Corte di Cassazione ordinanza n. 15666 depositata il 17 maggio 2022
contenzioso tributario – giudicato esterno – principio di autosufficienza
Fatti di causa
La CTR ha accolto l’appello erariale avente ad oggetto la sentenza della CTP di Roma che aveva accolto il ricorso della contribuente avverso l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti relativamente all’anno d’imposta 2006, in funzione del recupero di import i per imposte dirette e Iva.
L’Ufficio aveva accertato, infatti, a carico della società odierna ricorrente maggiori ricavi, liquidando più elevate imposte a titolo di Irap e Iva, oltre sanzioni e interessi.
Il maggior reddito veniva ascritto, inoltre, ai soci in proporzione alle quote sociali nella titolarità di ciascuno.
Segnatamente, si contestava alla società contribuente la mancata registrazione di fatture emesse dalla International Tabacco Company, società corrente nella Repubblica di San Marino; i dati delle fatture in parola erano stati riassunti e trascritti in elenchi riepilogativi trasmessi dall’autorità san marinese a quella italiana.
Il ricorso per cassazione della contribuente è affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
La procura generale deposita requisitoria
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso viene denunciata la nullità della sentenza per violazione dell’art. 53 D.Lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., per avere la CTR erroneamente dichiarato l’inammissibilità dell’appello per mancata specificazione dei motivi.
Il motivo è inammissibile.
Come ancor di recente ribadito da questa Corte “Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte; l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “errar in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso” (Cass. n. 28495 del 2020).
Nella specie, la ricorrente si è limitata ad un insufficiente rimando al contenuto dell’atto di gravame dell’Agenzia, astenendosi dal riportare il contenuto dei motivi d’appello formulati da quest’ultima. Le censure asseritamente non specifiche rimangono, pertanto, nella presente sede imperscrutabili.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 54 d.P.R. n. 633 del 1972 e degli artt. 2727 e 2729 e.e., “anche alla luce della specifica disciplina posta dal d.m. 24 dicembre 1993″ nonché degli artt. 3, 24, 111 Cost., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Sotto un primo profilo si adduce come erronea la valorizzazione dei dati risultanti dagli elenchi riepilogativi forniti dall’autorità san marinese, pur a fronte della mancata produzione di fatture e documenti di accompagnamento e/o trasporto. Sotto un secondo profilo si contesta la valenza presuntiva dei dati anzidetti nel contesto delle imposte dirette, tenuto anche conto della produzione, ad opera della contribuente, di scritture contabili idonee ad escludere l’esistenza delle fatture. Sotto un terzo profilo si assume nuovamente l’inidoneità degli elenchi a supportare la pretesa fiscale sul fronte delle imposte dirette.
Il motivo è infondato.
Gli elenchi, forniti dall’ufficio tributario della Repubblica di San Marino in forza degli accordi internazionali vigenti, assumono, nella prospettiva del giudice d’appello, valenza probatoria idonea far presumere l’acquisto da parte della società contribuente e la consegna alla stessa di beni da parte della International Tabacco Company. In tal senso, incombeva alla contribuente l’onere di provare che acquisti e consegne non fossero mai avvenuti: onere che la CTR ha ritenuto non assolto.
Nel valorizzare gli elenchi fatti pervenire dall’autorità san marinese, la CTR si è posta in linea con l’orientamento già espresso da questa Corte, secondo cui “In tema di rettifica della dichiarazione IVA, tra gli “altri atti o documenti” in possesso dell’amministrazione sui quali può fondarsi l’accertamento, ai sensi dell’art. 54, comma 3, d.P.R. n. 633 del 1972 rientrano anche le informative di amministrazioni estere riguardo a indagini che, per essere svolte in territorio estero in materia di imposte armonizzate, non potrebbero essere compiute dall’amministrazione italiana; l’efficacia probatoria di tale fonte deriva dal sistema stesso dell’IVA, quale imposta armonizzata, e trova fondamento nell’art. 65 d.P.R. n. 633 e nell’art. 55 d.l. n. 331 del 1993 (conv. dalla L. n. 427 del 1993), oltre che nella normativa comunitaria di riferimento (Cass. n. 3427 del 2010; Cass. n. 21352 del 2012).
