COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE CAMPANIA – Ordinanza 05 marzo 2013
Ordinanza del 5 marzo 2013 emessa dalla Commissione tributaria regionale per la Campania – Sezione staccata di Salerno sul ricorso proposto da O. F. S.r.l. contro Agenzia dell’entrate – Direzione provinciale di Avellino.. Contenzioso tributario – Tutela cautelare – Provvedimenti impositivi ed esecutivi dell’Amministrazione finanziaria, confermati da sentenze [tributarie] pronunciate in primo grado e in grado d’appello – Possibilità di sospensione dell’efficacia [nelle more del giudizio per cassazione], qualora dalla loro esecuzione derivi pericolo di grave ed irreparabile danno, con carattere di irreversibilità e non altrimenti evitabile, ad un diritto inviolabile – Omessa previsione – Lesione di diritti inviolabili dell’uomo, tra cui quelli alla libertà personale e all’abitazione – Lesione del diritto al lavoro – Contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) – Richiamo alla sentenza n. 217 del 2010 della Corte costituzionale. – Decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, art. 49, comma 1. – Costituzione, artt. 2 e 4 (e 10); Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 6.
Fatto
La società istante, premesso che:
in data 10 settembre 2010 la O. Frank S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 111/2010 del 4 febbraio 2010 emanata dalla Commissione tributaria regionale di Napoli – Sezione n. 2 e che tuttora pende la trattazione della controversia in cassazione;
che in data 30 marzo 2011 l’Agente della riscossione per la Provincia di Avellino Equitalia Polis S.p.a. (ora EquitaliaSud S.p.a.) ha notificato alla O. Frank S.r.l. la cartella di pagamento n. 01201220110005599190000, relativa alla iscrizione a ruolo per IVA, IRAP, sanzioni pecuniarie ed accessori per complessivi euro 58.874,08, iscrizione discendente dalla suindicata sentenza;
che la società non ha potuto estinguere il debito, per cui, quando l’Agente della riscossione procederà in via coattiva al recupero delle somme, rischierà la totale paralisi della propria attività con ripercussioni drammatiche non solo sulle aziende contoterziste che lavorano a favore di essa O. Frank ma anche sul mantenimento dei posti di lavoro, considerato che dalle ultime due dichiarazioni dei redditi si evincono chiaramente le difficoltà economiche in cui versa la società, cosicché emerge in modo chiaro ed idiscutibile che dall’esecuzione potrà derivare danno grave ed irreparabile alla contribuente;
che, vieppiù, la stessa incertezza e complessità delle questioni sorte a seguio dei rilievi dell’Agenzia – con particolare riferimento all’eccezione relativa ai finanziamenti soci infruttiferi – è stata riconosciuta dalla stessa Commissione tributaria regionale – Sezione n. 2;
tutto quanto sopra premesso, il ricorrente ha chiesto in data 29 maggio 2012, con trattazione in pubblica udienza, la sospensione dell’esecuzione, depositando a corredo documenti e giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 2845 del 24 febbraio 2012), al fine di ottenere, in pendenza del ricorso per cassazione e ai sensi degli artt. 47, 49 e 61 del d.lgs. n. 546/1992 e dell’art. 373 c.p.c., la sospensione della esecuzione della menzionata sentenza n. 111/2010 e, in uno, dell’atto esecutivo dalla stessa confermato.
Nella pubblica udienza del 31 gennaio 2013 il difensore della società, dott. Tommaso Castagna, ha altresì precisato che, in caso di inizio dell’esecuzione, vi è serio pericolo di chiusura dell’attività conciaria della società, con consequenziale perdita del posto di lavoro da parte di 16 dipendenti, nonché e di altre 32 persone attualmente in forza a quattro ditte legate da contratto in via esclusiva con la O. Frank S.r.l.; infine ha aggiunto che lo stato di grave difficoltà economica della O. Frank S.r.l. era testimoniato dalla comunicazione della Banca Popolare di Sviluppo del 13 dicembre 2012 di revoca del fido bancario. L’ufficio si è riportato ai propri atti opponendosi all’accoglimento della richiesta di sospensione, per essere la stessa inammissibile nei gradi del processo successivi al primo.
