuto di una determinata quantità di denaro da riscuotere in corrispettivo del servizio di registrazione, a quello dell’imposta, avente come oggetto la manifestazione di capacità contributiva correlabile a una ben dimostrata forza economica (art. 53 Cost.) e, inserendosi nell’ambito di una simile evoluzione, gli artt. 1 e 20 del D.P.R. n. 131 del 1986 vanno letti nel senso che l’oggetto dell’imposta di registro, per quanto genericamente e formalmente individuata nel riferimento dell’art. 1 agli atti soggetti a registrazione o volontariamente presentati per la registrazione, nella sostanza, è costituito dagli effetti giuridici di tali atti, ma l’imposta si collega all’atto come negozio e non all’atto come documento (Cass. n. 3481/2014).
Non vale, in senso contrario, il richiamo alla diversità dei criteri interpretativi utilizzabili ai fini tributari, rispetto a quelli civilistici, in quanto va pur sempre attribuita preminenza, in applicazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986, “alla causa reale dell’operazione economica rispetto alle forme negoziali adoperate dalle parti, sicché, ai fini della individuazione del corretto trattamento fiscale, è possibile valutare, ai sensi dell’art. 1362, secondo comma, c. c., circostanze ed elementi di fatto diversi da quelli emergenti dal tenore letterale delle previsioni contrattuali” (Cass. n. 6405/2014), di guisa che « gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscono a semplici elementi della fattispecie tributaria >> (Cass. n.19752/2013; n. 10660/2003; n. 14900/2001).
L’indirizzo giurisprudenziale – al quale il Collegio intende dare continuità – non appare scalfito dalla sentenza n. 2054/2017 della Corte, che individua un limite alla attività riqualificatoria dell’Ufficio nella insuperabilità dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, di tal che, in mancanza di prova, a carico della Amministrazione finanziaria, del disegno elusivo, ricorrerebbe piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro”. Al di là delle specifiche caratteristiche del caso concreto nell’occasione esaminato, e della contestata adeguatezza della motivazione della sentenza del Giudice di appello – sul piano processuale, l’accertamento della natura, entità, modalità e conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (v. per tutte Cass. n. 11974/2010) – preme qui osservare che l’isolato approdo giurisprudenziale trascura di considerare che la formulazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, consente il superamento dell’individuato limite all’attività di interpretazione dell’atto consentita all’Amministrazione finanziaria, che l’intento elusivo non è essenziale ai fini qui esaminati, e che la proposta lettura della disposizione mal si concilia con il principio costituzionale della capacità contributiva, ed ignora la ricordata evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dell’ imposta.
L’opinione fatta propria dalla ricordata sentenza (n. 2054/2017) non considera la molteplicità delle forme in cui l’autonomia contrattuale prevista dall’art. 1322 c.c. può potenzialmente esprimersi, né tantomeno dà il giusto spazio, nella individuazione della materia imponibile, alla c.d. “causa concreta” del contratto, ovvero lo scopo pratico del negozio inteso, al di là del modello astratto utilizzato, come funzione individuale della singola e specifica negoziazione, questione che non può essere sbrigativamente superata richiamando la intangibilità dello schema negoziale tipico (v. per tutte, Cass. n. 10490/2006), e neppure al fenomeno del collegamento negoziale, “meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico complesso, che viene realizzato, non attraverso un autonomo e nuovo contratto, ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è concepito, funzionalmente e teleologicamente, come collegato con gli altri, cosicché le vicende che investono un contratto possono ripercuotersi sull’altro. Ciò che vuoi dire che, pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti legati dal loro collegamento funzionale sono finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi” (Cass. n. 12454/2012).
