CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 dicembre 2013, n. 28254
Tributi – Accertamento – Induttivo – Medie di settore – Utilizzabilità
All’esito delle verifiche fiscali condotte nei confronti della società L.V. s.r.l., che culminavano con la redazione del PVC in data 16.12.1999, l’Ufficio di Bari della Agenzia delle Entrate emetteva due avvisi di accertamento con i quali rettificava la dichiarazione annuale IVA e la dichiarazione ai fini IRPEG ed ILOR presentate dalla società per l’anno 1997, rideterminando i redditi imponibile ed il volume di affari mediante applicazione sul costo del venduto di una percentuale media ponderata di ricarico pari al 92,41%, ridotta al 70% in considerazione delle dichiarazioni rese dall’amministratore della società in ordine agli sconti praticati alla clientela nella misura del 20% nei periodi ordinari e fino al 30-40% a fine stagione.
Entrambi gli avvisi venivano impugnati dalla società i cui ricorsi all’esito di distinti giudizi erano accolti integralmente dalla sentenza n. 28/2004 e parzialmente dalla sentenza n. 127/2004 della CTP di Bari, entrambe integralmente riformate -previa riunione degli appelli proposti dall’Ufficio finanziario e dell’appello incidentale della società- dalla Commissione tributaria della regione Puglia con sentenza 19.12.2006 n. 108.
I Giudici di appello ritenevano infondato il rilievo della contribuente -fatto proprio dalle decisioni impugnate- concernente la erronea determinazione della percentuale di sconto, osservando che tale percentuale era stata calcolata con criterio equitativo-prudenziale dai verbalizzanti ed applicata sul ricarico determinato analiticamente raffrontando il prezzo di acquisto e quello esposto al pubblico di tutti i capi presenti nell’esercizio ad eccezione di quelli oggetto di vendite a stock, in conseguenza dovendo ritenersi corretto il metodo adottato dall’Ufficio.
Avverso tale sentenza ha proposto rituale ricorso per cassazione la società deducendo tre motivi corredati di quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c.
Ha resistito con controricorso la Agenzia delle Entrate.
La società ha depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la società censura la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione degli artt. 324, 342, 112 c.p.c. in relazione agli artt. 360 co l n. 3 e n. 4 nonché per vizio logico della motivazione in relazione all’art. 360 co 1 n. 5 c.p.c., in quanto i Giudici di merito non avrebbero rilevato che i motivi di gravame proposti dedotti dall’Ufficio appellante erano privi de! requisito di specificità.
Il motivo è infondato.
Occorre premettere che l’art. 53 comma 1 Dlgs n. 546/92 -relativamente al processo tributario- dispone che l’atto di appello deve contenere, a pena di inammissibilità, la esposizione sommaria dei fatti, l’oggetto della domanda ed “I motivi specifici della impugnazione.”
In assenza di puntuali definizioni del grado di specificità dei motivi desumibili dalla speciale disciplina normativa del rito tributario, che si limita, peraltro, a recepire lo stesso requisito previsto per l’atto di appello dalla disciplina del processo civile (cfr. art. 342 c.p.c.), occorre richiamare i principi enucleabili dalla consolidata giurisprudenza formatasi in materia: impugnazione, la cui specifica indicazione è richiesta, ex artt. 342 e 434 cod. proc. civ. per l’individuazione dell’oggetto della domanda d’appello e per stabilire l’ambito entro il quale deve essere effettuato il riesame della sentenza impugnata (Corte cass. IlI sez. 16.5.2006 n. 11372) il requisito di specificità della critica rivolta alla decisione impugnata non può, pertanto, che essere correlato alle argomentazioni addotte dal giudice di primo grado, poiché non è possibile una contestazione specifica di conclusioni non fondate su basi specifiche (Corte cass. Il sez. 31.3.2010 n. 7786), con la conseguenza che se, da un lato, il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale ed assoluta, dall’altro lato, esso esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime (Corte cass. IlI sez. 18.4.2007 n. 9244; sez. lav. 19.2.2009 n. 4068);
– attraverso i motivi di appello il giudice del gravame deve, quindi, essere posto in grado non solo di identificare i punti impugnati, ma anche le ragioni di fatto e di diritto in base alle quali viene richiesta la riforma della pronuncia di primo grado (Corte cass. Il sez. 19.10.2009 n. 22123): tali ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno dell’appello, possono sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice (Corte cass. SU 25.11.2008 n. 28057), con la conseguenza che il mero richiamo alle argomentazioni in fatto e diritto svolte negli atti difensivi in primo grado risponde al grado di specificità richiesto soltanto nel caso in cui la sentenza impugnata non abbia esplicitamente confutato le predette argomentazioni. Ove invece il giudice di primo grado abbia esaminato tali questioni sviluppando la propria argomentazione logica sui singoli punti, l’appello deve confutare esplicitamente la relativa motivazione e non limitarsi al semplice rinvio ad istanze e difese sviluppate in precedenza (Corte Cass. Sez. Trib. 9.10.2007 n. 22692).