La Commissione si è riservata.
Diritto
1. – Questo Collegio, sciogliendo la riserva formulata all’udienza di discussione sulla suddetta richiesta di sospensione, osserva che, alla luce degli articoli 49 d.lgs. n. 46/1992 e 373 c.p.c., sussisterebbero nella specie i presupposti (fumusboni iuris e periculum in mora) per l’accoglimento dell’istanza di sospensione della efficacia della suindicata sentenza, la quale, accogliendo la tesi dell’appellante Agenzia delle entrate, ha reso applicabile l’art. 68, comma 1, d.lgs. n. 546/1992, ossia esperibile in concreto la fase di esecuzione della cartella di pagamento.
Ed invero, circa il requisito del fumus boni iuris, si rileva dagli atti che la sentenza ha accolto solo parzialmente l’appello dell’Agenzia delle entrate contro la sentenza n. 32 del 31 marzo 2008 della Commissione tributaria provinciale di Avellino, ed in particolare, affrontando con motivazione analitica i cinque rilievi mossi dall’Ufficio nei confronti della O.Frank, non ne ha condiviso ben 3, e precisamente il secondo, il quarto e il quinto; ha condiviso, invece, il primo e il terzo, ma, soffermandosi, con riguardo al rilievo n. 1, sulla valutazione delle tesi contrapposte relative alla sussistenza o meno di un finanziamento dei soci – che secondo la tesi dell’Agenzia non era comprovato, con la conseguenza di doversi considerare come ricavi le somme in questione – la sentenza stessa ha finito per fondarsi soltanto su una presunzione semplice, in base alla quale ha espresso un convincimento conforme alla tesi dell’Ufficio, ossia quella del ricavo e non del finanziamento. Poiché tuttavia la motivazione non appare dotata di una tale robustezza che la renda inattaccabile in cassazione, in quanto nella lettura della sentenza, come ben osserva la difesa della ricorrente, è insita la consapevolezza della complessità e incertezza della situazione probatoria, la contrapposta tesi della contribuente società – trattarsi di somme derivanti da finanziamento dei soci – acquista il cosiddetto requisito dell’apparenza del buon diritto (appunto il c.d. fumus boni iuris) nella visione prospettica di un risultato del controllo logico della motivazione da parte della Cassazione che risulti favorevole alla O. Frank. Inoltre, in ordine al rilievo n. 3, la sentenza impugnata trova ancora fondamento su una presunzione semplice, secondo cui i costi inerenti al consumo di caffè ecc., non essendo inerenti all’attività esercitata, sarebbero stati legittimamente recuperati a tassazione per mancanza della prova contraria che il caffè ed altro fossero consumati all’interno dello stabilimento produttivo. Anche qui non può negarsi la sussistenza del fumus boni iuris nell’ipotizzare un controllo di legittimità della Cassazione che trovi di per sé scarna sul punto – come in verità appare – la motivazione della sentenza pronunciata in grado di appello e la sovverta.
Circa il requisito del periculum in mora, sono evidenti la gravità del danno che deriverebbe dalla messa in esecuzione della cartella di pagamento e la sua irreparabilità. Premesso che è notoria la crisi delle imprese conciarie operanti nelsolofrano, e che, in particolare, risulta dai bilanci e dalle dichiarazioni dei redditi in atti la notevole difficoltà economica in cui versa la O. Frank, il pagamento coatto in sede esecutiva del notevole importo iscritto a ruolo (euro 58.874,08) porrebbe la conceria in condizioni di non poter lavorare, con ripercussioni drammatiche anche per le aziendecontoterziste che lavorano a suo favore, con conseguente rischio di licenziamento di numerosi lavoratori.
Tuttavia, nonostante la sussistenza dei due presupposti anzidetti, il giudice tributario non può, secondo la giurisprudenza dominante, somministrare giustizia in sede cautelare.
