Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo sentenza n. 257 sezione 6 depositata il 15 marzo 2018
RIMBORSO – DOPPIA IMPOSIZIONE – VERIFICA DELL’EFFETTIVO PAGAMENTO DELL’IMPOSTA SUI DIVIDENDI TRASFERITI ALL’ESTERO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con ricorso depositato il 2292006 la Q. BV -società con sede nel Regno Unito, che nelle more del giudizio ha assunto la diversa denominazione di E.- ha impugnato il silenzio rifiuto opposto dal Centro Operativo di Pescara (COP) alla sua istanza di rimborso della metà del credito d’imposta relativo ai dividendi distribuiti in suo favore, negli anni 2002 e 2003, dalla controllata italiana s.p.a. E., di cui essa Q. possiede il 99,83% del capitale:
ed a sostegno del ricorso ha invocato l’art. 10 della convenzione Italia-Gran Bretagna, tesa ad evitare la doppia imposizione, ratificata con 1. 3291990. La CTP di Chieti ha accolto il ricorso;
questa CTR ha confermato la decisione, ma la Corte di Cassazione, adita dal COP, ha cassato la sentenza, rilevando che il COP aveva negato la spettanza del diritto sul rilievo che la Q. non aveva dimostrato d’essere il “beneficiano effettivo” dei dividendi, e quindi la sussistenza del presupposto del diritto al rimborso. Più in particolare, la Suprema Corte ha rilevato che questa CTR aveva affermato la sussistenza del presupposto in parola, ponendo a base della sua decisione una nozione formalistica della qualità di beneficiano effettivo;
ed omettendo di verificare se, in concreto, la Q. avesse poi avuto la disponibilità effettiva, giuridica ed economica, di quelle somme;
o se le avesse trasferite ad altra società del gruppo, o alla società americana Q. che, tramite alcune holding e subholding, controlla tutte le società del gruppo, con sede in diversi Paesi europei. A tale riguardo la Corte ha rilevato che “il concetto di beneficiano effettivo non può coincidere con quello più ampio di soggetto che, residente all’estero e ivi soggetto a imposizione, riceve i dividendi, ma richiede un quid pluris, rappresentato dall’essere tale soggetto anche colui che ha la effettiva disponibilità giuridica ed economica dei dividendi’. Mentre la sentenza cassata aveva “posto a base della propria decisione una nozione formalistica di beneficiano effettivo, tale da farla coincidere sostanzialmente con quella di soggetto percettore dei dividendi e a tal titolo soggetto all’imposta nel paese estero, in netto contrasto non solo con la vista finalità riconnessa a tale condizione nella prassi internazionale (volta a richiedere una attenzione sostanziale alle ragioni giuridiche ed economiche sottese ai collegamenti societari transnazionali al fine di contrastare pratiche di “treaty shopping” e, in tale prospettiva, ad attribuire rilievo alla effettiva disponibilità giuridica ed economica dei dividendi), ma anche con i dati emergenti dalla citata norma convenzionale, univocamente diretti a distinguere la condizione di beneficiario effettivo da quella di effettivo percettore dei dividendi nonché da quella ulteriore di società “a tal titolo” soggetta a imposta nello Stato estero”. In secondo luogo, la Suprema Corte ha rilevato che questa CTR aveva ritenuto sufficiente, ai fini dell’applicazione della convenzione sul divieto di doppia imposizione, la semplice attestazione che la Q. fosse soggetta, in Gran Bretagna, alle imposte sui redditi;
mentre avrebbe dovuto verificare, specificamente, che erano soggetti ad imposta i dividendi percepiti dalla società italiana. Nel riassumere il giudizio dinanzi a questa CTR, il COP ha reiterato i motivi dell’appello a suo tempo proposti contro la decisione della CTP, secondo i quali la Q. non avrebbe fornito la prova d’essere il beneficiano effettivo dei dividendi, e del fatto che quei dividendi sono tassati in Gran Bretagna. A tale fine rappresenta che la sentenza della Suprema Corte, così come la più recente giurisprudenza europea, richiedono che si pervenga all’individuazione del beneficiano effettivo avendo riguardo alla sostanza dell’operazione, piuttosto che affidandosi a meri elementi formali:
