CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 gennaio 2014, n. 797
Rapporto di lavoro – Licenziamento – Reintegra – Tutela reale – Attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto – Mancanza di scopo di lucro
Svolgimento del processo
Il Giudice del lavoro del Tribunale di Treviso, in parziale accoglimento dell’impugnazione di licenziamento svolta da E.M. nei confronti della datrice di lavoro Federazione Provinciale C. di Treviso (qui di seguito, per brevità, indicata anche come Federazione o come C.), dichiarò l’illegittimità del predetto licenziamento, condannando la convenuta alla riassunzione o, in mancanza, al risarcimento del danno nella misura di dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte di Appello di Venezia, pronunciando sul gravame della lavoratrice, respinse i motivi afferenti alla natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento e all’applicabilità della tutela reale, stante la natura d’organizzazione di tendenza del datore di lavoro; accolse invece il motivo relativo al risarcimento del danno, che venne determinato nella misura di quattordici mensilità.
Questa Corte, con sentenza n. 22873/2010, accolto il terzo dei motivi di ricorso e ritenuti assorbiti gli altri, cassò con rinvio la pronuncia d’appello, rilevando che:
– ai fini dell’applicabilità della speciale regola della deroga al regime generale della tutela reale prevista dall’art. 4 legge n. 108/90, in favore delle associazioni di tendenza, non era sufficiente la riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazioni di tendenza indicate dallo stesso art. 4, ma era altresì necessaria la mancanza di scopo di lucro e di un’organizzazione imprenditoriale; né era necessario, ai fini de quibus, identificare un imprenditore in senso stretto, assoggettato alla disciplina dell’impresa, in quanto era sufficiente che l’attività dell’associazione fosse organizzata a modo di impresa e, quindi, secondo un criterio di economicità;
– dalla natura derogatoria, rispetto alla disciplina generale della tutela reale prevista per tutti i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori, della previsione di cui al suddetto art. 4, discendeva che il datore di lavoro, il quale avesse invocato siffatta deroga, doveva provare non solo di svolgere una delle attività ivi elencate, ma anche che tale attività era esercitata senza fini di lucro e non secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale;
– non era, quindi, corretta in diritto la sentenza appellata, che, accertata la riconducibilità dell’attività svolta dalla Federazione ad una di quelle elencate nel richiamato art. 4, aveva posto, poi, a carico del lavoratore, al fine della esenzione di detta Federazione dalla disciplina della tutela reale, l’onere della prova degli altri requisiti concernenti l’assenza del fine di lucro e dell’esercizio dell’attività non a modo d’impresa.
La Corte d’Appello di Trento, pronunciando in sede di rinvio dalla cassazione, con sentenza del 21.6 – 17.7.2012, rigettò la censura svolta avverso il capo della pronuncia di prime cure che aveva ritenuto inapplicabile l’art. 18 legge n. 300/70, dando atto dell’intangibilità delle statuizione della sentenza d’appello in punto di risarcimento.
A sostegno del decisum la Corte territoriale, per ciò che ancora qui rileva, osservò quanto segue:
– la Suprema Corte non aveva messo in discussione la natura di organizzazione di tendenza della Federazione, quale accertata nei giudizi di merito, richiedendo tuttavia che fosse dimostrata, con onere incombente sulla parte datoriale, che la stessa avesse svolto la sua attività senza fini di lucro e senza un’organizzazione imprenditoriale;
– alla luce delle richiamate previsioni statutarie, doveva escludersi la sussistenza dello scopo di lucro, posto che quest’ultimo avrebbe potuto incidere sulla natura dell’organizzazione di tendenza solo qualora la produzione di ricchezza avesse assunto un rilievo, se non pari alla funzione di tendenza, quanto meno tale da caratterizzare comunque l’attività dell’organizzazione in senso speculativo, esorbitando dal mero obbiettivo del conseguimento di un assetto economico e gestionale che consentisse di assolvere in modo ottimale alla funzione istituzionale;
– l’accertamento della sussistenza o meno di un’attività imprenditoriale andava svolto considerando sia la natura dell’attività della dipendente, e cioè se la stessa fosse o meno “assolutamente neutra” rispetto agli scopi tipici della organizzazione di tendenza, sia il tipo di attività economica svolta dalla organizzazione di tendenza;
– nel caso di specie il raggiungimento dei fini istituzionali della Federazione passava attraverso un’attività concreta, non trattandosi di una organizzazione svolgente solo attività, ad esempio, di promozione culturale o scientifica; al pari dell’attività sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche l’assistenza nelle pratiche UMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attività ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’art. 2 dello Statuto, laddove attribuiva alla C. il ruolo di “sostenere a livello provinciale lo sviluppo delle imprese e dell’attività agricola (…) contenimento dei costi di produzione all’accrescimento della competitività…”.
