CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 settembre 2013, n. 20278
Tributi – IRPEF – Accertamento – Metodo induttivo – Studi di settore – Scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” – Valide motivazioni – Crisi finanziaria e familiare – Esclusione applicabilità degli studi di settore
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 82 5/4 0/2005 del 14/10/2 005, depositata in data 27/12/2005, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, Sez. Staccata di Latina, rigettava, con compensazione delle spese di lite, l’appello proposto, in data 8/08/2003, dall’Agenzia delle Entrate Ufficio Formia, avverso la decisione n. 825/40/2005 della Commissione Tributaria Provinciale di Latina, che aveva accolto il ricorso di Di S. G. contro un avviso di accertamento, con il quale, in applicazione dei parametri previsti dal D.P.C.M. 29/01/1996, come modificato dal D.P.C.M. 27/03/1997, era stato elevato il reddito d’impresa dichiarato, nel 1996, per l’anno d’imposta 1995.
La Commissione Tributaria Regionale respingeva il gravame dell’Agenzia delle Entrate, in quanto rilevava che, nella fattispecie, l’accertamento induttivo difettava “di precisione, concordanza oltre di gravità, in considerazione che il ricorrente versava in una gravissima crisi finanziaria derivante da altrettanti gravi problemi familiari” (la necessità per il contribuente di seguire il percorso riabilitativo un figlio tossicodipendente), problemi che, distogliendo il Di S. da “una corretta cura dei propri interessi economici e da una sana e serena conduzione dei propri affari”, avevano “messo a rischio la stessa esistenza della piccola azienda a conduzione familiare (un piccolo bar) condotta a Gaeta”, la cui attività era poi cessata (successivamente alla procedura esecutiva attivata dalla Banca mutuante) nell’anno 2002. Avverso tale sentenza ha promosso ricorso per cassazione (notificato al contribuente in data 12/02/2007) l’Agenzia delle Entrate, deducendo due motivi, per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ex art.360 n. 3 c.p.c, in relazione all’art.3 comma 181 della l. 549/1995 (avendo i giudici tributari, di fatto, posto a carico dell’Ufficio, l’onere di dovere provare la legittimità dell’utilizzo dei parametri, laddove era il contribuente, il quale non aveva neppure risposto all’invito notificatogli nel giugno 2000, per fornire dati ed informazioni utili, a dovere fornire giustificazioni circa lo scostamento del reddito dichiarato da quello risultante dalla ricostruzione presuntiva), e per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art.360 n. 5 c.p.c. (non avendo la C.T.R. spiegato come la crisi finanziaria e personale del contribuente avesse potuto influire sull’attività svolta nell’anno d’imposta 1995). Non ha resistito il contribuente con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia, sotto il vizio di violazione di legge della sentenza impugnata, la non corretta applicazione della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181 ss., affermando essenzialmente che il valore presuntiva dei parametri determini un inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale dovrà provare le ragione del suo mancato adeguamento ai limiti previsti dallo strumento accertativo. Il motivo non è fondato.
Questa Corte ha chiarito che la procedura di. accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema dì presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere dì provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo dì tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (cfr. Cass. S.U. 26635/2009, Cass. 12558/2010, Cass.12428/2012, Cass.23070/2012) . In termini di onere della prova, nella citata sentenza delle Sezioni unite, si è affermato, schematicamente, che “l’onere della prova (…) è cosi ripartitola) all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’ applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto dell’accertamento/ b) al contribuente (…) fa carico la prova della sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo cui l’accertamento si riferisce”.