Infatti, l’art. l, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992 rende applicabile nel processo tributario le norme del Codice di procedura civile; ma soltanto per quanto non espressamente previsto dalle norme speciali del contenzioso e nei limiti della compatibilità con esse. L’art. 47 d.lgs. citato, dettato per il giudizio di primo grado, prevede un potere urgente presidenziale ed un potere collegiale ordinario di sospensiva dell’atto impositivo o esecutivo oggetto del ricorso introduttivo del giudizio; ma la previsione deve intendersi come limitata al primo grado, stante anche la previsione del suo comma 7 che fa cessare al momento della pubblicazione della sentenza di prime cure gli effetti di una sospensione eventualmente concessa. A conforto di tale già chiara interpretazione, l’art. 47-bis dello stesso d.lgs., introdotto dal d.-l. n. 59/2008, convertito in legge n. 101/2008, è intervenuto a disciplinare, ma con finalità ancora più restrittive, la sospensione di atti volti al recupero di aiuti di Stato, imponendo in tal caso un’accelerazione della definizione delle controversie tributarie quando in esse siano stati emessi provvedimenti di sospensione. Anche la ratio dell’art. 47-bis è quindi quella di limitare e non già di ampliare il potere sospensivo dei giudici tributari nelle relative controversie di interesse comunitario. L’art. 61 d.lgs. n. 546/1992 dispone che «nel procedimento di appello si osservano in quanto applicabili le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili», sicché esso sembrerebbe consentire l’applicazione dell’art. 47 cit. recante il potere di sospensiva, ma la norma speciale di cui all’art. 49, comma 1, stesso d.lgs., nella sua parte finale contiene l’inciso «escluso l’art. 337 c.p.c.». Di fronte a tali formulazioni legislative, una parte della giurisprudenza sostiene che l’art. 337 c.p.c., nel disporre che l’esecuzione della sentenza di primo grado e dell’atto impositivo non è sospesa per effetto della sua impugnazione, fa salve una serie di situazioni in cui la sospensione della sentenza è invece consentita; fra le quali l’art. 283 c.p.c., per la sospensione in appello in caso di «gravi e fondati motivi» e l’art. 373 c.p.c. per la sospensione durante il gravame in cassazione, in caso di «grave e irreparabile danno». Altra parte della giurisprudenza, assolutamente prevalente, interpreta l’art. 49 nel senso che esso non consente l’applicazione nel processo tributario né dell’art. 337 c.p.c., né delle disposizioni in esso richiamate di cui agli artt. 283 e 373 c.p.c. Per tali ragioni non sarebbe condivisibile quella giurisprudenza minoritaria di merito che sostiene l’applicabilità dell’art. 373 c.p.c. Questo Collegio, de iure condito, ritenendo di dover aderire, in ragione di una più fedele applicazione delle regole ermeneutiche, alla giurisprudenza dominante, contraria all’applicabilità degli artt. 283 e 373 c.p.c., richiamati dall’art. 337 c.p.c., non può che prendere atto dell’assoluta esclusione del potere sospensivo, e pertanto solleva questione di costituzionalità circa l’eccessiva rigidità di tale categorica esclusione, entro i limiti e alle condizioni infraspecificati.
2. – In ordine alla non manifesta infondatezza della questione. Questo Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49 d.lgs. n. 546/1992 limitatamente alla parte in cui tale norma non prevede la possibilità di sospensione della efficacia esecutiva della sentenza di primo grado e di quella di secondo grado, e dei consequenziali atti impositivi che sono stati oggetto della loro cognizione, rispettivamente in presenza di «gravi e fondati motivi» (ex art. 283 c.p.c.) o «qualora dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno» (ex art. 373 c.p.c.), allorché dalla esecuzione possa derivare pregiudizio ai diritti inviolabili dell’uomo di cui agli artt. 2 e 4 della Costituzione, ai diritti riconosciuti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848.
E’ bene a questo punto, prima di inoltrarsi nell’analisi della questione di legittimità costituzionale come prospettata, che all’attenzione della Consulta non sono stati mai indicati i suddetti profili, tranne quello che, tramite l’art. 10 della nostra Carta Costituzionale, si richiama alla Convenzione europea.