Al caso in esame neppure può applicarsi il più volte citato art. 20, nel testo modificato dall’art. 1, comma 87, lett. a), della L. n. 205 del 2017 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n.302 del 29 dicembre 2017- Supp. Ord. n. 62, ed entrata in vigore l’ 1 gennaio 2018, il quale prevede che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
Alla norma non può riconoscersi effetto interpretativo di quella previgente in quanto essa introduce limiti prima non previsti all’attività di riqualificazione giuridica della fattispecie, fermo restando che, ai sensi dell’art. 53 bis, comma 1, D.P.R. n. 131 del 1986, nel testo modificato dalla dall’art. 1, comma 87, lett. b), della L. n. 205 n. 2017, l’Amministrazione finanziaria può dimostrare la sussistenza dell’abuso del diritto previsto dall’art. 10 bis della legge 212/2000 (introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015), il quale, alla lettera a), attribuisce espressamente rilevanza al collegamento negoziale, ma nel diverso ambito, appunto, dell’abuso del diritto e non più in quello della mera riqualificazione giuridica.
Se l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente di questa Corte è nel senso di escludere la natura antielusiva dell’art. 20, a beneficio di quella della qualificazione giuridica della fattispecie, difetta alla radice il tipico connotato sintomatico della natura interpretativa di una nuova disposizione insito nell’intento legislativo di porre fine ad uno stato di pregressa dubbiosità applicativa, così come non può sostenersi che la modifica introdotta alla norma in questione abbia natura interpretativa sol perché richiama l’art. 10 bis, L. n. 212 del 2000, in quanto tale ultima norma disciplina il diverso ambito dell’abuso del diritto.
Neppure vale obiettare che la relazione illustrativa alla legge n. 205 del 2017 assegna alla disposizione concernente l’imposta di registro il compito di “chiarire” il criterio di individuazione della natura e degli effetti che devono essere presi in considerazione ai fini della registrazione, in quanto se non può ritenersi precluso al legislatore adottare norme che precisino il significato di precedenti disposizioni legislative, pur a prescindere da una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o di contrasti giurisprudenziali, a condizione che l’interpretazione non collida con il generale principio della ragionevolezza (in tal senso è da tempo orientata la Corte Costituzionale), deve pur sempre trattarsi della indicazione di una opzione interpretativa tra le diverse possibili e, soprattutto, compatibile con il tenore della norma interpretata.
L’argomento sopra ricordato può essere agevolmente superato sulla base del tenore testuale adottato dallo stesso art. 1, co. 87, il quale dichiara espressamente di apportare talune “modificazioni” all’art.20 D.P.R. n. 131 del 1986, così palesandosi quale disposizione innovativa del precedente assetto normativo, e ciò trova conferma, in coerenza con il dato letterale del nuovo disposto, nel fatto che la modificazione introdotta ha determinato una rivisitazione strutturale profonda, ed antitetica, della fattispecie impositiva pregressa, là dove l’art. 20 previgente (secondo l’indirizzo di legittimità) imponeva la tassazione sulla base di elementi (il dato extratestuale ed il collegamento negoziale) che vengono oggi espressamente esclusi, fatto salvo, come già detto, il loro “recupero” nel diverso ambito della sopravvenuta disciplina dell’abuso del diritto:
La novella introdotta dalla L. n. 205 del 2017, in definitiva, non avendo portata interpretativa, ma innovativa, non esplica effetto retroattivo e, conseguentemente, gli atti ai quali è correlato l’esercizio della potestà impositiva, antecedenti alla data di sua entrata in vigore (1° gennaio 2018), continuano ad essere assoggettati ad imposta di registro secondo la disciplina risultante dalla previgente formulazione dell’art. 20 d.p.r. n. 131 del 1986.
Il ricorso deve essere, in conclusione, respinto, in quanto la sentenza impugnata, affermando che l’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, trova applicazione anche in ipotesi di collegamento negoziale, di atti che realizzano, ancorché frazionatamente, sul piano della regolamentazione degli interessi dei contribuenti, un preordinato unico risultato, identificabile in funzione di valutazione complessiva, nella specie, la cessione di ramo d’azienda, si è puntualmente attenuta ai principi di diritto innanzi esposti.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento della spese del presente giudizio, che liquida in € 3.600,00 per compensi, oltre rimborso spese prenotate a debito.
Trovando applicazione l’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n. 115 del 2002, segue la condanna della ricorrente al versamento, in favore dell’Erario, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
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