Tanto premesso le sentenze emesse dal Giudice di primo grado hanno argomentato l’annullamento degli atti impositivi ritenendo che doveva ritenersi condivisibile il rilievo della contribuente secondo cui lo sconto alla clientela deve essere applicato sul prezzo di listino delle merce venduta e non sulla percentuale di ricarico, concludendo per la erroneità del diverso metodo seguito dai verbalizzanti.
La “ratio decidendi” di entrambe le sentenze della CTP n. 127/2004 e n. 28/2004 era dunque fondata esclusivamente sulla modalità di applicazione della percentuale di sconto e tale argomento di decisione risulta investito da entrambi gli atti di appello proposti dall’Ufficio, laddove: a) nell’atto di impugnazione in data 22.11.2005, si censura la sentenza per difetto di motivazione (in punto di ritenuta erroneità del metodo di calcolo adottato dai verbalizzanti), sicché appare del tutto conforme al requisito di specificità il motivo di gravame volto a riproporre al Giudice del secondo grado gli stessi argomenti difensivi dedotti in primo grado, volti a dimostrare la correttezza dell’operato dei verbalizzanti anche in relazione al metodo di calcolo seguito; b) con l’atto di impugnazione in data 19.54.2005, è stata censurata la “apoditticità” della sentenza di prime cure, e dunque la carenza di logiche argomentazioni (ovvero di un percorso argomentativo verificabile) a supporto della ritenuta erroneità del metodo di calcolo applicato dai verbalizzanti, anche in questo caso, pertanto, assolvendo al requisito di specificità la mera riproposizione delle difese a sostegno della correttezza dell’operato dei verificatori.
Occorre peraltro rilevare che la specificità dei motivi di impugnazione delle sentenze di prime cure, dedotti con gli atti di appello proposti dall’Ufficio, emerge in modo inequivoco dal contenuto degli stessi riportato nelle pag. 2 e 3 del controricorso (contenuto la cui trascrizione è stata omessa, invece, nelle parti virgolettate riportate alle pag. 9 e 10 del ricorso principale), da cui risulta che l’Ufficio aveva espressamente censurato le sentenza sostenendo che, diversamente da quanto erroneamente ritenuto dai primi giudici, i verbalizzanti non avevano ritenuto di applicare alcuno sconto in base alle merce dichiarazioni rese dal legale rappresentate, in quanto prive di qualsiasi riscontro probatorio sull’ “an” e sul “quantum” degli sconti sul prezzo di vendita della merce (gli asseriti sconti praticati alla clientela non risultavano, infatti, contabilizzati, né risultavano indicati negli scontrini o sui documenti commerciali rilasciati al cliente), e quindi, dopo aver determinato analiticamente il ricarico, i verificatori avevano, tuttavia, ritenuto opportuno diminuire prudenzialmente la percentuale di ricarico rilevata, avuto riguardo alla usuale prassi dello specifico settore commerciale di praticare sconti ai clienti. E su tale questione, introdotto con i motivi di gravame, si è, infatti, pronunciato il Giudice di appello, in conformità ai limiti imposti dall’effetto devolutivo del gravame.
Con il secondo ed il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto a sostegno di entrambi vengono sostanzialmente riproposte le medesime argomentazioni critiche, la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 co 2 , 112, 342 c.p.c., degli artt. 1226, 2056, 2697, 27127 e 2729 c.c.; dell’art. 39 Dpr n. 600/73, dell’art. 55 co2 Dpr n. 633/72, in relazione all’art. 360col nn. 3 e 4 c.p.c., nonché vizio logico della motivazione in relazione all’art. 360 co l n. 5 c.p.c..
