CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 aprile 2017, n. 9744

Agente di commercio monomandatario – Risoluzione del rapporto – Indennità suppletiva di clientela – Riconoscimento

Fatti di causa

1. Con la sentenza n. 5851/2009 la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città, in data 6.7/2/2007, con la quale era stata respinta la domanda, proposta da M. P. volta ad ottenere, per l’attività compiuta quale agente di commercio monomandatario per conto della FA.SE. CARTA srl dal 15.1.2002 al 28.2.2005, l’indennità di risoluzione del rapporto, l’indennità suppletiva di clientela e l’indennità conseguente alla clausola che prevedeva il patto di non concorrenza; il tutto per euro 11.996,81.

2. A fondamento della decisione i giudici di seconde cure hanno precisato che: a) relativamente all’asserito accantonamento presso il Fondo Indennità di risoluzione del rapporto (FIRR) gestito dall’ENASARCO, da parte della società, di somme inferiori a quelle dovute, non erano stati dimostrati, anzi erano stati contestati, i presupposti su cui si fondava la differenza richiesta; b) con riguardo alla indennità suppletiva di clientela, non erano state allegate le condizioni cui l’art. 1751 cc subordinava il riconoscimento di detta indennità; se la richiesta, invece, fosse stata basata sull’art. 12 AEC, nella originaria domanda della ricorrente non era stato dedotto che il contratto si era svolto ad iniziativa della casa mandante per fatto non imputabile all’agente, come invece era stato ex novo allegato in appello; c) circa la mancata erogazione di un indennizzo per il patto di non concorrenza, anche in questo caso la nullità della clausola di cui all’art. 12 del contratto individuale era stata proposta solo in appello e, pertanto, il suo esame era precluso.

3. Per la cassazione ricorre M. P. affidandosi a tre motivi

4. Resiste con controricorso la FA.SE. CARTA srl.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1751, 2697 e 2702 cc, degli artt. 11 e 12 dell’AEC 26.2.2002 e degli artt. 115, 116, 215 e 414 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. nonché l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. della sentenza nella parte in cui si è ritenuto che il diritto al residuo FIRR non era stato dimostrato, essendo la domanda fondata su presupposti contestati. In particolare deduce l’erroneità della gravata sentenza nella parte in cui apoditticamente era stato ritenuto provato e non bisognevole di riscontro l’assunto definitivo della società e, dall’altro, erano state incomprensibilmente disattese le risultanze documentali, travisando i fatti.

2. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 1751 e 2119 c.c. e degli artt. 11 e 12 punto II dell’AEC 26.2.2002, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. della sentenza nella parte in cui si era ritenuto che la richiesta di liquidazione dell’indennità suppletiva di clientela fosse subordinata ai requisiti meritocratici e, comunque, alla deduzione della non imputabilità all’agente dell’interruzione del rapporto operato dal preponente. Sostiene di avere avanzato la propria richiesta di vedersi liquidata l’indennità conseguente alla cessazione del rapporto di agenzia, quale componente prevista dall’AEC del 26.2.2002 in ordine a detta indennità, nel minor ammontare fissato dalla contrattazione collettiva proprio perché non ricorrevano, nel caso di specie, le condizioni previste dall’art. 1751 1c. cc e che improprio era stato il richiamo al fatto che nel ricorso introduttivo non era stato dedotto che il contrasto si fosse sciolto ad iniziativa della casa mandante “per fatto non imputabile all’agente o rappresentante” perché la società, nell’interrompere il rapporto e nel riconoscerle il preavviso, aveva di fatto reso inutile ogni questione sulla imputabilità della cessazione del rapporto.

3. Con il terzo motivo M. P. si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1343, 1418, 1419 II c, 1751 bis e 2697 cc, art. 7 dell’AEC del 26.2.2002, ed artt. 112, 414, 435 e 437 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. della sentenza, nella parte in cui si era ritenuto che l’omessa richiesta di nullità della clausola di cui all’art. 12 del contratto individuale era ostativa all’accoglimento della domanda di liquidazione dell’indennità per il patto di non concorrenza. Obietta che erroneamente i giudici di seconde cure avevano interpretato la richiesta ai sensi dell’art. 12 del contratto individuale, mentre, invece, oggetto della richiesta non era il compenso provvigionale previsto da tale disposizione bensì un’indennità che trovava la propria fonte nell’art. 1751 cc e che, comunque, l’omessa deduzione ab origine della nullità dell’art. 12 citato non avrebbe potuto di per sé giustificare il rigetto della domanda di erogazione di un indennizzo per il patto di non concorrenza post contrattuale cui l’agente era stato vincolato, trattandosi di nullità rilevabile di ufficio.

