CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 ottobre 2013, n. 22845
Tributi – Imposta di successione – Passività esistenti ma indeducibili – Disconoscimento passività – Legittimità – Poteri di liquidazione dell’imposta in base alla dichiarazione
Svolgimento del processo
(…) e (…) impugnavano un avviso di liquidazione dell’imposta di successione in morte di (…) L’adita commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso con sentenza confermata, in appello, dalla commissione tributaria regionale del Lazio.
Il giudice d’appello, premettendo che l’ufficio aveva riconosciuto spettante la detrazione di una delle dichiarate passività, ma non di un’altra (per somma minore) in quanto asseritamente non supportata da adeguata documentazione giustificativa, ha confermato la decisione così motivando: “nell’appello presentato, l’ufficio non documenta quanto asserito e pertanto la commissione non è posta nelle condizioni di modificare la sentenza già emanata”.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi.
Gli intimati hanno replicato con controricorso.
Motivi della decisione
I. – Col primo motivo deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 27, 33 e 34 del d.p.r. n. 346 del 1990, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., l’amministrazione afferma doversi ritenere legittima la liquidazione dell’imposta di successione ancorché non corredata dall’analitica esposizione dei presupposti di fatto e delle ragioni di diritto dell’imposizione, ove il contribuente sia stato posto, tuttavia, nelle condizioni di poter contraddire alla pretesa dimostrando l’asserita fondatezza di passività esposte in dichiarazione. Col secondo motivo, deduce invece l’omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione della sentenza (art. 360, n. 5, c.p.c.), per non avere la commissione tributaria regionale sulla base delle risultanze accertato che nel corso del giudizio l’ufficio “aveva dato opportuna e pubblica conoscenza ai contribuenti della loro nuova e ridotta esposizione debitoria (..), comunicando tali eventi mediante gli atti di causa depositati in giudizio e scambiati col legale avversario”.
Col terzo motivo, infine, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 22, 23, 24 del d.p.r. n. 346 del 1990, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la ricorrente assume che l’ufficio non era tenuto a emettere un nuovo avviso di liquidazione d’imposta quando avesse come nella specie riconosciuto che una parte delle passività erano da ritenere ammissibili, e insistito per la legittimità della residua esclusione di altra passività.
II. – I motivi, unitariamente considerati, si rivelano inammissibili perché non calibrati sulla ratio decidendi della sentenza impugnata.
Come la ricorrente riferisce, la controversia trae sostanza dal fatto che l’ufficio, pur avendo riconosciuto spettante la detrazione di una delle inizialmente contestate passività, esposte in dichiarazione di successione, aveva insistito per l’indeducibilità di un’altra passività (per euro 18.816,99) eccependo che questa non era stata supportata da adeguata documentazione giustificativa.
La sentenza ha respinto l’appello affermando che l’ufficio, in rapporto alla passività esclusa, non aveva documentato il proprio assunto, e quindi non aveva assolto all’onere probatorio.
Tale ratio si basa sull’implicita, benché infondata, considerazione di un criterio di ripartizione dell’onere della prova difforme dal modello legale.
Può invero considerarsi incontroverso che si verteva in tema di passività ritenute indeducibili, ma “esistenti”. Difatti, seppure in base agli scarni riferimenti di cui all’odierno ricorso, può arguirsi che l’ufficio aveva provveduto alla mera liquidazione dell’imposta ritenuta dovuta, e non al recupero per infedele dichiarazione. In forza della previsione di cui al d.lgs. n. 346 del 1990, art. 33, 2° co., il disconoscimento di passività meramente indeducibili (ma “esistenti”) deve essere giustappunto compiuto dall’amministrazione finanziaria nell’esercizio dei suoi poteri di liquidazione dell’imposta in base alla dichiarazione; mentre, altrimenti, si sarebbe dovuto procedere con lo strumento dell’avviso di rettifica e liquidazione di maggiore imposta, regolato, dal d.lgs. n. 346 del 1990, art. 34, per la diversa ipotesi di dichiarazione incompleta o infedele (v. cass. n. 24548-07).
III. – Dunque trattavasi, secondo l’asserto, di passività esistenti, sebbene indeducibili.
Ora, in casi simili, l’art. 23 del d.lgs. n. 346 del 1990 pone l’onere dimostrativo delle condizioni di deducibilità in capo ai contribuenti.
Ciò nondimeno, la commissione tributaria regionale ha reso la decisione affermando che l’ufficio non aveva documentato il proprio assunto quanto all’indeducibilità della passività suddetta, nell’implicita – ma evidente -condivisione di un criterio di ripartizione dell’onere della prova difforme dal modello legale.
Consegue che è questa la ratio decidendo che avrebbe dovuto essere censurata.
Di contro i motivi non si rivelano a essa pertinenti, essendo stati incentrati su profili astratti e distinti dall’unico sul quale la commissione tributaria regionale ha fatto leva.
IV. – inevitabile quindi è il rigetto del ricorso.
Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in euro 2.200,00, di cui euro 2.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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