La ricorrente si duole del metodo di determinazione della percentuale di ricarico seguito dai verbalizzanti. Assume la società ricorrente che il rappresentante legale aveva riferito ai verbalizzanti di praticare, in periodo ordinario, sconti alla clientela del 20%, ed in periodo di saldi fine stagione, sconti variabili tra il 30-40%. I verbalizzanti, tuttavia, avuto riguardo ai predetti sconti, anziché detrarre la percentuale media di sconto dal ricarico pieno lordo (prezzi di listino praticati al pubblico) rilevato nella misura del 92,41%, avevano ritenuto di diminuire prudenzialmente la percentuale di ricarico netto dal 92,41% al 70%, incorrendo quindi in un errore logico nel metodo di accertamento sostituendo al corretto criterio matematico una arbitraria determinazione, in pregiudizio della impresa, della riduzione del volume di affari e del reddito d’impresa accertati (assume infatti la società che, in conseguenza del diverso metodo di calcolo in concreto adottato, lo sconto medio effettivamente considerato dall’Ufficio non era pari, come avrebbe dovuto, al 22,41% -comunque difforme da quello del 23,75% dichiarato dal rapp.te legale- ma soltanto all’11,75%) ed essendo, quindi, inficiata da tale vizio la stessa prova presuntiva del maggiore imponibile e delle relative imposte evase, che risultava carente quanto ai requisiti di precisione e gravità richiesti dall’art. 2729 c.c., essendo stata raggiunta dall’Ufficio con una arbitraria determinazione “equitativa”.
Il motivo, così come sviluppato nella parte argomentativa, viene ad articolarsi: a) nella dedotta violazione di norme di diritto sostanziale (art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.), rivolta precipuamente a contestare i requisiti di legge prescritti per la prova logica dall’art. 2729 c.c., sull’assunto per cui la illegittimità della inferenza probatoria deriverebbe dall’essere fondata su premesse di fatto incerte ed equivoche; b) nella critica alla motivazione della sentenza (art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.), fondata sulla erroneità dei criteri di determinazione dei maggiori ricavi non contabilizzati: nell’ambito di tale censura va correttamente collocata la -inesatta- deduzione del vizio di “omessa pronuncia” (art. 360 co 1 n. 4 c.p.c.) della CTR in ordine alle contestazioni della società in merito alla inefficacia probatoria degli elementi addotti dalla Amministrazione finanziaria a sostegno della pretesa.
Occorre premettere che la società ricorrente ipotizza (come sembra doversi desumere dalla indicazione in rubrica delle norme tributarie relative all’accertamento fiscale: art. 39 co 2 lett. c Dpr n. 600/73; art. 55 co 2 Dpr n. 633/72) la violazione dei presupposti normativi che legittimavano l’accertamento condotto con “metodo induttivo” cd. puro ex art. 39 co 2 Dpr n. 600/73 ed ex art. 55 Dpr n. 633/72 (che consente alla PA di accertare il maggiore imponibile anche mediante elementi indiziari sforniti dei requisiti della prova presuntiva semplice – gravità, precisione e concordanza-), senza tuttavia fornire alcun riscontro in ordine alla applicazione in concreto di tale metodo da parte dei verbalizzanti, tanto più considerando che la questione della illegittimità degli atti impositivi impugnati, per difetto dei presupposti normativi indicati (e dunque per illegittima applicazione del metodo induttivo puro), non risulta sia stata dedotta né esaminata nei precedenti gradi di giudizio.
Dai fatti esposti nella sentenza impugnata e negli atti difensivi delle parti risulta, invece, che l’Ufficio finanziario ha proceduto alla determinazione del maggiore imponibile mediante accertamento “analitico-extracontabile”, essendosi attenuti i verbalizzanti ai dati rilevati dalla documentazione contabile della impresa relativi ai prezzi di vendita ed ai costi di acquisto di tutte le merci presenti nella azienda, metodo accertativo che può fondarsi -come previsto dall’art. 39 co 1 lett. d) Dpr n. 600/73 e dall’art. 54 co 2 ultimo periodo, Dpr n. 633/72- tanto su prove raccolte ai sensi degli artt. 32 e 33 Dpr n. 600/73 od “a norma dell’art. 53” del Dpr n. 633/72 (e dunque su presunzione legale relativa -art. 53 commi 1 e 4-; ovvero su prova documentale diretta -art. 53 comma 3-), quanto su prove presuntive semplici ex art. 2727 c.c. (praesumptio hominis) che devono rispondere ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c..
La asserita regolarità formale delle scritture contabili, dedotta dalla società contribuente a contestazione della prova presuntiva dei maggiori redditi d’impresa e della evasione d’imposta, non costituisce affatto, diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, impedimento all’impiego del metodo “analitico-extracontabile” in concreto utilizzato dall’Ufficio.