4. Il primo motivo non è fondato.

5. Le censure si risolvono, nella sostanza, in un riesame dei fatti ma con il motivo ex art. 360 n. 5 c.p.c. non può farsi valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti medesimi operata dal giudice del merito al convincimento della parte e, in particolare, non può proporsi una pretesa e un più appagante coordinamento dei dati acquisiti, poiché, tali aspetti di giudizio, essendo interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento, di modo che sono estranei al suddetto motivo di ricorso che altrimenti si risolverebbe in una istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito (tra le altre Cass. 6.10.1999 n. 11121; Cass. 30.8.2002 n. 12708).

6. Analogamente le doglianze di cui al motivo, in relazione al vizio ex art. 360 n. 3 c.p.c., sono inammissibili perché relative a valutazioni comportanti non un giudizio di diritto ma un giudizio di fatto in relazione alla situazione in concreto accertata.

7. Il secondo motivo non può essere accolto.

8. Invero, a fronte della affermazione dei giudici di seconde cure, che hanno qualificato la richiesta di indennità suppletiva ai sensi dell’art. 12 AEC, quale domanda nuova perché basata su allegazioni prospettate per la prima volta in appello, il ricorrente si è limitato a richiamare quanto dedotto nel ricorso di primo grado ove ha affermato che la “mandante con lettera raccomandata a/r in data 28.9.2004 (doc. 2) comunicava l’intenzione di recedere dal contratto nel rispetto del termine di preavviso dovutole”. Invero, il riconoscimento del preavviso, secondo il suo assunto, avvalora che il recesso era stato determinato per causa imputabile alla preponente e, conseguentemente, il suo diritto alla chiesta indennità.

9. Tale allegazione, però, è assolutamente generica ai fini di ritenere fondata la richiesta di indennità suppletiva ai sensi dell’art. 12 AEC mancando, appunto, la specificazione della caratterizzante circostanza (equità) utile ai fini della determinazione del criterio di calcolo chiesto ai fini della determinazione dell’indennità ai sensi dell’art. 12 citato, che può variare da un minimo ed un massimo da calcolarsi percentualmente a scaglioni sull’ammontare delle provvigioni complessivamente liquidate tenendo conto non solo dei fatti costituenti giusta causa del recesso ma anche dei motivi diversi che consentano di ridurre l’indennità ad un valore nullo.

10. E ciò prescindendo dal fatto che il riconoscimento del preavviso può collegarsi anche alla esistenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso e, quindi, non necessariamente ad un fatto imputabile alla mandante.

11. Correttamente, quindi, in assenza delle necessarie allegazioni, la richiesta – come successivamente precisata dall’originaria ricorrente – è stata considerata in sostanza inammissibile dalla Corte territoriale.

12. Infine, anche il terzo motivo non è meritevole di pregio perché viola il principio di autosufficienza del ricorso in cassazione.

13. I giudici di seconde cure hanno affermato che M. P. aveva lamentato la mancata erogazione del patto di non concorrere, deducendo la nullità della clausola di cui all’art. 12 del contratto individuale che costituiva domanda nuova.

14. La ricorrente sostiene, invece, di avere avanzato la richiesta di pagamento del suddetto patto ex art. 1751 cc e 7 AEC del 26.2.2002, come respinta in primo grado.

15. Orbene, con il motivo scrutinato, la P. non ha offerto assolutamente, mediante la trascrizione dei relativi atti, gli elementi riguardanti il “come” ed il “quando” abbia avanzato la richiesta nei termini precisati, non consentendo, pertanto, un corretto e puntuale esame della censura.

16. E’ opportuno ricordare, infatti, che nel giudizio di legittimità il ricorrente che censuri la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, deve specificare, ai fini del rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione stessa (cfr. Cass. 13.5.2016 n. 9888).

17. Da ultimo, in relazione alla censura secondo cui la dedotta nullità ex art. 12 del contratto individuale di agenzia, seppure tardivamente proposta, avrebbe potuto comunque essere rilevata di ufficio, va richiamato l’orientamento di questa Corte (Cass. 16.3.2016 n. 5249) in virtù del quale il principio del rilievo officioso della nullità va coordinato, nel giudizio di gravame, con quello del divieto di domande nuove cosicché l’istanza, ivi formulata per la prima volta, di declaratoria della nullità non può essere esaminata, potendo solo convertirsi nella corrispondente eccezione.

18. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere respinto.

19. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.