per cui detto beneficiario va individuato non tanto nel semplice percettore dei dividendi, ma nel soggetto che tragga il beneficio effettivo dall’operazione, ottenendo la definitiva disponibilità delle somme. In altri termini, occorre evitare che l’operazione si traduca in una mera interposizione di un soggetto -titolare del diritto a fruire dei benefici accordati dal trattato- che poi trasferisce il ricavato ad un soggetto diverso, che non ha diritto al beneficio, ma ne gode comunque, per il tramite del soggetto interposto. A tale fine rappresenta che la Q. BV è stata costituita in Olanda, nel 1996, come s.r.l.;
qui ha mantenuto la sede, pur avendo aperto (nel 2002) un ufficio in Gran Bretagna, definito “società controllata”;
che in Olanda, e non anche in Gran Bretagna, la Q. è iscritta alla Camera di Commercio;
che solo la convenzione Italia – Gran Bretagna (e quella con la Francia, ma non anche quella con l’Olanda) attribuisce il credito d’imposta, particolarmente vantaggioso, di cui qui si discute. Di conseguenza, secondo il COP, la Q. è una società di diritto olandese, una volta che in Olanda si colloca la sua sede effettiva, e cioè il centro dove viene svolta, in via prevalente, l’attività direttiva ed amministrativa;
per cui ha aperto un ufficio in Gran Bretagna al solo fine di beneficiare del trattamento convenzionale qui in esame. Aggiunge che le due società, olandese ed inglese, sono a loro volta controllate (attraverso altre holding e subholding) da una società capogruppo, che ha sede negli Stati Uniti. Di conseguenza, secondo il COP, l’apertura della sede inglese è diretta a beneficiare di agevolazioni derivanti da trattati internazionali altrimenti non spettanti, e costituisce perciò un caso di “traty shopping” (ricerca del Paese che ha il trattato di volta in volta più conveniente), e quindi un evidente abuso del diritto:
anche perché la società inglese svolge soltanto l’attività di mero collettore dei dividendi distribuiti dalle diverse società del gruppo, sparse per l’Europa, ed allocate in Paesi con una tassazione più elevata. Si trattava, quindi, di una “conduit company”, come dimostrato dal fatto che la direzione effettiva era allocata in Olanda, per cui non poteva essere individuata come il beneficiano effettivo, e l’intera operazione aveva evidenti finalità elusive. A tale fine rappresenta che anche il Commentario OCSE (art. 10, paragrafo 4, comma 32) consiglia -al fine di evitare abusi delle convenzioni contro la doppia imposizione, trasferendo azioni a “stabili organizzazioni” allocate in Stati che riservano un regime privilegiato alla tassazione dei dividendi- di qualificare come “stabile organizzazione” solo quella che, nello Stato, svolge un’attività commerciale o industriale;
e di ricollegare a quella società solo le partecipazioni che siano realmente connesse all’attività effettivamente svolta:
e la Q., per quanto detto, in Gran Bretagna non svolge attività industriale, né commerciale. In secondo luogo, il COP reitera la difesa secondo la quale la Q. non aveva fornito la prova del fatto che i dividendi fossero soggetti ad imposta in Gran Bretagna:
tant’è che l’art. 29 della convenzione richiede una certificazione specifica (secondo la quale “sussistono le condizioni richieste per avere diritto all’applicazione delle esenzioni e delle riduzioni previste dalla Convenzione”, che nella specie non era stata depositata;
ed anzi, era pacificamente acquisita al giudizio la circostanza che la società gode, nel Regno Unito, dell’esenzione dall’imposta sui dividendi percepiti da società con sede in altri Stati:
per cui nella specie restava escluso qualsiasi rischio di doppia imposizione. La Q. ha chiesto il rigetto del gravame, rappresentando che il trasferimento della sede operativa nel Regno Unito (restando in Olanda la sede legale) era stato frutto di un’opzione lecita;
mentre l’effettività e l’operatività della sede inglese era provata con documenti (la certificazione dell’autorità fiscale inglese, i verbali d’assemblea, le dichiarazione dei redditi);