Il discrimine tra l’accertamento condotto con metodo cd. “analitico – extracontabile” (art. 39 co 1 lett. d), Dpr n. 600/73 -in materia di imposte indirette art. 54 co 2 Dpr n. 633/72) e l’accertamento condotto con metodo “induttivo puro” (art. 39 co 2 lett. d), Dpr n. 600/73 -in materia di imposte indirette: art. 55 co 2 n. 3), Dpr n. 633/72) deve, infatti, essere ricercato, rispettivamente, nella “parziale” od “assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili. Nel primo caso la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non consente di prescindere dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore soltanto a “completare” le lacune riscontrate utilizzando, ai fini della dimostrazione della esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati ovvero della inesistenza di componenti negativi dichiarati, anche presunzioni semplici (praesumptio hominis) che debbono rispondere ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c. (l’accertamento rimane pur sempre ancorato ai dati analiticamente rilevati dalle scritture contabili riferendosi l’applicazione della prova per presunzioni a singole poste di bilancio e non alla rideterminazione “sintetica” del reddito globalmente considerato che si rende necessaria laddove non sussistano dati contabili rilevabili in quanto del tutto omessi o assolutamente inattendibili : Corte cass. I sez. 7.2.1992 n. 1382; id. V sez. 1.8.2002 n. 11459 “secondo l’insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 28 giugno 2001 n. 8835), nel caso in cui l’amministrazione finanziaria corregga singoli elementi della dichiarazione dei redditi d’impresa sulla base di dati forniti dallo stesso contribuente, ricorre la fattispecie dell’accertamento analitico dall’art. 39, 1° co., d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, che non cessa di essere tale per il fatto che, movendo da specifici elementi quantitativamente certi, quali, in particolare, il costo del prodotto venduto ed i prezzi di vendita verificati, con il medesimo pervenga ad altri dati, quali i ricavi, attraverso il ricorso a parametri induttivi (cfr.: Cass. civ., sez. 1, sent. 1 aprile 1994, n. 3206). Ciò è vero sempre che, in tale ipotesi, la rettifica investa singole poste della contabilità dell’impresa, e non globalmente la stessa in ragione di irregolarità di tale rilievo da farla ritenere inattendibile nel suo complesso (cfr.: Cass. civ., sez, 1, sent. 7 febbraio 1992, n. 1382)”). Nel secondo caso, invece, “le omissioni o le false od inesatte indicazioni …ovvero le irregolarità formali del scritture contabili” risultano talmente ””gravi, numerose e ripetutè’ da inficiare la attendibilità -e dunque la utilizzabilità, ai fini della accertamento- anche degli “altri” dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che, in questo caso, la Amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c.
Ne segue che il dato della regolarità formale della contabilità di impresa, ove sussistente, non è “ex se” in ogni caso preclusivo dell’accertamento di tipo “analitico- induttivo” (od analitico-extracontabile), atteso che ben possono essere state semplicemente omesse annotazioni relative ad operazioni che, altrimenti, sarebbero destinate a non venire mai accertate se non per diversa risultanza documentale (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 7653 del 16/05/2012, in motivazione; id. Sez. 5, Sentenza n. 7871 del 18/05/2012; id. Sez, 5, Sentenza n. 3197 del 11/02/2013), ed è pertanto legittimo l’impiego da parte della Amministrazione finanziaria, ai fini della determinazione dei maggiori ricavi, “dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali sono compresi il volume di affari dichiarato dallo stesso contribuente e la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento” (Corte cass. V sez. 6.8.2002 n. 11813, cui adde V sez. 7.5.2007 n. 10344), dovendosi ulteriormente precisare che “a rideterminazione del ricarico, operata in base a dati non privi di concretezza – quali i prezzi unitari di acquisto e di vendita, l’incidenza di ciascun prodotto sul costo del venduto, il ricarico medio riscontrato nel settore di appartenenza sulla scorta di un’analisi a campione per gruppi merceologici omogenei e il raffronto con i prezzi di vendita- costituisce operazione senz’altro legittima in quanto finalizzata alla ricostruzione del volume di affari, salva la eventuale riduzione da parte del giudice tributario del maggior reddito accertato in caso di insufficienza o inadeguatezza del campione” (Corte cass. V sez. 18.9.2003 n. 13816).
