Corte di Cassazione sentenza n. 18284 del 25 ottobre 2012
RAPPORTO DI LAVORO – INDENNITA’ SOSTITUTIVA DEI RIPOSI SETTIMANALI – TURNI DI LAVORO DI SETTE GIORNI CONSECUTIVI – NATURA RETRIBUTIVA DEL COMPENSO DEL LAVORO DOMENICALE
massima
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La prestazione effettuata nel settimo giorno consecutivo di lavoro, con riposo compensativo ricadente nel giorno successivo, esige, per la sua particolare onerosità, uno specifico compenso che, trovando causa nello stesso rapporto di lavoro, ha natura di retribuzione e non risarcitoria o di indennizzo, ed è differenziato da quello – pure spettante – del lavoro prestato nel giorno di domenica (Cass. civ., Sez. lavoro, 04/02/2008, n. 2610); alla sua determinazione – in mancanza di una espressa previsione del contratto collettivo – provvede il giudice sulla base di una motivata valutazione che tenga conto dell’onerosità della prestazione lavorativa ed applicando come parametro anche eventuali forme di retribuzione normativamente previste per istituti affini, quale il compenso del lavoro domenicale.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
F.M., quale dipendente della Banca Nazionale del Lavoro con mansioni di custode-guardiano, ha svolto prestazioni di vigilanza diurna e notturna mediante turni di lavoro che si protraevano anche oltre il sesto giorno di lavoro consecutivo.
Stante l’assenza di specifiche previsioni nella normativa collettiva applicabile ratione temporis (anni 1983/1986), adiva il Pretore di Roma per ottenere il pagamento di un compenso per le prestazioni tese di domenica e nel cd. settimo giorno. Per il primo titolo, rivendicava il pagamento della somma di lire 1.020.000, in applicazione analogica della maggiorazione che il successivo CCNL (1987) aveva introdotto per la prestazione effettuata nella giornata di domenica nel caso in cui detta giornata non coincida con quella destinata al riposo settimanale (compenso pari al 20% della paga oraria); per il secondo titolo, rivendicava il pagamento della somma di lire 6.720.000, determinata in misura pari alla retribuzione di due giornate in più alla settimana, oltre alla maggiorazione per la prestazione straordinaria.
In primo grado la domanda veniva respinta; in secondo grado, il giudice di appello riteneva che il ricorso fosse alletto da nullità.
La sentenza formava oggetto di ricorso per cassazione del F. La sentenza impugnata veniva cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, per un nuovo esame della causa.
Con sentenza del 18 aprile 2008 la Corte territoriaie, in parziale accoglimento dell’appello ed in riforma della sentenza di primo grado, condannava la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. al pagamento, in favore di F.M., della somma complessiva di € 1.047,37, oltre accessori, a titolo di compensi per lavoro domenicale e per lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo (periodo 1983/1986). Il parametro applicato dal giudice di appello per la liquidazione equitativa era individuato nella maggiorazione del 20% della retribuzione ordinaria, percentuale stabilita dalla successiva contrattazione collettiva (CCNL del 1987) per il solo lavoro domenicale. Il medesimo parametro era applicato anche per il lavoro prestato nel cd. settimo giorno.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione F.M. per chiederne l’annullamento limitatamente al punto vertente sulla misura del compenso riconosciuto per la prestazione lavorativa resa nel cd. settimo giorno.
Resiste con controricorso la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., che ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, si denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, anche con riferimento al disposto di cui alla legge n. 370 del 22.2.1934. Premesso che il riposo settimanale deve necessariamente cadere – fatte salve le deroghe normativamente previste per particolari settori e/o attività produttive – dopo un ciclo lavorativo non superiore a sei giorni, argomenta il ricorrente che il corrispettivo dovuto per la mancata fruizione del riposo nell’arco di sette giorni non può essere commisurato all’incremento retributivo determinato in base al medesimo parametro individuato per compensare il lavoro domenicale, poiché questo è stabilito in funzione di un lavoro prestato per sei giorni su sette. Contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, egli non aveva mai dedotto di avere fruito regolarmente del riposo settimanale, pur spostato oltre il settimo giorno consecutivo di lavoro, né aveva affermato di r.on avere mai superato l’orario normale di lavoro settimanale. Costituiva un argomento presuntivo, non debitamente considerato, l’articolazione del turno su sette anziché su sei giorni lavorativi, dovendo in tal caso moltiplicarsi per sette l’orario di lavoro giornaliero, per un totale di 49 ore settimanali. Era dunque omessa o comunque insufficiente la motivazione laddove aveva disatteso la rivendicazione del compenso parametrato a due giornate di lavoro, una per il ripeso non goduto e l’altra per il lavoro prestato in misura eccedente il sesto giorno, oltre la maggiorazione dovuta per il lavoro straordinario.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce omessa motivazione, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e del combinato disposto di cui agli artt. 112 e 416 c.p.c. per avere la Corte di appello ridotto il petitum senza ammettere la consulenza tecnica contabile d’ufficio richiesta dall’appellante e per avere pronunciato ultrapetita in mancanza di una specifica contestazione di parte appellata in ordine al quantum debeatur. Formula due quesiti di diritto con cui chiede a questa Corte, rispettivamente, di affermare se, in corretta applicazione dell’art. 115 c.p.c., allorché sussiste incertezza sull’esatta quantificazione del petitum, il giudice di merito sia tenuto ad ammettere consulenza tecnica d’ufficio espressamente richiesta dalla parte e se, sulla scorta del combinato disposto di cui agli artt. 112 e 416 c.p.c., il giudice, nel caso di mancata contestazione del quantum da parte del convenuto, sia legittimato a ridurre la pretesa, pur analiticamente quantificata nell’atto introduttive.
