CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 novembre 2020, n. 26968
Tributi – IRPEF – Accertamento – Cessione quote societarie – Plusvalenza – Soggetto interposto – Effettivo beneficiario – Attribuzione reddito imponibile
Rilevato che
1. G.G. ha impugnato, dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Sondrio, l’avviso d’accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate, relativamente all’anno d’imposta 2004, ha rettificato – ai fini Irpef – il suo reddito imponibile, determinando le maggiori imposte dovute in conseguenza, oltre agli interessi ed alle sanzioni, all’esito delle indagini relative al gruppo M., e sul presupposto che il medesimo contribuente fosse l’effettivo possessore, attraverso l’interposta società semplice C., del reddito da plusvalenza realizzato da quest’ultima a seguito di un’operazione di compravendita di quote della V. s.r.l., la cui rilevanza fiscale era stata di fatto azzerata tramite perdite fiscali artatamente costituite in precedenza dalla medesima società.
Secondo l’Ufficio, pertanto, la plusvalenza in questione costituiva un reddito imponibile imputabile direttamente all’interponente G.G.
L’adita CTP ha rigettato il ricorso.
2. Deceduto il contribuente G.G., i suoi eredi A., P. e S.G. hanno impugnato la sentenza di primo grado e l’adita Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza n. 35/29/13, depositata il 7 febbraio 2013, ha rigettato l’appello.
3. Gli eredi del contribuente hanno allora proposto ricorso, affidato a cinque motivi, per la cassazione della predetta sentenza d’appello.
4. L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso.
5. I ricorrenti hanno depositato memoria.
Considerato che
1. Preliminarmente, deve rilevarsi che i ricorrenti, successivamente al deposito del ricorso, hanno allegato alla memoria del 6 luglio 2015, oltre a due massime giurisprudenziali, un ulteriore documento (il «verbale di contraddittorio prot. 19917/2011» dell’Agenzia delle Entrate) che va stralciato, non essendo compreso tra quelli dei quali l’art. 372, secondo comma, cod. proc. civ. consente la produzione indipendentemente dal ricorso.
2. Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., l’«omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio».
Il motivo è inammissibile, atteso che, in considerazione della data di deposito della sentenza impugnata, deve applicarsi l’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. nel testo modificato dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che consente di censurare la sentenza impugnata esclusivamente « per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.».
Inoltre, il motivo è inammissibile anche perché, come emerge dal corpo dello stesso, nel caso di specie i ricorrenti neppure lamentano il preteso vizio motivazionale con riferimento ad un determinato fatto storico, visto che, impropriamente, individuano come «fatti rilevanti», che il giudice a quo non avrebbe considerato, le «eccezioni relative alle questioni di diritto sollevate» in appello, sulle quali, a loro dire, vi sarebbe stata la «mancata analisi» da parte della CTR.
3. Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., nuovamente l’«omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio».
Anche il secondo motivo è inammissibile, poiché, come il primo, è difforme rispetto alla censura consentita dall’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis.
Peraltro, con il motivo in questione i ricorrenti lamentano pretese carenze motivazionali conseguenti, a loro dire, alla tecnica, utilizzata dal giudice d’appello, della motivazione della sua decisione per relationem a quella di primo grado, alla quale la sentenza della CTR si sarebbe interamente rifatta, senza valutare criticamente quest’ultima e le censure degli appellanti.
Tuttavia, ferma restando la sua già rilevata inammissibilità, il secondo motivo è comunque anche infondato, atteso che, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, « La sentenza d’appello può essere motivata “per relationem”, purché il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame.» (Cass., 05/08/2019, n. 20883, ex plurimis). Coerente con tale consolidato principio si rivela, nel caso di specie, la sentenza impugnata, la quale, dopo aver esplicitamente e testualmente riprodotto il nucleo decisorio della sentenza di primo grado (peraltro distinguendolo anche graficamente, con virgolette e sottolineatura, dal successivo impianto motivazionale della decisione sull’appello), ha esposto i contenuti dell’impugnazione ed ha, infine, spiegato i motivi di fatto e di diritto per i quali non li ha ritenuti idonei a modificare quanto deciso dalla CTP, ovvero le ragioni per cui ha confermato quest’ultima.
4. Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi degli artt. 112 e 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione di legge, assumendo che il giudice a quo avrebbe, illegittimamente, attribuito d’ufficio al loro dante causa una condotta, tenuta nell’ambito delle operazioni controverse, non sorretta da logica economica ed elusiva, finalizzata ad ottenere l’indebita esclusione dall’ imposta degli utili derivanti dalla plusvalenza in questione.
Il motivo è inammissibile.
Infatti « Costituisce causa di inammissibilità del ricorso per cassazione l’erronea sussunzione del vizio, che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità, nell’una o nell’altra fattispecie di cui all’art. 360 cod. proc. civ. (Nella specie, pur avendo proposto ricorso ai sensi del numero 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., il ricorrente si doleva in realtà della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’ultrapetizione in cui sarebbe incorsa la sentenza di appello, prospettando, così, un vizio che avrebbe dovuto far valere ai sensi del numero 4 del medesimo art. 360).» (Cass. 17/09/2013, n. 21165; conformi Cass. 22/09/2014, n. 19959; Cass. 14/05/2018, n. 11603). Peraltro, ferma la rilevata inammissibilità, il terzo motivo è altresì infondato.
