CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 gennaio 2018, n. 2290
Collaborazione a progetto – Caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato – Differenze retributive
Rilevato
che il Tribunale di Saluzzo, in parziale accoglimento del ricorso proposto da L.B. nei confronti della F.I. spa -con cui, sulla premessa di avere ceduto nel 2005, unitamente alla consorte C.L., tutte le quote della B. srl e di avere svolto attività lavorativa dal 2.2.2005 al 31.12.2008 di vendita dei prodotti F. in formale regime di collaborazione a progetto ma nella sostanza con le caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato e qualificato come illegittimo licenziamento la comunicazione del 10.12.2008 di cessazione del rapporto stesso, aveva chiesto il pagamento di varie somme per i titoli ivi indicati- riteneva la società non validamente costituita per difetto di procura e condannava quest’ultima al pagamento dell’importo di euro 44.855,53 oltre accessori, compensando per metà le spese di lite e condannando l’originario ricorrente al pagamento della restante metà;
che con la sentenza n. 638/2012 la Corte di appello di Torino ha accolto parzialmente l’appello principale del B., relativamente alle determinazioni sulle spese di lite, condannando la società a rimborsare un quinto delle spese di primo grado, come liquidate nella gravata pronuncia, mentre ha respinto l’appello incidentale spiegato dalla F.I. spa;
che avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione L.B. affidato a due motivi;
che la F.I. spa ha resistito con controricorso;
che il PG non ha formulato richieste scritte;
che sono state depositate memorie.
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, si censura: 1) l’omessa, contraddittoria ed illogica motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 cpc nonché la violazione dell’art. 69 D.Igs n. 276/2003, in relazione all’art. 360 n. 3 cpc, per avere erroneamente ritenuto la Corte territoriale legittimo il contratto di collaborazione a progetto, intercorso tra le parti, quando, invece, dalle prove acquisite e da una serie di elementi in atti era emerso che chiaramente il rapporto aveva la forma della subordinazione; 2) la violazione dell’art. 1362 cc, in relazione all’art. 360 n. 3 cpc, per essere stata erroneamente rigettata la domanda di corresponsione del premio sul maggior fatturato, oltre gli euro 4.800.000,00, perché la Corte territoriale si era limitata all’interpretazione del dato letterale della clausola senza indagare l’effettiva intenzione delle parti;
che il primo motivo è inammissibile in quanto, ancorché svolto sotto il profilo della violazione di legge, si sostanzia nella critica della ricostruzione fattuale operata dalla Corte territoriale, configurando, come tale, una censura riconducibile al paradigma del vizio di motivazione che non conferisce, però, al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, essendo del tutto estranea nell’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie;
che, pertanto, il vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo qualora nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibili tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr. tra le altre Cass. n. 824/2011; Cass. n. 13783/2006);
che, al contempo, va considerato che affinché la motivazione adottata dal giudice del merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr. Cass. 12121/2004; Cass. n. 24542/2009);
che, nel caso in esame, la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici, giungendo alla conclusione di escludere la sussistenza dei requisiti per ravvisare un rapporto di natura subordinata; le valutazioni svolte e le conclusioni coerenti che ne sono state tratte configurano, quindi, un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole, espressione di una potestà propria del giudice di merito che non può essere sindacata nel suo esercizio (cfr. Cass. n. 142/2010; 14911/2010);
che il secondo motivo presenta, da un lato, profili di inammissibilità, sotto l’aspetto del requisito della specificità, perché non è stata riportata nel ricorso la clausola contrattuale nella sua interezza e non è stata fornita, riguardo ad essa, una interpretazione alternativa a quella adottata dalla Corte di merito con la prospettazione di una differente regola esegetica da cui desumere un significato diverso da quello letterale delle parole utilizzate dai contraenti;
che, dall’altro, la censura si rivela anche infondata perché, come da consolidato orientamento di questa Corte, l’interpretazione del contratto è attività riservata al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione: i giudici di secondo grado, nel caso de quo, non limitandosi ad una interpretazione letterale del documento, che non riconosceva alcun premio per un fatturato superiore ad euro 4.800.000,00, hanno anche sottolineato, con argomentazione logica e congrua, che l’entità del premio, prevista per importi minori di fatturato e pattuita in cifra fissa e non a percentuale, non consentisse in sostanza un diverso accertamento della volontà delle parti, differente da quello risultante dal dato letterale (finalizzato cioè ad un riconoscimento progressivo del premio stesso);
che alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato;
che, al rigetto del ricorso, segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo;
che, in considerazione della data di notifica e di iscrizione a ruolo del ricorso per cassazione (anteriore al 31.1.2013), non si applica il disposto di cui all’art. 13 comma 1 quater DPR n. 115/2002 nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
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