– l’attività svolta dalla Federazione con riferimento alle pratiche UMA risultava, dalle prove orali assunte in primo grado e dalla documentazione prodotta in tale sede, svolta esclusivamente nei confronti degli associati o divenuti tali a seguito della richiesta di dette prestazioni, non essendo emerso in concreto che si fosse verificato il “raro caso”, previsto nell’ordine di servizio 10 ottobre 2000, di prestazione a favore di un non socio;
– le prestazioni UMA, come emerso dalle prove assunte, non venivano svolte attraverso una struttura imprenditoriale, essendovi addetta, all’epoca dei fatti, la sola ricorrente nella sede di Conegliano, essendo rivolte unicamente agli iscritti, senza ricerca del mantenimento del pareggio di bilancio, posto che le spese per lo svolgimento delle pratiche UMA non erano elevate (da lire 20.000 a un massimo di lire 70.000) e, come tali, volte solo alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicità, nel senso pur ampio indicato dalla sentenza di rinvio;
– alla luce degli elementi in atti (e non tenendo conto dei documenti prodotti tardivamente in appello), la modestia delle somme richieste ai soci per il servizio UMA, l’assenza di una struttura imprenditoriale per quel particolare servizio, essendo a livello provinciale reso all’epoca a mezzo di lavoratori interni per i soci o per soggetti ai quali a seguito dell’accesso al servizio stesso veniva richiesto di associarsi alla C., doveva presumersi un volume d’affari non consistente e ritenere esclusa persino la ricorrenza di una attività ispirata al criterio di economicità di gestione, funzionalmente diretta all’equilibrio tra costi e ricavi;
– l’attività UMA rientrava pertanto nelle finalità qualificanti della C. di Treviso, restandone esclusa, pur se autonomamente considerata rispetto alle altre attività istituzionali, sia la struttura imprenditoriale che la rispondenza a criteri di economicità, anche a prescindere dalla circostanza (che appariva, comunque, provata) che detto servizio fosse svolto solo nei confronti dei soci.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, E.M. ha proposto ricorso per cassazione fondato su nove motivi.
L’intimata Federazione Provinciale C. Treviso ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo articolato motivo, denunciando violazione dell’art. 384 cpc, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, non rispettando i limiti impostele dalla sentenza che aveva disposto il rinvio, abbia disconosciuto che l’attività del servizio UMA era stata espletata anche nei confronti dei non soci, come ritenuto nella sentenza d’appello poi cassata; inoltre, denunciando vizio di motivazione, lamenta che la Corte territoriale non abbia motivato le ragioni per cui aveva disconosciuto l’accertamento dei fatti che erano stati ritenuti comprovati e non contestati da parte della Corte d’Appello di Venezia.
Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 384 cpc, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia ribaltato il principio di diritto enunciato da questa Corte di legittimità, rilevando come non fosse emerse in concreto che si fosse verificato il raro caso previsto nell’ordine di servizio del 10.10.2000, ossia la prestazione del servizio UMA a favore di un non socio, con ciò ponendo a carico del lavoratore l’onere di provare tale assunto, piuttosto che fondare la decisione sulla rigorosa prova, a carico del datore di lavoro, della mancata effettuazione di tale servizio per i non soci.
Con il quinto articolato motivo, denunciando violazione dell’art. 384 cpc, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, non rispettando i limiti impostile dalla sentenza che aveva disposto il rinvio, non abbia tenuto conto che, secondo quanto accertato nella pronuncia di primo grado, essa ricorrente non era l’unica dipendente della Federazione di Treviso addetta al servizio UMA; subordinatamente, denunciando vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia motivato in ordine al disconoscimento della circostanza anzidetta, come accertata nella pronuncia di prime cure; in ulteriore subordine, denunciando violazione di legge, la ricorrente si duole che, ai fini dell’esclusione della tutela reale, la Corte territoriale abbia negato il carattere imprenditoriale dell’attività facendo riferimento all’effettuazione del servizio UMA in una sola delle sedi periferiche e non in tutte le sedi; ancora subordinatamente, la ricorrente, denunciando violazione di legge, si duole che la Corte territoriale abbia escluso il carattere imprenditoriale dell’attività facendo riferimento alla circostanza che il servizio UMA era reso a mezzo di lavoratori interni.