Ed infatti, l’ordinanza della Commissione tributaria regionale per la Campania del 13 ottobre 2009, che ha dato luogo alla ben nota sentenza interpretativa di rigetto della Consulta n. 217/2010, ha ritenuto di ravvisare il contrasto dell’art. 49 d.lgs. n. 546/1992 con gli artt. 3, 10, 23, 24, 111 e 113 della Costituzione. La Corte ha ritenuto inammissibile la questione per tre distinti motivi. Secondo il primo motivo, la Consulta, pur rilevando che il giudice di merito remittente«non ha esperito alcun tentativo di interpretare la disposizione censurata nel senso che essa consenta l’applicazione al processo tributario della sospensione cautelare prevista dall’art. 373 c.p.c., con conseguente insussistenza del prospettato contrasto con gli evocati parametri costituzionali», ha ritenuto di scindere in una regola ed in una eccezione il contenuto normativo degli artt. 337 e 373 c.p.c. La regola è che né l’appello né il ricorso per cassazione sospendono l’esecuzione della sentenza impugnata;
l’eccezione è che, sia pure in presenza di diverse condizioni, l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata sarebbe sospendibile, in quanto – questo è il cardine dell’interpretazione della Corte costituzionale – l’art. 49 del processo tributario, nell’escludere l’applicabilità sia dell’art. 337 che dell’art. 373 c.p.c., avrebbe inteso escludere l’applicabilità della regola contenuta nell’art. 337 («L’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa»), ma non dell’eccezione («salve le disposizioni degli artt. 283, 373 …»), cosicché le due eccezioni, quella prevista dall’art. 283 con riferimento alla sentenza di primo grado e quella prevista dall’art. 373 c.p.c. con riferimento alla sentenza pronunciata in grado di appello, rimaste in piedi, sarebbero applicabili al processo tributario, sempre che sussistano le due rispettive condizioni («gravi e fondati motivi» per poter sospendere la efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, «pericolo di grave ed irreparabile danno» per poter sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza pronunciata da giudice di appello).
Orbene, oltre a non potersi sottacere la singolarità di una interpretazione che ha operato una scissione di un contenuto normativo chiaramente concepito unitariamente e monoliticamente dal legislatore in vista del pubblico interesse, superfluo da esplicitare in questa sede ma su cui, comunque, la Consulta, essendosi fermata ad una esegesi letterale delle norme, non ha avuto occasione di motivare, balza agli occhi con evidenza ed immediatezza un rilievo: se, come afferma la Corte costituzionale, l’art. 49 esclude l’applicabilità della regola di cui all’art. 337 c.p.c. (cioè: «l’impugnazione della sentenza non sospende l’efficacia esecutiva della stessa»), ne risulterebbe la contraria lettura: «l’impugnazione della sentenza sospende l’efficacia esecutiva della stessa»), con conseguente risoluzione di ogni problema. Questo Collegio non riesce a credere che la sentenza n. 217/2010 sia intenzionalmente pervenuta ad una soluzione così abnorme. Si limita ad evidenziare, tuttavia, le insidie cui si va incontro nell’imboccare le strettoie di una ermeneutica fondata su sottili distinguo, nel momento stesso in cui ritiene più sicura l’applicazione di un principio più semplice e saldo: «in claris non fit interpretatio».
E’ per tale motivo di fondo che questo giudice, non vincolato dalla decisione interpretativa di rigetto e affrancato dall’esame degli altri due motivi di inammissibilità contenuti nella sentenza n. 217/2010 (che peraltro accedono al merito delle questioni di fatto insorte in quel diverso procedimento) ritiene di non poter esperire il tentativo di una interpretazione dell’art. 49 costituzionalmente orientata nel senso suggerito dalla Consulta, neppure dopo l’emanazione di sentenze recenti della Corte di Cassazione (Cass. Sez. V, 18 gennaio 2012, n. 2845, Presidente Antonio Merone, relatore Cons. Raffaele Botta, che non contiene, in verità, alcun motivo nuovo ma riporta, testualmente, le stesse parole della sentenza n. 217/2010), né ravvisa, infine, altre possibili interpretazioni che escludano, nel citato art. 49, la preclusione di ogni sospensiva dell’atto impositivo dopo la sentenza di primo grado. E ciò non prima di aver considerato che, secondo l’opinione unanime della migliore dottrina, le sentenze interpretative di rigetto o di inammissibilità della Corte costituzionale, se vincolano in qualche misura il giudice a quo remittente, che pur tuttavia conserva la facoltà di sollevare una nuova questione di illegittimità
costituzionale sotto un diverso profilo, non hanno forza vincolante in procedimenti diversi da quello per cui è avvenuta larimessione e nei confronti di altri giudici, soggetti in base alla stessa Costituzione soltanto alla legge, anche se esercitano su tutti i soggetti dell’ordinamento una indubbia «autorità morale», derivante anche dalla funzione di «alta politica giudiziaria» affidata alla Consulta. Ne consegue la necessità di investire di nuovo della questione il Giudice delle leggi sotto profili diversi da quelli finora ad esso sottoposti.
