CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 aprile 2017, n. 9591

Contratto di fornitura di lavoro temporaneo – Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – Risoluzione per mutuo consenso – Indennità ex art. 32, co. 5, L. 183/2010

Fatti di causa

Con ricorso al Tribunale di Padova in data 8.5.2008 N.A.B.K. agiva nei confronti della società C.D.T. spa, chiedendo accertarsi la intercorrenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato dal 10.5.2004 e condannarsi il datore di lavoro al suo ripristino ed al risarcimento del danno.

Con sentenza nr. 354/2011 il giudice del lavoro rigettava la domanda, accogliendo la eccezione preliminare della società resistente di risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

La Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 6.3 – 16.5.2014 (nr. 143/2014), in accoglimento dell’appello del lavoratore, dichiarava costituito tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e condannava la società al ripristino della sua funzionalità ed al pagamento della indennità di cui all’articolo 32 co. 5 L. 183/2010.

Rilevava che gli elementi valorizzati dal giudice del primo grado – ovvero il decorso del tempo e la rioccupazione del lavoratore a tempo indeterminato – non costituivano comportamento concludente del lavoratore diretto a porre fine al rapporto di lavoro.

Nel merito la società C.D.T. non aveva prodotto il contratto di fornitura di lavoro temporaneo concluso per la utilizzazione del lavoratore; si applicava al primo dei rapporti intercorsi la previsione dell’articolo 10 comma 2 L. 196/1997, che in assenza della forma scritta considerava il lavoratore interinale dipendente a tempo indeterminato della impresa utilizzatrice.

In punto di conseguenze economiche, doveva applicarsi anche ai contratti di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo l’articolo 32 co. 5 L. 183/2010, con liquidazione della indennità in sei mensilità della retribuzione globale di fatto; sull’importo erano dovuti rivalutazione ed interessi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Per la cassazione della sentenza ricorre la società C.D.T. spa articolando due motivi, illustrati con memoria.

N.A.B.K. è rimasto intimato.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo la società ricorrente ha denunziato -ai sensi dell’articolo 360 nr. 3 cpc – violazione e falsa applicazione degli artt. 1372 cc – 1375 e segg. cc. – 2697 cc, in riferimento alla statuizione di mancata integrazione del mutuo consenso alla risoluzione del rapporto di lavoro.

La parte ricorrente ha esposto che l’ultimo contratto a termine era cessato in data 31.7.2005 e che la prima contestazione della validità dei rapporti intercorsi era avvenuta soltanto con lettera dell’ 11.12.2007.

Nella more, come emerso dai documenti depositati nel primo grado, il NGOM aveva lavorato nell’anno 2006 pressocchè ininterrottamente per la Agenzia per il lavoro ADECCO e dal 2 febbraio 2007 era stato assunto a tempo indeterminato dalla società T. snc di B.G.T.A.

La coesistenza degli elementi del passaggio del tempo e della rioccupazione a tempo indeterminato forniva la prova della risoluzione del rapporto di lavoro anche in relazione alla valutazione della condotta delle parti sul piano oggettivo, socialmente tipico.

Il motivo è in parte inammissibile in parte infondato.

E’ inammissibile nella parte in cui devolve a questa Corte un nuovo esame del fatto ed in particolare della condotta del lavoratore quale manifestazione tacita della volontà di risolvere il rapporto; trattasi invero di giudizio di merito, sindacabile in questa sede soltanto nei limiti del vizio di motivazione.

Sul punto SU nr. 21691/2016 ha nuovamente ribadito che «con riferimento al caso dei contratti a tempo determinato, la mancata impugnazione della clausola che fissa il termine viene considerata indicativa della volontà di estinguere il rapporto di lavoro tra le parti a condizione che la durata di tale comportamento omissivo sia particolarmente rilevante e che concorra con altri elementi convergenti ad indicare, in modo univoco ed in equivoco, la volontà di estinguere ogni rapporto di lavoro tra le parti. Il relativo giudizio attiene al merito della controversia».