Deve infatti rilevarsi che, nel caso sub iudice , sia l’operazione oggetto dell’accertamento che la notifica dell’avviso controverso sono antecedenti all’inserimento, con l’art. 1 d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, nella legge 27 luglio 2000, n. 212, dell’art. 10-bis, in materia di disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale, che è quindi inapplicabile, ai sensi della specifica norma intertemporale dettata dal comma 5 del ridetto art. 1 d.lgs. n. 128 del 2015.
In assenza della sopravvenuta disciplina generale dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, la natura abusiva delle condotte del contribuente oggetto del giudizio è stata ritenuta, dalla giurisprudenza di questa Corte, alla quale si intende dare seguito, comunque rilevabile anche d’ufficio, atteso che « In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione.» (Cass., Sez. U., 23/12/2008, n. 30055; conforme Cass., Sez. U., 23/12/2008, n. 30057; Cass. 25/11/2015, n. 24024; Cass. n. 5380/2015; Cass. 23/11/2018, n. 30404 e Cass. 08/03/2019, n. 6836, in motivazione).
Ed è stato altresì precisato, con orientamento cui si intende conformarsi, «Che una specifica norma antielusiva abbia espressamente preso in considerazione uno dei benefici fiscali che tipicamente derivano dal negozio abusivo non vuol dire, pertanto, che il giudice tributario non possa, prendendo atto nella specie della valutazione espressa di elusività dell’operazione da parte del legislatore, utilizzare lo strumento dell’inopponibilità all’amministrazione (adottato dallo stesso legislatore in numerose norme specifiche di carattere antielusivo […] ) anche per ogni altro profilo di indebito vantaggio (Cass., Sez. U., 23/12/2008, n. 30057, in motivazione).
Inoltre, è stato chiarito che « Nel processo tributario, pur essendo l’oggetto del giudizio delimitato dalle ragioni poste a fondamento dell’atto di accertamento, il tema relativo all’esistenza, alla validità ed all’opponibilità all’Amministrazione finanziaria del negozio da cui si assume che originino determinate minusvalenze deve ritenersi acquisito al giudizio per effetto dell’allegazione da parte del contribuente, il quale è gravato dell’onere di provare i presupposti di fatto per l’applicazione della norma da cui discende l’invocata diminuzione del reddito d’impresa imponibile: ne consegue, anche in ragione dell’indisponibilità della pretesa tributaria, la rilevabilità d’ufficio delle eventuali cause di invalidità o di inopponibilità del negozio stesso, sempre che ciò non sia precluso, nella fase di impugnazione, dal giudicato interno eventualmente già formatosi sul punto o (nel giudizio di legittimità) dalla necessità di indagini di fatto (Cass., Sez. U., 23/12/2008, n. 30055, cit.; conformi, ex multis, Cass. 19/10/2012, n. 17949 e Cass. 20/03/2015, n.5655. Cfr. altresì Cass. 11/05/2012, n. 7393, in ordine al potere del giudice tributario di qualificare autonomamente la fattispecie, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa, nonostante il carattere impugnatorio del processo tributario.
5. Con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 37, terzo comma, d.P.R.. 29 settembre 1973, n. 600.
Il motivo è inammissibile, atteso che, sotto la rubrica di una pretesa violazione di legge, i ricorrenti intendono censurare, come non è ammissibile in questa sede, le valutazioni in fatto dei giudici dei due gradi di merito, assumendo che «si ritiene opportuno far notare che i ricorrenti in tutti gradi di giudizio hanno dimostrato la non elusività dell’operazione nella parte in cui dimostravano che il G. non intese minimamente sottrarsi ad imposizione fiscale, posto che invece lasciò in C. s.s. utili sufficienti a pagare le imposte correlate all’imposizione maturata in C. s.s. al momento della cessione a Galatea.».
Il motivo è inoltre ulteriormente inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, basata, come l’accertamento, sulla riconducibilità effettiva, ai fini fiscali, del reddito da plusvalenza all’interponente G., e quindi sull’imponibilità nei confronti di quest’ultimo di tale componente attiva, non neutralizzata dalla predisposizione ad arte di perdite fiscali dell’interponente.
In quest’ottica, non è quindi rilevante che lo stesso G. abbia, o meno, lasciato nella disponibilità dell’interposta società somme che si assumono sufficienti a pagare le imposte imputate a quest’ultima.
6. Con il quinto motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 42, secondo e terzo comma, d.P.R.. 29 settembre 1973, n. 600.
Assumono infatti i ricorrenti che il giudice a quo avrebbe errato nell’escludere la nullità dell’avviso d’accertamento controverso per mancata allegazione ad esso dell’adesione della società semplice C. al condono che si assume relativo alle perdite in questione, ed agli esiti (rigetto ed eventuale contenzioso conseguente) di quest’ultimo procedimento amministrativo.
Il motivo è inammissibile, non solo per la sua genericità in ordine al condono ed alle correlate vicende amministrative e giudiziarie, ma perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha escluso in radice ogni rilevanza di tali circostanze, attinenti la società interposta, rispetto all’interponente persona fisica, considerato l’effettivo percettore del reddito de quo.
7. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido a pagare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00, per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13 , se dovuto.
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