Come successivamente precisato ulteriormente da questa Corte (Cass.3312/2011), il fine e l’effetto del principio dì diritto affermato delle Sezioni Unite è stato quello di porre in luce l’importanza del contraddittorio, non solo nel processo ma anche nella realtà, quale strumento principale di verificazione o falsificazione della corrispondenza tra realtà e sua rappresentazione, in quanto proprio “in sede di contraddittorio – il quale può avvenire già in fase amministrativa, ma anche e soprattutto nel giudizio – il contribuente potrà in primo luogo dedurre e dimostrare che i parametri utilizzati sono in sé erronei perché sono basati su elementi fattuali non corrispondenti alla realtà o su criteri di elaborazione e di inferenza illogici” e potrà quindi chiedere l’annullamento del provvedimento che li ha approvati ovvero dedurre e dimostrare che l’Ufficio impositore è incorso in errore operativo nell’applicare i parametri alla sua realtà ovvero ancora dedurre o l’estraneità della propria attività rispetto alla tipologia alla quale quei parametri intendono riferirsi o la sussistenza, nella propria attività di caratteri per così dire anormali, cioè di elementi che la diversificano rispetto a quelle in riferimento alle quali è stata individuata la normalità reddituale. Ove il contribuente, pur essendo stato messo in condizione di dedurre, nulla dice, legittimamente “l’Ufficio impositore prima e il giudice poi non avranno elementi per escludere che l’attività in questione sia un’attività “normale” ed abbia quindi una redditività normale”; ove il contribuente prospetti, invece, la sussistenza di circostanze di fatto, tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, “spetterà all’ufficio prima e al giudice poi valutare in primo luogo se tali circostanze sono vere e poi se esse possono essere effettivamente idonee a “giustificare” un reddito inferiore a quello che sarebbe normale e quindi presuntivamente vero in assenza di esse”. In sostanza, i parametri previsti dall’art. 3, commi da 181 a 187, 1. 28 dicembre 1995 n. 549, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica dì una pluralità dì dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio de1l’accertamento analitico-induttivo ex art. 39, comma 1, lett. d, DPR 29 settembre 1973 n. 600, e, soltanto ove siano stati contestati, in sede di contraddittorio con il contribuente, sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare da soli l’accertamento medesimo, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa.
Nella fattispecie, vertendosi in ipotesi nella quale, come si evince dal ricorso, il contribuente non aveva risposto all’invito dell’Ufficio impositivo al contraddittorio, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate sostiene la sufficienza del solo “scostamento” dei redditi dichiarati rispetto a quelli risultanti dall’ applicazione dei parametri ai fini della legittima rideterminazione dei reddito del contribuente, attribuendo esclusivamente a quest’ ultimo ogni onere probatorio.
Ed effettivamente, proprio alla luce dei principi di diritto espressi da questa Corte a Sezioni Unite, il contribuente ha comunque, in sede di giudizio, fornito, all’Ufficio ed al giudice, circostanze di fatto specifiche, al fine di “giustificare” un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale e quindi presuntivamente vero in assenza di esse, circostanze che dovevano essere vagliate in rapporto agli elementi presuntivi posti a base dell’ accertamento e che sono state valutate dai giudici tributari come idonee ad escludere quelle condizioni di normalità necessarie per l’inserimento dì un’impresa nell’area dei soggetti ai quali possono essere applicati gli standards previsti dall’utilizzo dei parametri. Il secondo motivo, involgente vizio di motivazione, è del pari infondato.
Invero, poiché la controversia verteva sui maggiori ricavi accertati dall’Ufficio, per i quali il contribuente, già previamente, senza esito, invitato al contraddittorio nella endoprocedimentale, aveva addotto, in giudizio, dì non averli realmente incassati nell’anno di imposta oggetto dell’accertamento (1995), il giudice tributario ha accertato il fatto che il contribuente versava, da anni, in una grave crisi personale, familiare e finanziaria, che lo avrebbe poi portato successivamente, nell’anno 2002, a cessare l’attività. Giova ribadire che il vizio di omessa motivazione sussiste quando nella motivazione non sia chiaramente illustrato il percorso logico seguito per giungere alla decisione e non risulti comunque desumibile la ragione per la quale ogni contraria prospettazione sia stata disattesa.
Soltanto genericamente l’Agenzia contesta tale accertamento sotto il profilo motivazionale, con conseguente infondatezza del motivo. La Corte rigetta il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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