Nella fattispecie il vizio della motivazione (regolato ratione temporis dal nuovo testo dell’articolo 360 nr. 5 cpc) neppure è stato dedotto e, comunque, gli elementi di fatto indicati nel motivo (il decorso del tempo e la riassunzione del lavoratore a tempo indeterminato) sono stati tutti esaminati in sentenza.

Il motivo è infondato nella parte in cui assume che il mutuo consenso debba essere desunto sulla base di una condotta sociale tipica; come ripetutamente affermato da questa Corte (ex plurimis: Cass. n.ri 3924, 4181, 7282, 7630, 7772, 7773, 13538, 14818/2015, nonché Cass. 14809/2015), da ultimo con la citata pronunzia a sezioni Unite, ciò che rileva non è la oggettività della condotta ma l’accertamento della chiara, certa e comune volontà delle parti del rapporto lavorativo. Al riguardo non può dunque condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di una presupposta valutazione sociale “tipica” (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209) prescinde del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale che, in quanto tale, seppure tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo (in termini: Cass. 28-1-2014 n. 1780).

2. Con il secondo motivo la società ricorrente ha denunziato – ai sensi dell’articolo 360 nr. 3 cpc – violazione e falsa applicazione dell’articolo 32 co. 5 L. 183/2010 e dell’articolo 429 cpc, in relazione alla riconosciuta decorrenza degli accessori sulla indennità liquidata ai sensi dell’articolo 32 co. 5 L. 183/2010 dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

La società ricorrente ha dedotto che la statuizione si poneva in consapevole contrasto con un precedente di questa Corte di legittimità (Cass. nr. 3029/2014), secondo il quale gli accessori sulla predetta indennità decorrono soltanto dalla data della sentenza.

Il motivo è fondato.

Deve in questa sede darsi continuità al principio già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 17.02.2016, n. 3062; Cass. 11.02.2014 n. 3027), in conformità alla interpretazione offerta anche dalla Corte Costituzionale (Corte Cost., sent n. 303 del 2011), secondo cui l’indennità ex art. 32 L. 183/2010 configura una sorta di penale ex lege a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo.

Essa è liquidata nei limiti e con i criteri fissati dal citato articolo, senza avere riguardo ad eventuale aliunde perceptum o percipiendum, e copre i danni causati dalla nullità del termine nel periodo, cosiddetto intermedio, decorrente dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione del rapporto (v. Cass. 29.02.12 n. 3056; 5.06.12 n. 9023; 9.08.13 n. 19098; 11.02.14 n. 3029, 17.07.14 n. 16420).

Tale impostazione è stata fatta propria dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, che all’art. 1 comma 13, con norma di interpretazione autentica, ha previsto che «la disposizione di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro».

Ne consegue che l’indennità non ha natura retribuiva, per cui su di essa non spettano né la rivalutazione monetaria né gli interessi legali se non dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato.

In conclusione, rigettato il primo motivo, la sentenza di appello deve essere cassata limitatamente al capo investito dal secondo motivo. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, può procedersi a pronunzia di merito dichiarando che la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sono dovuti dal datore di lavoro a decorrere dalla pronunzia della sentenza di secondo grado.

Le spese dell’intero giudizio, regolate in dispositivo, seguono la soccombenza, a carico dell’intimato nel presente grado e della società ricorrente nei gradi di merito.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, provvedendo nel merito, dichiara dovuti la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sull’indennità liquidata ex art. 32, comma 5, L. 183/2010 dalla data della sentenza di secondo grado.

Condanna l’intimato al pagamento delle spese del presente grado, che liquida in € 100 per spese ed € 3.000 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Condanna la società C.D. TECH spa al pagamento delle spese dei due gradi di merito, che liquida un € 1.400 – di cui € 100 per spese – per il giudizio di primo grado ed € 1.860 – di cui € 100 per spese per il giudizio di secondo grado oltre accessori di legge, con distrazione in favore del difensore.