I suddetti tre motivi, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
1.1 Al riguardo deve rilevarsi che, secondo quanto prescritto nella pronuncia rescindente di questa Corte, il Giudice del rinvio avrebbe dovuto accertare se fosse stata fornita la prova, di cui era onerata la parte datoriale, che l’attività di quest’ultima era stata esercitata senza fini di lucro e non secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale.
In sostanza, veniva quindi richiesto un riesame delle risultanze processuali, senza che la eventuale mancata dimostrazione della circostanza potesse essere addebitata al lavoratore.
Tale indagine in fatto, secondo le regole generali, avrebbe dovuto quindi essere svolta in conformità al principio di acquisizione probatoria, in base al quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro, cosicché il principio relativo all’onere della prova, di cui all’art. 2697 cc, non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato del relativo onere, senza poter utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 5126/2000; 2285/2006; 25028/2008; 739/2010).
Ne consegue che l’accertamento dell’assenza di risultanze processuali, comunque acquisite, che dimostrasse, secondo la valutazione dei Giudici del merito, l’avvenuto verificarsi in concreto della prestazione del servizio a favore di un non socio, si traduce logicamente, stante il carattere negativo della circostanza medesima, nella prova della insussistenza del contrario.
1.2 Escluso dunque che la sentenza impugnata abbia addebitato alla lavoratrice l’onere probatorio, violando con ciò il principio enunciato nella pronuncia rescindente, va tenuto conto che l’indagine demandata al Giudice del rinvio non avrebbe potuto estendersi ad affermare o negare circostanze in senso contrario ad un eventuale giudicato interno formatosi sul punto.
Il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio – cioè il giudicato esplicito -, ma anche tutte quelle che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia – cioè il giudicato implicito (cfr, ex plurimis, Cass., n. 9544/2008).
Nel caso di specie la sentenza resa in grado d’appello (e poi cassata) aveva ritenuto l’applicabilità della tutela reale, sicché l’affermazione (peraltro parentetica) secondo cui sarebbe stata ammessa e provata, in alcuni casi, la circostanza dell’espletamento del servizio UMA anche nei confronti dei non soci, non costituiva un antecedente logico – giuridico del decisum, non era quindi suscettibile di passare (implicitamente) in giudicato e non vincolava in alcun modo il Giudice del rinvio, con conseguente inesistenza dell’obbligo di quest’ultimo di una qualsivoglia motivazione che non fosse quella relativa all’indagine specificamente affidatagli.
Analoghe considerazioni valgono a proposito degli accertamenti fattuali effettuati nella pronuncia di prime cure, per quanto anch’essi non costituenti antecedente logico – giuridico del decisum, posto che anche tale pronuncia aveva escluso l’applicabilità della tutela reale.
1.3 Quanto alle censure per violazione di legge di cui al terzo e quarto profilo di doglianza del quinto mezzo, se ne deve rilevare l’infondatezza, non costituendo le circostanze ivi indicate la ragione unica, né di per sé determinante, della valutazione resa della sentenza impugnata, la quale ha invece escluso l’esistenza della struttura imprenditoriale in forza di una disamina complessiva dell’attività esercitata, nei termini diffusamente già esposti nello storico di lite.
1.4 Ne discende l’infondatezza dei motivi all’esame in tutti i distinti profili in cui si articolano.
2. Con il terzo motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che, avendo la Corte territoriale accertato che il servizio UMA era reso per i soci o per soggetti ai quali, a seguito dell’accesso al servizio stesso, veniva richiesto di associarsi alla C., ciò stava a dimostrare che tale attività era svolta anche per i non soci e in concorrenza con altri soggetti che svolgevano la medesima attività; viene inoltre denunciato vizio di motivazione per non avere la Corte territoriale motivato in ordine al rilievo, svolto nel ricorso in riassunzione, secondo cui il suddetto servizio era espletato commercialmente anche da altri soggetti in concorrenza con la C.