I rapporti tra la Repubblica Italiana e quella di San Marino sono regolati, infatti, dal D.M. 24 dicembre 1993, vigente dal 1 gennaio 1994 in ragione dell’accordo doganale e di cooperazione che, stipulato a Bruxelles il 16 dicembre 1991, lega l’Unione europea e la stessa Repubblica di San Marino.
Gli acquisti di merce di provenienza sammarinese sono fiscalmente regolati o con il versamento dell’IVA alla ditta fornitrice in San Marino oppure con l’autofatturazione.
Nella specie, gli elenchi erano suscettibili di veicolare altrettanti indizi di prestazioni realmente eseguite dalla ditta che ivi appare come fornitrice della merce; al contempo essi apparivano idonei a palesarsi quali indici rivelatori di ricavi per rivendita delle merci da parte del dettagliante che vi compare quale acquirente.
Nel pretendere la prova del maggior reddito unicamente attraverso le fatture e i documenti di accompagnamento, negando agli elenchi ritualmente forniti all’autorità italiana dall’autorità straniera un valore probatorio, sia pure indiziario, la contribuente non tiene conto del fatto che l’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 consente al Fisco di avvalersi di “altri dati o documenti in possesso dell’Ufficio”. Da detto disposto si evince come l’elencazione degli atti su cui basare la presunzione di reddito non costituisca un numero chiuso. Proprio dal disposto di questa norma si ricava che l’erario ben può considerare come utilizzabili ai fini dell’accertamento gli elenchi dei fornitori trasmessi dalla Repubblica di San Marino in quanto indicativi di una prestazione ricevuta dal soggetto destinatario dell’accertamento. In altri termini, non può negarsi in linea di principio che detti elenchi possano integrare un elemento utile a presumere, date le circostanze del caso concreto, che la prestazione è stata effettivamente posta in essere e retribuita.
Ciò comporta, contrariamente all’assunto difensivo della società contribuente, la legittima operatività delle presunzioni di acquisto e di occultamento di successivi ricavi, ai sensi degli artt. 53 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Non coglie nel segno, la porzione della censura di parte ricorrente tesa a contestare la valorizzabilità degli elenchi ai fini del recupero delle imposte dirette e alla incidenza dirimente ascritta all’esibizione delle scritture contabili, che nella prospettiva della contribuente varrebbero a sterilizzare ogni portata probatoria delle risultanze fornite dall’autorità sanmarinese.
Invero, va evidenziato come elenchi si prestino a fornire, in astratto, indicazioni sull’entità dei redditi posto che, ai sensi dell’art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973, nell’accertamento del reddito o del maggior reddito, il fisco può avvalersi “di dati e notizie comunque raccolti”.
Con il terzo motivo di ricorso si contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909, in relazione all’art. 360, n. 1, c.p.c., per avere la CTR trascurato l’incidenza del giudicato esterno formatosi sulle omologhe controversie relative agli anni d’imposta 2004 e 2005.
Il motivo è infondato.
È sufficiente richiamare l’indirizzo più volte espresso dalla nomofilachia secondo cui “Nel processo tributario, l’effetto vincolante del giudicato esterno, in relazione alle imposte periodiche, opera soltanto quando riguardi fatti integranti elementi costitutivi della fattispecie, i quali, estendendosi ad una pluralità di periodi di imposta, abbiano carattere tendenzialmente permanente o pluriennale, non anche quando risolva la controversia sotto il profilo formale dell’atto opposto o attenga a elementi variabili, destinati a modificarsi nel tempo” (Cass. n. 5766 del 2021; Cass. n. 25516 del 2019). Infatti, laddove da un’unica fonte scaturiscano poste attive o passive differenti anno per anno, il giudicato coinvolge soltanto quella specifica annualità che costituisca oggetto del giudizio, e non si riflette sulle altre, articolandosi in maniera diversa gli elementi di fatto, ed essendo identica solo la questione giuridica che consente di risolvere il caso concreto (Cass. n. 15690 del 2017).
Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità sono regolate dalla soccombenza e liquidate nella misura espressa in dispositivo.
Per questi motivi
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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