nega che la scelta sia stata dettata da fini elusivi, posto che la sede operativa è stata mantenuta in Gran Bretagna anche dopo l’eliminazione del sistema del credito d’imposta;
e rappresenta che la società inglese raccoglie i dividendi erogati da tutte le società del gruppo, con sede non soltanto in Italia, ma anche in Francia, Austria, Olanda e Germania. Deduce di svolgere l’attività propria delle holding, e d’essere, perciò, la beneficiaria effettiva dei dividendi distribuiti dalle società controllate;
aggiunge di svolgere anche attività ulteriore, di acquisto e vendita di partecipazioni azionarie, e di direzione e coordinamento delle società del gruppo;
di non essere obbligata a trasferire i dividendi alla capogruppo americana, tant’è che la gran parte degli stessi è rimasta nel regno Unito;
d’essere irrilevante, ai fini qui considerati, la circostanza che essa ha costi di gestione risicati, essendo quei costi compatibili con l’attività propria di una holding. Quanto, poi, alla sottoposizione dei dividendi alla tassazione inglese, deduce che la circostanza emerge dalla certificazione dell’autorità fiscale inglese, secondo la quale Q. è “assoggettata alle imposte sui redditi senza possibilità di esenzione” ed, in particolare, è soggetta “all’imposta del Regno Unito per i dividendi percepiti da società italiane e per il relativo credito d’imposta previsto dall’art. 10, paragrafo 4, lett. B) della convenzione Italia Regno Unito”. Tant’è che i dividendi di cui qui si discute hanno concorso a formare il reddito assoggettato ad imposta nel Regno Unito, ed il credito d’imposta riconosciuto dal Regno Unito per eliminare la doppia imposizione è stato ridotto dell’ammontare suscettibile di rimborso da parte dello Stato italiano. Queste essendo le posizioni assunte dalle parti, occorre considerare che in materia di rimborsi, e più in generale di agevolazioni tributarie, l’onere della prova ricade, normalmente, sul contribuente che invochi il rimborso. E tuttavia, quando si contesti che il contribuente sia il beneficiano effettivo dei dividendi distribuiti da una società controllata, grava necessariamente sull’Amministrazione l’onere di fornire elementi di giudizio, anche presuntivi, che quell’affermazione corroborino:
essendo evidentemente impossibile, per il ricorrente, fornire la prova di un fatto negativo, e quindi di non avere “girato” le somme percepite ad un’altra società, da cui è controllata a sua volta. E nel caso di specie nessun elemento di giudizio è stato addotto che valga a fondare il sospetto che la Q. non sia il beneficiano effettivo dei dividendi. E’ invece fondato l’altro motivo di gravame:
la certificazione dell’autorità fiscale inglese (doc. n. 21) attesta, unicamente, che la Q. è “domiciliata in Gran Bretagna”, “che ivi è assoggettata alle imposte sui redditi senza possibilità di esenzione” e che “è soggetta all’imposta del Regno Unito per i dividendi percepiti da società italiane e per il relativo credito d’imposta previsto dall’art. 10, paragrafo 4, lett. B) della convenzione Italia Regno Unito del 21 ottobre 1988”. Come si vede, il documento attesta l’astratto assoggettamento all’imposta, ma nulla dice sul fatto che un’imposta sia stata poi effettivamente pagata;
e prim’ancora, nulla dice sul fatto che la legislazione inglese preveda, anche in astratto, il pagamento di un’imposta sui dividendi di cui qui si discute. Per cui non può dirsi raggiunta la prova di una duplicazione d’imposta;
ed anzi, sembra che la Q. miri ad ottenere una doppia “non imposizione”. Le spese del grado, e quelle del giudizio di Cassazione seguono la soccombenza, e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
decidendo quale Giudice del rinvio dalla Cassazione, accoglie l’appello proposto dall’Ufficio, respinge l’istanza di rimborso, e condanna la E. BV al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione e del presente giudizio di rinvio, liquidate in ? 15.000 per ciascun grado, oltre accessori di legge
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