Entrambi i motivi sono infondati.
L’ipotizzata prestazione lavorativa della durata di 49 ore settimanali avrebbe dovuto costituire oggetto di una specifica allegazione di fatto, che però non risulta essere stata formulata nell’atto introduttivo, poiché la sentenza non ne fa menzione (ed anzi espressamente riferisce che tale allegazione è mancata) e il ricorrente per cassazione non ha indicato in quale atto o parte di atto la questione venne introdotta in giudizio.
Stesse considerazioni devono svolgersi per l’allegazione della mancata fruizione del riposo settimanale spostato oltre il settimo giorno. Il ricorrente omette del tutto di segnalare in quale parte del ricorso avrebbe svolto tale deduzione, consistente nella mancata fruizione del riposo settimanale per effetto della prestazione resa per oltre sei giorni consecutivi.
La causa petendi dell’azione proposta richiedeva l’allegazione, prima, e la dimostrazione, poi, delle relative circostanze di fatto giustificative. La questione rimanda alle prescrizioni del contenuto del ricorso di legittimità.
Qualora una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dare modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. n. 6254 del 2004, n. 22540 del 20.10.2006; n. 12992 del 27.5.2010). In tema di ricorso per cassazione, gli elementi dedotti con il ricorso, che non siano rilevabili d’ufficio, assumono rilievo in quanto siano stati ritualmente acquisiti nel dibattito processuale nella loro materiale consistenza, nella loro pregressa deduzione e nella loro processuale rilevanza, quale potenzialità probatoria che consenta di giungere ad una diversa soluzione, ed in sede di legittimità siano rievocati in nodo autosufficiente (Cass. n. 1707 del 23.1.2009, n. 6361 del 19.3.2007) .
Nel motivo in esame è fatto, per contro, solo un generico rinvio agli acti del giudizio di merito; nessun puntuale riferimento ai termini esatti delle sottostanti allegazioni di fatto rilevanti. Ne consegue che il motivo di ricorso con cui è dedotta un’omessa pronunzia risulta del tutto inadeguato all’onere di specificità sopra richiamato, imposto dall’art. 365 c.p.c., n. 4 in relazione al principio dell’autosufficienza del ricorso e, pertanto, sotto il profilo in esame, il motivo è evidentemente inammissibile per novità della questione.
Né il superamento dell’orario normale di lavoro potrebbe desumersi – come preteso dal ricorrente – dall’articolazione della prestazione su sette anziché su sei giorni lavorativi. Nel caso in cui un turno abbia termine nel giorno successivo a quello di inizio – come avviene nella guardiania notturna-, la prestazione occupa, nel suo svolgimento, due giorni lavorativi, ma ciò può avvenire anche senza (che sia richiesto) un incremento della durata complessiva della prestazione giornaliera in relazione al turno di lavoro assegnato e dunque senza alcuna variazione dell’orario lavorativo settimanale.
La richiesta di un compenso parametrato a due giornate di lavoro allude alla spettanza di un ulteriore riposo che si assume dovuto per la prestazione resa nel settimo giorno, senza che nella presente controversia sia stata contestata la legittimità dell’articolazione della prestazione su sette giorni, ponendosi solo la questione del compenso dovuto per il sacrificio, al quale il prestatore è soggetto, di dovere spostare il riposo settimanale oltre il settimo giorno.
La sentenza è poi congruamente motivata in ordine al parametro adottato per la liquidazione – individuato sul presupposto dell’invarianza dell’orario lavorativo settimanale e della effettiva fruizione del riposo spostato oltre il settimo giorno – in mancanza di una espressa previsione della contrattazione collettiva ratione temporis applicabile.
