CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 luglio 2021, n. 20040
Tributi – Disposizioni antielusive previste per le società di comodo – Disapplicazione – Situazione ostativa allo svolgimento dell’attività imprenditoriale
Fatti di causa
1. La vicenda contenziosa trae origine dalla richiesta avanzata dalla contribuente, esercente il commercio di abbigliamenti ed accessori, alla Direzione Regionale delle Entrate della Campania ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, d.P.R. n. 600 del 1973 per la disapplicazione delle disposizioni antielusive di cui all’art. 30 legge n. 724 del 1994.
Nonostante l’acquisto di un modulo immobiliare da adibire all’attività aziendale, questa era stata impedita a causa dello scioglimento e dal fallimento della società venditrice con la conseguenza che la M.V. s.r.l. si era trovata nella impossibilità di svolgere l’attività commerciale e percepire i proventi nella misura di cui all’art. 30 cit..
La Commissione tributaria provinciale di Napoli ha respinto l’impugnazione della società avverso il provvedimento di diniego della disapplicazione richiesta dalla contribuente.
2. Ritenuta l’impugnabilità del provvedimento in questione, la CTR ha ritenuto fondato l’appello e, dunque, il ricorso, introduttivo della società.
In particolare, ha giudicato dimostrata l’esistenza di una situazione ostativa allo svolgimento dell’attività imprenditoriale e, dunque, l’inapplicabilità delle disposizioni antielusive previste per le società di comodo con conseguente prova della impossibilità di conseguire un reddito minimo.
La circostanza dedotta dall’Agenzia secondo cui la M.V. s.r.l. avrebbe potuto avviare altrove l’attività è stata giudicata una deduzione “vaga”.
In ogni caso, anche la mancata richiesta di chiarimenti alla contribuente da parte dell’Agenzia è stata ritenuta elemento indicativo della nullità dell’atto impositivo.
3. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate articolando due motivi di censura.
La contribuente è rimasta intimata.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo è stata dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 30 legge n. 724 del 1994 e dell’art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360, comma primo, nn. 3 e 4, cod. proc. civ..
In particolare, è stata sostenuta la tesi della non autonoma impugnabilità del provvedimento di diniego della disapplicazione delle norme antielusive di cui alla legge n. 724 del 1994 non rientrando tale atto tra quelli previsti dall’art. 19 cit..
2. Con il secondo motivo è stata eccepita violazione e/o falsa applicazione degli artt. 30, comma 4- bis, legge n. 724 del 1994 e 37-bis d.P.R. n. 600 del 1973 e, ancora, degli artt. 115 cod. proc. civ. e 2729 e 2697 cod. civ..
In particolare, dal combinato disposto delle prime due norme indicate, ricade sul contribuente l’onere di chiedere la disapplicazione delle disposizioni antielusive, quali quelle previste per le società di comodo, dimostrando l’esistenza delle situazioni oggettive che hanno impedito il superamento del test di operatività.
Nel caso di specie la non operatività della società non poteva ritenersi dimostrata con la situazione di crisi della società che aveva ceduto il modulo destinato all’esercizio dell’attività imprenditoriale in quanto l’acquisto era avvenuto il 12.11.2008, lo scioglimento della società venditrice era avvenuto il 9.4.2009 ed il suo fallimento il 10.9.2010.
3. Infondato il primo motivo.
In ordine all’autonoma impugnabilità del provvedimento di diniego dell’istanza di interpello, si presta adesione all’orientamento già affermato dalla Corte di cassazione secondo cui “in tema di processo tributario, la tassatività dell’elencazione degli atti di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 non esclude che il provvedimento agenziale di rigetto dell’istanza di interpello, avendo natura e contenuto di diniego definitivo della disapplicazione di norme antielusive (a differenza di quello interlocutorio), possa essere impugnato giudizialmente dal contribuente, in applicazione estensiva e costituzionalmente orientata delle disposizioni in materia” (Cass. sez. 6-5, n. 32425 del 11.12.2019, Rv. 656034-01)
Anche nel caso in esame, così come nel precedente richiamato, il provvedimento dell’Agenzia ha natura e contenuto di diniego definitivo della richiesta disapplicazione, con conseguente ammissibilità della sua impugnabilità giudiziale.
Pertinente, quindi, anche in questa sede, il richiamo alla giurisprudenza di legittimità secondo cui “In tema di contenzioso tributario, l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, siccome è possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448. Ne consegue che il contribuente ha la facoltà, non l’onere di impugnare il diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive ex art. 37 bis, comma 8, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, atteso che lo stesso non è atto rientrante nelle tipologie elencate dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ma provvedimento con cui l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario” (Cass., Sez. 5, n. 17010 del 05.10.2012, Rv. 623917-01; conf., Cass., Sez. 6 – 5, n. 23469 del 06.10.2017, Rv. 646406-01; Cass. sez. 6-5, n. 3775 del 15.02.2018, Rv. 647116-01).
4. Il secondo motivo è inammissibile per carenza di interesse.
Emerge dalla disamina della sentenza della CTR che la stessa trova fondamento in una duplice ratio decidendi da individuarsi in distinte argomentazioni ciascuna, da sola, idonea a sorreggere la motivazione dell’accoglimento della domanda proposta dalla società contribuente.
Da un lato vi è l’argomentazione di merito che poggia sulla (ritenuta) dimostrata non rimproverabilità dell’inattività della società M.V. s.r.I.; inoperatività dipesa esclusivamente dalle vicende che hanno interessato la società cedente il locale destinato allo svolgimento dell’attività imprenditoriale.
Dall’altra (ultimo periodo di cui a pag. 3 della motivazione) vi è il rilievo secondo cui il procedimento esitato nel provvedimento impugnato è stato viziato dalla violazione del principio del contraddittorio ritenuto “espressamente eluso” ed oggetto di una espressa autonoma trattazione con richiamo ad un precedente di legittimità con il quale è stata affermata la nullità dell’atto impositivo emesso in violazione della regola procedimentale.
Tale seconda autonoma ratio decidendi non è stata in alcun modo aggredita dall’Agenzia.
Ne deriva che deve trovare applicazione il principio per cui “quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome “rationes decidendi” ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite “rationes”, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate” (Cass. sez. 3, 24 maggio 2006, n. 12372).
5. Da quanto esposto discende il rigetto complessivo del ricorso.
Nessuna statuizione va assunta sulle spese in quanto la contribuente è rimasta intimata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
nulla sulle spese.
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