Il primo e principale profilo è quello del contrasto della norma di cui al citato art. 49 con l’art. 2 della Costituzione. Questa è certamente una norma di fondamentale importanza, destinata per sua natura a costituire un «diritto vivente» dai contenuti variabili, i quali affondano le loro radici nei periodi storici in cui all’uomo è stato riconosciuto in misura sempre maggiore il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa. Basti pensare a quante conquiste sono state compiute a partire dal Medioevo, attraverso il Rinascimento, la Rivoluzione francese, fino ad arrivare alla nostra Carta costituzionale, nonché alla Convenzione europea emanata a salvaguardia, appunto, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La individuazione degli stessi è una delicata operazione giuridica affidata alla preparazione, alla cultura e alla prudenza del giudice, il quale certamente saprà discernere, nell’ampia ed importantissima categoria indicata nell’art. 2 della Costituzione, i diritti inviolabili dell’uomo che lo Stato «riconosce e garantisce» nel certo momento storico in cui sarà chiamato ad attuare nel processo la tutela cautelare.
A quel punto l’interprete dovrà necessariamente giungere alla conclusione che lo Stato, lo Stato Fiscale, pur essendo tenuto per precetto costituzionale (art. 53) ad imporre ai cittadini (peraltro investiti dallo stesso art. 2 di doveri di solidarietà sociale) il contributo alle spese di organizzazione della società nazionale, deve arrestarsi allorché l’esercizio del suo potere impositivo nella fase esecutiva potrebbe sacrificare «i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità». Ed è allora, quando anche una valutazione rigorosa dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora (auspicata dalla citata sentenza n. 2845/2012 della Cassazione) gli consentono di accogliere l’istanza del contribuente di sospensione dell’atto impugnato, che ravviserà nell’art. 49 un ostacolo normativo in contrasto con l’art. 2 della Costituzione.
I diritti inviolabili dell’uomo sono certamente in numero ristretto, al pari delle libertà fondamentali garantite dalla Convenzione europea tramite l’art. 10 della nostra stessa Costituzione. Ad essi va equiparato, ai fini che ne occupa, il diritto al lavoro, in relazione al quale, benché l’art. 4 Cost. non abbia corredato il verbo «riconosce» del «garantisce» di cui all’art. 2, comunque è evidente che ne è riaffermata la preesistenza in testa all’uomo all’atto della costituzione dello Stato, e che il suo sacrificio priverebbe il cittadino dei mezzi di sostentamento in una società che l’art. 1 della Carta costituzionale proclama «fondata sul lavoro».