Lo stesso ricorrente ha indicato, per l’altra voce della sua rivendicazione, la maggiorazione prevista dalla successiva contrattazione collettiva per il lavoro domenicale ove detta giornata non coincida con quella destinata al riposo settimanale, pari ad un compenso commisurato al 20% della paga oraria (art. 76 CCNL del 1987).
Tale criterio, applicato in via parametrica alla fattispecie sia per il lavoro domenicale, sia per la prestazione lavorativa del cd. settimo giorno è congruo e rispetta i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia, anche in relazione all’art. 5 della legge 22 febbraio 1934 n. 170.
Come affermato dalla Corte Costituzionale (v. C.Cost. n. 101/1975, cfr. C Cost. n. 65/1973, n. 146/1971 e n. 150/1967) “col termine “riposo settimanale” il Costituente intese esprimere sostanzialmente il concetto della periodicità del riposo, nel rapporto di un giorno su sei di lavoro senza con ciò escludere la possibilità di discipline difformi in relazione alla diversa qualità e alla varietà dei tipi del lavoro, sempre che si tratti di situazioni idonee a giustificare un regime eccezionale, con riguardo ad altri apprezzabili interessi, e comunque non vengano superati i limiti di ragionevolezza sia rispetto alle esigenze particolari della specialità del lavoro, sia rispetto alla tutela degli interessi del lavoratore soprattutto per quanto riguarda la salute dello stesso”.
Il lavoro prestato oltre il settimo giorno determina “non solo, a causa della prestazione lavorativa nel giorno di domenica, la limitazione di specifiche esigenze familiari, personali e culturali alle quali il riposo domenicale è finalizzato, bensì una distinta ulteriore “sofferenza”: la privazione della pausa destinata al recupero delle energie psico-fisiche (il fondamento di questa esigenza di recupero è da ricercare in una cadenza che – anche ove non si ritenga di risalire alla T. – è inscritta, come fatto lungamente protrattosi nel tempo, nella nostra coscienza e nella nostra biologia)” (Cass. n. 2610 del 4.2.2008).
Nell’ipotesi di protrazione del lavoro oltre il sesto giorno, l’indicata “sofferenza” del lavoratore esige tuttavia un compenso dell’oggettivo onere che, anche per il suo “valore marginale”, la prestazione esige. Poiché l’onerosità è nella stessa prestazione in quanto effettuata dopo il sesto giorno consecutivo di lavoro, il relativo compenso non è (quantomeno non integralmente) dato da un riposo compensativo riconosciuto dopo il settimo giorno (in quanto tale riposo non coincide con il riposo nel settimo giorno) (cfr. Cass. n. 2610 del 2008 cit.).
In ordine alla natura giuridica che questo compenso assume, è stato escluso che esso costituisca un indennizzo o un risarcimento, dovendo piuttosto riconoscersi la sua natura retributiva (Cass. n. 2610 del 2008; conf., Cass. n. 12318 del 7.6.2011), con soluzione qui condivisa e ribadita.
E’ da escludere che il compenso abbia natura di indennizzo (come invece ritenuto da Cass. 16 luglio 2002 n. 10334) poiché questo presuppone generalmente l’assenza d’uno specifico precostituito rapporto fra le parti nell’ambito del quale l’evento sorge, mentre la “sofferenza” di cui si discute è diretta conseguenza dello specifico rapporto lavorativo. Ugualmente, è da escludere che il compenso costituisca il risarcimento d’un danno (come ritenuto da Cass. Il aprile 2007 n. 8709), stante la legittimità (in quanto normativamente prevista) della continuativa protrazione della prestazione nel settimo giorno. Il compenso non è nemmeno retribuzione di lavoro straordinario (per tale conclusione, Cass. 19 maggio 2004 n. 9521), trovando causa non nell’onerosità della protrazione dell’orarie giornaliero, bensì nella distinta particolare onerosità della prestazione effettuata dopo il sesto giorno consecutivo di lavoro (v. Cass. n. 2610 del 2008, conf. Cass. n. 12318 del 7.6.2011).
In conclusione, il compenso ha natura di retribuzione dell’onerosità della specifica prestazione.
Tale compenso può essere previsto dalla stessa norma collettiva e, ove la norma collettiva non lo preveda, questo deve essere determinato dal giudice, attraverso integrazione della norma (che, avendo per oggetto la specificazione delle legittime “conseguenze” del contratto, ha il suo fondamento nell’art. 1374 c.c.), sulla base d’una motivata valutazione che tenga conto dell’onerosità della prestazione lavorativa, e di eventuali forme di compensazione normativamente previste per istituti affini, quale il compenso del lavoro domenicale, od altro (Cass. n. 2610 del 2008).