Tanto premesso, la sentenza impugnata va esente dai vizi di legittimità denunciati, dovendo ritenersi infondata la tesi della parte ricorrente secondo cui i verbalizzanti avrebbero calcolato erroneamente, sul ricarico pieno lordo anziché sui prezzi di listino, la percentuale media di sconto dichiarata dal rappresentante legale della società, atteso che -come bene evidenziato dai Giudici territoriali- dalla procedura di accertamento descritta nel PVC in data 16.12.1999 (il cui contenuto è riportato anche alle pag. 16-18 del ricorso principale), non risulta affatto che i verbalizzanti abbiano inteso recepire le dichiarazioni rese dal rappresentate legale sulla percentuale degli sconti praticati alla clientela -dichiarazioni provenienti dallo stesso contribuente sottoposto a verifica e dunque ex se mere allegazioni prive di qualsiasi efficacia probatoria- ma, in difetto di riscontri documentali in ordine agli effettivi sconti applicati nel periodo soggetto a verifica dalla società (non erano state rinvenute annotazioni concernenti riduzioni di prezzo nella contabilità d’impresa, né erano indicati gli sconti di prezzo sugli scontrini di vendita e neppure indicazioni in proposito era dato ricavare dalla documentazione commerciale esaminata) e non avendo disponibile alcun altro dato certo, i verificatori hanno inteso comunque considerare, ai fini della determinazione del volume di affari, la usuale prassi nello specifico settore commerciale della concessione di sconti alla clientela (massima d’esperienza), ed hanno conseguentemente ritenuto di diminuire il margine di utile rilevato sul costo del venduto, determinando presuntivamente nella misura del 20% circa la riduzione del ricarico netto sulla merce (esclusa la merce venduta a stock).
Il calcolo matematico, schematizzato alle pag. 33 e 34 del ricorso, è volto a recuperare “ex post” con procedimento a ritroso (ricavando il dato percentuale di sconto dalla percentuale media ponderata di ricarico pieno e dalla diminuzione del 20% riconosciuta dai verbalizzanti) i dati numerici corrispondenti alla percentuale di sconto ipoteticamente applicata dai verbalizzanti in modo errato sul ricarico pieno anziché sui prezzi di listino delle merci: ma la critica a tale “modus procedendi” (se in astratta ipotesi condivisibile quanto alla relazionalità logica dello sconto al prezzo di vendita piuttosto che al margine di utile rilevato sulle vendite) è inficiata alla radice dall’errore prospettico sul presupposto oggettuale, in quanto la ricorrente assume erroneamente che l’Ufficio finanziario avrebbe ritenuto provata nell’ “an” e nel “quantum” la percentuale degli sconti praticati alla clientela come dichiarato dal rappresentante legale , mentre -come sopra rilevato- i verbalizzanti non hanno ritenuto di attribuire valenza probatoria a tali dichiarazioni, con la conseguenza che il metodo di calcolo del ricarico pieno, diminuito prudenzialmente in considerazione della notoria prassi commerciale di praticare gli sconti sul prezzo, non collide -ponendosi su un piano del tutto differente- con la correttezza della metodologia indicata dalla ricorrente (applicazione dello sconto sul prezzo di vendita) che, nella specie, non ha avuto in concreto impiego in mancanza di elementi probatori certi sugli sconti effettivamente praticati dalla società alla clientela.
La non contraddittorietà logica tra il metodo di calcolo che in astratto avrebbe dovuto essere adottato in presenza di prova certa sulla percentuale di sconto applicata dalla impresa ed il metodo, nella fattispecie seguito dai verbalizzanti, della correzione prudenziale del dato relativo alla percentuale di ricarico determinata analiticamente, emerge in tutta evidenza, tenuto conto : a) che la diminuzione prudenzialmente applicata sulla percentuale di ricarico corrisponde ad una valutazione, fondata su una massima di esperienza, che tiene in considerazione la incidenza degli sconti sul margine di utile della impresa; b) che tale valutazione può certamente essere tradotta, con mero calcolo aritmetico, in un dato percentuale corrispondente allo sconto medio effettivo applicato sulla media dei prezzi di listino: la stessa società ricorrente ha infatti calcolato tale dato nella misura dell’11,75% (cfr. pag. 20 ricorso), che viene , pertanto, a corrispondere alla percentuale di sconto applicata sui prezzi di vendita, che è stata riconosciuta dai verbalizzanti conforme alla pratica commerciale di settore in relazione all’anno d’imposta oggetto di verifica (al riguardo è opportuno osservare che non ha costituito motivo di ricorso, rimanendo dunque estranea a! presente giudizio, la diversa questione -che non risulta neppure dedotta nei precedenti gradi di merito- concernente la corretta applicazione da parte dei verbalizzanti della massima d’esperienza -desunta dalla prassi commerciale di concedere sconti alla clientela- in relazione alla esatta rilevazione statistica della misura degli sconti applicati nell’anno di riferimento da esercizi commerciali omogenei, oltre che per generi merceologici, per dimensione aziendale, ubicazione territoriale e target della clientela).
In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate in dispositivo.
P.Q.M
Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida, come da notula, in € 14.850,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.
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