2.1 Il motivo, nei distinti profili in cui si articola, è infondato.
Appare ovvio che se la conditio sine qua non per poter usufruire del servizio era l’associazione alla C., espressamente richiesta al momento dell’accesso, i fruitori erano solo gli associati, essendo irrilevante che non lo fossero stati in precedenza; l’ulteriore circostanza che il servizio de quo fosse reso, come sostiene la ricorrente, anche da altri soggetti in concorrenza con la C. è poi del tutto irrilevante, trattandosi di elemento di giudizio privo di decisività in ordine alla sussistenza o meno di una struttura imprenditoriale della stessa C.,
3. Con il quarto motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che il servizio UMA, a cui ella era stata addetta, non rientrava nell’attività sindacale della C. di Treviso, idonea come tale ad escludere la tutela reale del rapporto di lavoro quale associazione di tendenza.
3.1 La giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, ha già più volte affermato l’esclusione della tutela reale laddove l’attività prestata sia consistita in una forma di assistenza o comunque di sostegno all’attività professionale della categoria rappresentata, sia che si tratti di interessi sindacali, che di altro genere, quali interessi economici, di consulenza legale o fiscale (cfr, Cass., nn. 815/1990; 39/2001; 13721/2001), rilevando invece, ai finì dell’applicabilità di tale forma di tutela, il tipo di organizzazione e l’economicità della gestione, a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio fine di lucro (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 18218/2002; 1367/2004).
La Corte territoriale, nei termini già diffusamente esposti, si è attenuta a tali principi, rilevando, con accertamento di fatto irretrattabile in questa sede di legittimità, che, al pari dell’attività sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche l’assistenza nelle pratiche DMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attività ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’art. 2 dello Statuto, ed escludendone al contempo sia la struttura imprenditoriale, che la rispondenza a criteri di economicità.
Onde deve escludersi la sussistenza della violazione di legge denunciata con il motivo all’esame.
4. Con il sesto motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che la previsione di un corrispettivo per la resa del servizio UMA rendeva impossibile escludere il carattere imprenditoriale della gestione; denunciando vizio di motivazione, la ricorrente deduce che la valorizzazione della modestia delle somme richieste non poteva considerarsi idonea a ritenere che le stesse fossero volte alla mera copertura dei costi e ad escludere la natura imprenditoriale dell’attività; denunciando violazione di legge, la ricorrente deduce che la natura imprenditoriale dell’attività avrebbe potuto essere esclusa soltanto se il servizio fosse stato reso gratuitamente.
4.1 Osserva la Corte che se è indubitabile che l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti non può essere considerata attività imprenditoriale (cfr, Cass., nn. 16435/2003; 7725/2004; 16612/2008), non per questo può ritenersi il contrario, vale a dire che sia qualificabile come imprenditoriale qualsivoglia attività prevedente l’erogazione di un corrispettivo per il servizio reso; ciò che invece rileva, a tal fine, è che l’attività economica organizzata sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi (cfr, Cass., n. 16612/2008, cit.), il che la Corte territoriale ha escluso in fatto, rilevando come le spese per lo svolgimento delle pratiche UMA fossero volte solo alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicità.
4.2 Esclusa dunque la sussistenza del denunciato vizio di violazione di legge, deve del pari negarsi il fondamento del preteso vizio di motivazione, posto che, a fronte del ragionamento presuntivo svolto dalla Corte territoriale, trovano applicazione i principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 9961/1996; Cass., nn. 2700/1997; 26081/2005), secondo cui, in tema di prova per presunzioni, giacché non occorre che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, è sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalità; e, a tal riguardo, l’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti di idoneità, gravità e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o da errori nei criteri giuridici; ciò che non è dato ravvisare, sul punto, nella motivazione della sentenza impugnata.
4.3 Le censure svolte con il motivo all’esame non sono pertanto condivisibili.
5. Con il settimo motivo, denunciando violazione di legge, la ricorrente si duole che l’esclusione della tutela reale da parte della Corte territoriale abbia fatto leva sulla mancata prestazione dei servizi ai non soci; denunciando vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che, contraddittoriamente, la Corte territoriale abbia da un lato tenuto in considerazione, ai fini dell’esclusione di una struttura imprenditoriale, che il servizio UMA fosse reso soltanto ai soci e, dall’altro, ritenuto che il difetto dell’imprenditorialità andasse affermato anche a prescindere da tale circostanza.