Nella particolare fattispecie, la contrattazione collettiva del settore non aveva previsto alcuna maggiorazione né per il lavoro domenicale né per l’attività lavorativa prestata nel settimo giorno nel periodo fino al 30.4.1987 e successivamente, con l’entrata in vigore dei nuovo CCNL, aveva previsto una maggiorazione pari al 20% della paga oraria per il solo lavoro domenicale (art. 76).
La Corte di appello ne ha dato atto, come pure ha riferito della inesistenza di altre clausole che prevedessero una qualche forma di remunerazione indiretta volta compensare il disagio del lavoro prestato di domenica e nel settimo giorno di lavoro.
Se la normativa collettiva successiva ha ritenuto di individuare nella suddetta maggiorazione un valido criterio remunerativo per la prestazione di lavoro domenicale {non coincidente con il riposo settimanale), la medesima ratio è ravvisabile nella prestazione lavorativa del cd. settimo giorno, in entrambi i casi il compenso è diretto a remunerare la particolare “onerosità” o “penosità” del lavoro prestato, in un caso, con sacrificio degli interessi personali e familiari connessi alla mancata fruizione della domenica, nell’altro con il sacrificio di chi si trovi costretto a differire il riposo settimanale oltre la normale cadenza di sei giorni lavorativi, per effetto della prestazione resa nel settimo giorno, ma pur sempre con successiva fruizione del riposo compensativo.
D’altra parte anche nel precedente giurisprudenziale richiamato (Cass. n. 2610/2008 cit.) e qui condiviso, è stato espressamente osservato che, ove la normativa collettiva non lo preveda, questo specifico compenso può essere individuato alla stregua di eventuali forme di compensazione normativamente previste per istituti affini, indicando tra questi il compenso per lavoro domenicale.
Il parametro costituito dal compenso previsto per il lavoro domenicale è stato, dunque, già indicato da questa Corte quale valido criterio da assumere per una valutazione equitativa del quid pluris dovuto al lavoratore per il disagio insito nella prestazione lavorativa resa nel settimo giorno.
Il ricorrente allude, infine anche ad una protrazione del lavoro oltre la cadenza dei riposi fissata contrattualmente, ma tale questione, che implica un ulteriore tema di indagine e della quale non si indica la sede processuale in cui sarebbe stata introdotta, difetta di specificità e viola il principio dell’autosufficienza del ricorso di cui all’art. 366 n. 6 c.p.c. La stessa è dunque nuova ed inammissibile.
Con il secondo motivo, si lamenta la mancata ammissione di una c.t.u. contabile diretta a verificare l’esattezza dei criteri di quantificazione indicati dall’appellante e si deduce altresì il vizio di ultrapetizione, stante la mancata specifica contestazione di parte appellata in ordine al quantum debeatur.
Le censure non hanno fondamento.
La questione controversa non atteneva alla misura del compenso con specifico riguardo alla esattezza del calcolo del dovuto, ma al criterio da assumere corno parametro di riferimento per una liquidazione equitativa del compenso. E’ evidente che a siffatto quesito giammai avrebbe potuto rispondere un consulente tecnico d’ufficio, trattandosi di un’operazione valutativa rimessa esclusivamente all’apprezzamento del giudice di merito, cui era demandato il compito di individuare il parametro più congruo tra quelli accostabili per analogia alla fattispecie dedotta in giudizio.
Né sussiste il vizio di ultrapetizione che si assume essere contenuto nella sentenza impugnata per avere la Corte di appello pronunciato oltre i limiti segnati dal potere dispositivo delle parti, stante l’assenza di specifiche contestazioni di parte convenuta circa i criteri della quantificazione proposta dal ricorrente.
Il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato può ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alter: alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso/ nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti; ne consegue che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate (Cass. n. 22595 del 26.10.2009, con la quale è stata confermata la sentenza di appello, che aveva ritenuto che la richiesta di riduzione della somma già riconosciuta dal primo giudice in favore dell’attore fosse implicitamente contenuta nell’originaria richiesta di rigetto della domanda attrice e nella integrale contestazione delle pretese della medesima).
Il giudice di appello, nella fattispecie in esame, si è mantenuto nell’ambito del “petitum”. Inoltre, nella richiesta di rigetto della domanda e nella contestazione di tutte le pretese fatte valere dall’originario ricorrente, formulata dalla parte resistente, doveva ritenersi contenuta, sia pure implicitamente, l’ulteriore difesa di merito intesa ad una riduzione della somma da riconoscersi al ricorrente, nell’ipotesi in cui la domanda fosse ritenuta fondata.
Il ricorso va dunque respinto e, per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., celle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, Euro 2.000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA.
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