CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 maggio 2020, n. 8627
Infermieri – Tempo necessario per indossare e dismettere la divisa – Orario di lavoro retribuito – Comportamenti integrativi dell’obbligazione principale – Funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria
Rilevato
che la Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza contestuale letta all’udienza del 17.3.2016, ha rigettato il gravame interposto dall’Azienda Unità Sanitaria Locale di Pescara, nei confronti dei T.C. e degli altri 69 dipendenti, con qualifica di infermieri, indicati in epigrafe, avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede n. 830/2015, resa il 21.10.2015, che ha accolto il ricorso dei medesimi dipendenti, con il quale era stato richiesto che fosse considerato come compreso nell’orario di lavoro – e, quindi, che fosse retribuito – il tempo necessario per indossare e dismettere la divisa, all’inizio ed alla fine del turno, calcolato in venti minuti complessivi;
che la Corte di merito, per quanto ancora in questa sede rileva, ha ritenuto che, «… pur tenendo conto del mancato intervento sulla specifica questione della contrattazione collettiva applicabile in azienda e della mancanza di una specifica regolamentazione aziendale …, il personale infermieristico deve necessariamente indossare e dismettere la divisa di lavoro, per intuibili ragioni di igiene, negli stessi ambienti dell’azienda prima dell’entrata e dopo l’uscita dai relativi reparti, rispettivamente, prima e dopo i relativi turni di lavoro»; e che «la Cassazione, con giurisprudenza costante … ha affermato che nel rapporto di lavoro subordinato il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale, ancorché relativo a fase preparatoria del rapporto, deve essere autonomamente retribuito ove la relativa prestazione, pur accessoria e strumentale rispetto alla prestazione lavorativa, debba essere eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia autonomamente esigibile dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria»;
che per la cassazione della sentenza ricorre l’Azienda Unità Sanitaria Locale di Pescara articolando due motivi, cui resistono con controricorso T.C. e gli altri 69 lavoratori indicati in epigrafe;
che sono state comunicate memorie, ai sensi dell’art. 380-bis del codice di rito, nell’interesse dell’AUSL di Pescara e dei controricorrenti (quella di questi ultimi pervenuta in prossimità dell’adunanza camerale);
che il P.G. non ha formulato richieste
Considerato
che, con il ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 del R.d.l. n. 692 del 1923; 1, comma 2, lett. a) del D.Igs. n. 66 del 2003, ed in particolare, si lamenta che i giudici di seconda istanza abbiano qualificato il tempo occorrente per la vestizione come strettamente funzionale all’esecuzione della prestazione e, dunque, come corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto di lavoro, ed altresì che la Corte di merito non abbia correttamente applicato i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla eterodirezione della vestizione e vestizione preparatoria all’adempimento della prestazione lavorativa; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, comma 2, lett. c), e 3 del D.Igs. n. 66 del 2003, nonché degli artt. 26 e 34 del CCNL del Comparto Sanità 1998-2001 e delle successive integrazioni, ed in particolare, si deduce che la sentenza impugnata risulterebbe palesemente in contrasto con la normativa che si assume violata, poiché considera che l’atto di indossare la divisa, in quanto antecedente all’inizio della prestazione lavorativa e funzionale alla sua corretta esecuzione, debba essere inquadrato tra le attività preparatorie, che rappresentano l’emersione a livello giuridico di obblighi comportamentali di matrice culturale e sociale; ed inoltre, che il Contratto integrativo aziendale preveda la rotazione dei lavoratori entro un range temporale di trenta minuti, secondo la formula organizzativa c.d. dell’avvicendamento dinamico di squadra, così da consentire che, nel tempo occorrente per il passaggio di consegne, i reparti non siano mai lasciati del tutto privi di personale; e che, comunque, potrebbe sempre esservi una autorizzazione postuma dell’orario reso oltre il turno prestabilito da parte del coordinatore del reparto, al fine di consentire al turnista successivo di assumere informazioni da colui che Io ha preceduto, in ipotesi in cui ciò sia richiesto dalla gravità del caso;
che i motivi, da trattare congiuntamente per ragioni di connessione, non sono meritevole di accoglimento: al riguardo, va, innanzitutto, premesso, con riguardo al secondo motivo, che le censure attengono anche all’esegesi di Accordi integrativi aziendali (del Comparto Sanità del 20.9.2001; e 1.4.2003 ) che integrano, appunto il CCNL del Comparto Sanità 1998-2001, che non sono stati prodotti (e neppure indicati tra i documenti offerti in comunicazione elencati nel ricorso per cassazione), né trascritti, in violazione della prescrizione (che si evince dal combinato disposto degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369 c.p.c.), più volte ribadita da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (cfr., ex plurimis, Cass. n. 14541/2014, cit.). Il ricorso di legittimità deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità della doglianza svolta, sul punto, dalla parte ricorrente; deve rilevarsi, altresì, che i citati Accordi integrativi aziendali non sono Contratti collettivi nazionali di lavoro, in ordine ai quali la Corte di legittimità procede alla diretta interpretazione (cfr., tra le molte, Cass. nn. 17248/2015; 6335/2014), ma, appunto in quanto Accordi integrativi, nel caso in cui se ne deduca la errata interpretazione, occorre denunziare la violazione dei canoni ermeneutici (cfr., tra le altre, Cass. n. 21888/2016); e la parte ricorrente non ha specificato i canoni ermeneutici che sarebbero stati in concreto violati, né il punto ed il modo in cui i giudici di merito si sarebbero discostati da essi, limitandosi a contrapporre una diversa esegesi della disciplina di cui si discute, rispetto a quella fornita dai giudici di merito; pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);
che, fatte queste doverose premesse, si osserva, comunque, che la Corte territoriale è pervenuta alla decisione oggetto del presente giudizio uniformandosi agli ormai consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte nella materia, del tutto condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene – ed ai quali, ai sensi dell’art. 118 Disp. att. c.p.c., fa espresso richiamo (cfr., in particolare e tra le molte, Cass. nn. 17635/2019; 3901/2019; 12935/2018; 27799/2017) -, secondo cui l’attività di vestizione attiene a comportamenti integrativi dell’obbligazione principale ed è funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria e costituisce, altresì, attività svolta non (o non soltanto) nell’interesse dell’Azienda, ma dell’igiene pubblica, imposta dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene. Pertanto, dà diritto alla retribuzione anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, in quanto, proprio per le peculiarità che la connotano, deve ritenersi implicitamente autorizzata da parte dell’AUSL; e tali affermazioni non si pongono in contrasto con quanto affermato da questa Suprema Corte con la sentenza n. 9215 del 2012, secondo cui, «nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio (cd. tempo tuta) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo»; e ciò, in quanto gli arresti più recenti rappresentano uno sviluppo di quello precedente, or ora citato, ponendo l’accento sulla «funzione assegnata all’abbigliamento, nel senso che la eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina di impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento, o dalla specifica funzione che devono assolvere», per obbligo imposto, lo si ripete, dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene attinenti alla gestione del servizio pubblico ed alla stessa incolumità del personale addetto;
che, pertanto, va sottolineato che l’orientamento giurisprudenziale di legittimità «è saldamente ancorato al riconoscimento dell’attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell’orario di lavoro e da retribuire autonomamente, qualora sia stata effettuata prima dell’inizio e dopo la fine del turno. Tale soluzione, del resto, è stata ritenuta in linea con la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14; v. Cass. n. 1352/2016…)» (così, testualmente, Cass. ord. n. 17635/2019, cit., alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti sul punto, ai sensi dell’art. 118 Disp. att. c.p.c.);
che, per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va respinto;
che le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate complessivamente in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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