A questo punto, per una maggiore efficacia espositiva, il Collegio intende soffermare e richiamare l’attenzione, nell’ambito dei diritti inviolabili, sul fondamentale diritto di libertà, ai fini di una correlazione che ritiene opportuno sottoporre ai Giudici della Consulta. Il diritto alla libertà fisica (il cosiddetto «habeas corpus»), superiore ad ogni altro (a parte il diritto alla vita), trova una tutela specifica nell’art. 27 della Costituzione, che ne esclude la limitazione prima di una sentenza definitiva di condanna. Esso è certamente un diritto inviolabile, ricompresso nell’ampia dizione dell’art. 2. E tuttavia, diversamente accade per effetto della preclusione di cui all’art. 49 d.lgs. n. 546/1992, bastando una prima sentenza sfavorevole al contribuente per consentire all’Amministrazione finanziaria di aggredire esecutivamente diritti e posizioni giuridiche che, per essere indispensabili ad assicurare al cittadino un’esistenza libera e dignitosa, sono inviolabili al pari della libertà personale. Si fa qui riferimento di diritti e posizioni giuridiche di grande importanza nella vita dell’uomo, che il giudice deve valutare con prudente apprezzamento, caso per caso, in relazione alle quali si può fare un parallelo con i diritti naturali che devono essere rispettati dal diritto positivo almeno fino a quando il loro necessario sacrificio, per il soddisfacimento delle esigenze anch’esse garantite costituzionalmente dall’art. 53, non sia affermato da una sentenza definitiva. Come avviene in forza dell’art. 27 Cost., si diceva.
Per continuare il raccordo con il diritto naturale al fine di esporre qualche esempio concreto che ponga sempre in maggiore evidenza l’illegittimità costituzionale del denunciato art. 49, uno dei diritti inviolabili della persona è certamente quello di avere un’abitazione. Ci si scusi il paragone, non irrispettoso per gli umani ed innegabilmente efficace, come gli animali hanno una tana e gli uccelli hanno un nido, la persona umana ha un «tetto» e l’ha sempre avuto, dalla caverna, alla palafitta, alla casa in muratura. La vendita di un bene adibito ad abitazione (quando essa costituisca l’unico «tetto») in sede di esecuzione fiscale non è solo una perdita di ordine patrimoniale ma rappresenta il di lui sradicamento dall’ambiente naturale di vita, che, con la vicinanza di persone care, amiche, punti di approvvigionamento e servizi sociali gli assicurano la cura della persona e la dignità dell’esistenza, difficile e lunga da ricostituire in altra abitazione e in altra zona. Anche il richiamo – per inciso – ai beni mobili impignorabili ex art. 515c.p.c. conforta e rafforza le esposte ragioni per una tutela cautelare che superi lo sbarramento dell’art. 49.
Sullo stesso piano, il fermo di un mezzo indispensabile per il lavoro, come ad esempio un motofurgone Ape adibito alla vendita ambulante, o il rischio di una paralisi dell’attività lavorativa di un’impresa, o addirittura il pericolo di fallimento della medesima, con conseguente perdita di posti di lavoro, se fosse esecutivamente obbligata all’adempimento di un debito fiscale, specie se questo è di rilevante entità, sono situazioni nelle quali manca un’adeguata tutela cautelare nell’arco della durata dell’intero giudizio, fino alla sentenza definitiva della Corte di Cassazione, appunto per l’ostacolo insuperabile dell’art. 49, che pertanto viola precetti costituzionali posti a tutela dei valori superiori dell’uomo.
La questione della illegittimità costituzionale della predetta norma, per contrasto con gli artt. 2 e 4 della Costituzione, non appare, per tutte le ragioni suesposte, manifestamente infondata e ne va rimessa quindi la soluzione alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
Visti gli artt. 23 ss. legge 11 marzo 1953, n. 87;
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1 d.lgs.31 dicembre 1992, n. 546, in riferimento agli artt. 2 e 4 Costituzione e 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in relazione all’art. 10 della Costituzione, nella parte in cui l’art. 49 citato non prevede la possibilità di sospensione della efficacia di provvedimenti impositivi ed esecutivi dell’Amministrazione finanziaria, confermati da sentenze pronunciate in primo grado ed in grado di appello, qualora dalla loro esecuzione derivi pericolo di grave ed irreparabile danno, con carattere di irreversibilità e non altrimenti evitabile, ad uno dei diritti inviolabili riconosciuti e tutelati dai predetti artt. 2 e 4 della Costituzione e 6 della citata Convenzione europea;
Sospende il presente giudizio fino all’esito del giudizio incidentale di costituzionalità;
Dispone che la Segreteria provveda: a) all’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; b) alla notifica della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri ed alle parti processuali costituite; c) alla comunicazione della stessa ordinanza ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
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Provvedimento pubblicato nella G.U. del 22 maggio 2013, n. 21