5.1 Osserva la Corte che la mancata prestazione dei servizi ai non soci costituisce soltanto uno degli elementi di giudizio accertati e tenuti presente dalla Corte territoriale al fine di escludere la struttura imprenditoriale del servizio UMA; il rilievo dell’assenza di decisività, di per sé, di tale elemento di giudizio, non ne esclude peraltro la pertinenza all’indagine e, al contempo, non concretizza alcuna contraddittorietà nel ragionamento decisorio.
5.2 Nei distinti profili in cui si articola il motivo all’esame non può pertanto essere accolto.
6. Con l’ottavo motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale, al fine di escludere la natura imprenditoriale dell’attività, abbia presunto un volume d’affari non consistente facendo leva soltanto sul valore delle somme richieste per il singolo servizio e non anche sul numero complessivo dei servizi resi; denunciando vizio di motivazione la ricorrente si duole altresì che la Corte territoriale non abbia indicato da quali elementi aveva tratto il proprio convincimento in ordine alla copertura dei costi e all’equilibrio costi/ricavi.
Con il nono motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia escluso la natura imprenditoriale del servizio UMA, attesa l’abitualità e sistematicità dello stesso e non essendo idonei a tal fine gli elementi valorizzati.
Entrambi detti motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro connessione, e, per entrambi, deve rilevarsi che anche i profili di doglianza denunciati quali violazioni di legge si risolvono in effetti nella deduzione di un vizio della motivazione svolta.
6.1 Al riguardo, richiamato quanto già osservato circa i limiti entro cui può essere svolta, in sede di legittimità, la censura avverso il ricorso alla prova presuntiva da parte del giudice del merito e tenuto conto che l’accertamento del carattere imprenditoriale dell’attività in concreto esercitata è riservato al giudice di merito e, come tale, è censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (cfr, ex plurimis, Cass., n. 10155/2005), deve osservarsi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie.
Per conseguenza il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i vizi di motivazione non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 824/2011; 13783/2006; 11034/2006; 4842/2006; 8718/2005; 15693/2004; 2357/2004; 12467/2003; 16063/2003; 3163/2002).
Al contempo va considerato che, affinché la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12121/2004), e che l’omesso esame di fatto decisivo, previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5, cpc, è costituito da quel difetto di attività del giudice del merito che si verifica tutte le volte in cui egli abbia trascurato, non la deduzione o l’argomentazione che la parte ritiene rilevante per la sua tesi, ma una circostanza obiettiva acquisita alla causa tramite prova scritta od orale, idonea di per sé, qualora fosse stata presa in considerazione a condurre con certezza ad una decisione diversa da quella adottata; con la conseguenza che, ad integrare il predetto difetto, occorre non solo che il fatto, sebbene dibattuto tra le parti, sia stato totalmente trascurato dal giudice al pari di quelli non sottoposti ritualmente al suo accertamento, ma anche che il fatto in questione, per la sua diretta inerenza ad uno degli elementi costitutivi, modificativi od estintivi del rapporto in contestazione, sia dotato di una intrinseca valenza tale da non poter essere tacitamente escluso dal novero delle emergenze processuali decisive per la corretta soluzione della lite, come non si verifica per ogni singolo indizio, segnale od indice critico, il quale per la sua gravità o per la sinergica convergenza con altri elementi indiziari consentirebbe, in ipotesi, al giudice di risalire alla individuazione di un fatto ignoto (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 7000/1993; 914/1996; 10778/1997; 2601/1998; 1203/2000; 13981/2004).
Nel caso all’esame la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole, che, quale espressione di una potestà propria del giudice del merito, non può essere sindacata nel suo esercizio (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14212/2010; 14911/2010).
In definitiva, quindi, le doglianze dei ricorrenti si sostanziano nella esposizione di una lettura delle risultanze probatorie diversa da quella data dal giudice del gravame e nella richiesta di un riesame di merito del materiale probatorio, inammissibile in questa sede di legittimità.
6.2 Anche i motivi all’esame, nei distinti profili di censura in cui si articolano, vanno pertanto disattesi.
7. In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in euro 4.100,00 (quattromilacento), di cui euro 4.000,00 (quattromila) per compenso, oltre accessori come per legge.
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