CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 dicembre 2016, n. 26157

Lavoro – Dipendente bancario – Operazioni non autorizzate – Risarcimento danni – Principi di correttezza e buona fede – Quantificazione del danno

Svolgimento del processo

La vicenda di cui è causa riguarda il dipendente della Banca Popolare di Sondrio, attuale ricorrente, R.A., addetto all’ufficio titoli della filiale di Brescia, il quale nel tentativo di porre rimedio ad un errore commesso nella negoziazioni di titoli relativi alla posizione del cliente R., eseguì operazioni non autorizzate da quest’ultimo, provocandogli una gravissima perdita, che la Banca quindi dovette ripianare. Il R. si dimise quasi immediatamente (ultimo giorno di lavoro il sette settembre 2001, venerdì / 11-09-01 martedì, Torri gemelle).

Con il ricorso introduttivo la BANCA POPOLARE di SONDRIO chiese la condanna del convenuto R. al risarcimento dei danni, ossia al rimborso delle somme che la stessa aveva dovuto accreditare al cliente R. per compensare le perdite subite, derivate dalle operazioni non autorizzate da quest’ultimo. Il convenuto, a sua, volta nel resistere alle pretese avversarie, spiegò anche domanda riconvenzionale per ottenere il pagamento dell’ultimo mese di retribuzione e del t.f.r., mai corrispostogli, nonché per il risarcimento di asseriti danni alla salute, patiti a causa della situazione stressante in cui era stato costretto ad operare.

L’adito giudice di primo grado, con sentenza del 20/25 settembre 2007, accolse in parte la domanda della BANCA, limitatamente ai danni relativi alle somme accreditate sul conto del cliente, quindi relativamente al minor importo di 399.006,47 euro, in relazione la debito cristallizzato al sette settembre 2001, ultimo giorno di lavoro del R., poiché da epoca successiva la BANCA avrebbe potuto gestire la vicenda vendendo anticipatamente i titoli (con scadenza 21-09-01), così da contenere le perdite. Inoltre, detrasse l’importo pari alle perdite, che il cliente aveva accettato come imputabili ad operazioni da lui autorizzate, e non già ad iniziative autonome del R.. Il tribunale accolse, altresì, le domande di pagamento, spiegate in via riconvenzionale dal convenuto, operando la compensazione tra le relative poste.

Per contro, la sentenza in seguito appellata disattese, perché giudicate infondate, le pretese risarcitone azionate dal resistente, omettendo tuttavia di menzionare tale rigetto nel dispositivo.

Avverso la suddetta pronuncia interponeva parziale gravame la BANCA POPOLARE di SONDRIO, chiedendo la riforma della pronuncia di primo grado, con richiesta di esplicitare il rigetto della domanda di risarcimento danni da parte del convenuto omessa nel dispositivo.

Per il resto, l’appello della BANCA investiva la quantificazione della propria domanda risarcitoria, lamentando che il primo giudicante erroneamente non aveva riconosciuto tutte le perdite subite relativamente alla posizione titoli del cliente R., sino alla prevista scadenza dei contratti irregolarmente acquisiti dal R..

La Corte di Appello di MILANO con sentenza n. 0652 in data 8 giugno – 5 agosto 2010, pronunciata in contumacia dell’appellato R., confermava espressamente il rigetto della domanda di risarcimento del danno, spiegata in via riconvenzionale, rigettando altresì nel resto il gravame, con conseguente conferma della pronuncia di primo grado.

Infatti, secondo la Corte territoriale, premesso che era stata a suo tempo ritualmente formulata da parte del convenuto idonea eccezione ex art. 1227 comma II c.c., la stessa risultava ad ogni modo fondata. Se era vero che l’esito eccezionalmente negativo della borsa nei giorni seguenti era imprevedibile, di guisa che non si poteva ritenere che le ragioni di prudenza finanziaria consigliassero comunque la vendita, tuttavia nel caso concreto la vendita stessa era imposta da fatto che la Banca alla data del 10 settembre 2001 sapeva che gli acquisti erano stati effettuati senza l’autorizzazione del cliente, cosicché si imponeva un primo ed immediato intervento di regolarizzazione della posizione, mediante la loro vendita. La BANCA aveva invece atteso nella speranza che l’andamento della borsa fosse stato migliore, onde trarne vantaggio, nel senso di poter limitare il risarcimento dovuto al proprio cliente, e qualora fosse peggiorato di addebitarne almeno formalmente le conseguenze al R..

Ad avviso della Corte distrettuale, in effetti, la Banca a partire dal 10 settembre aveva fatto proprie le precedenti operazioni non autorizzate, consentendo che sulla posizione del cliente continuassero a verificarsi le conseguenze di acquisiti fin dall’origine illegittimi e che dunque andavano immediatamente stornati dalla posizione dello stesso cliente, senza attendere la scadenza pattizia. Ma anche ammettendo che entrambi i comportamenti fossero corretti, si trattava comunque di una scelta non obbligata operata dalla BANCA e che rompeva il nesso di causalità tra l’acquisto originario da parte del R. e le conseguenze (negative o ad ogni modo dannose), successivamente verificatesi.

Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la Soc. coop.va per azioni BANCA POPOLARE di SONDRIO con atto di cui alla relata di notifica a mezzo posta in data 22 aprile 2011, atto quindi ritirato dal destinatario il 30-04-201, affidato ad un solo motivo.

R.A. è rimasto intimato.

Non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di impugnazione, la ricorrente ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 1227, comma 2, c.c. laddove era stata imputata alla banca la mancata vendita dei titoli rischiosi – c.d. derivati, citando tra l’altro Cass. I civ., sentenza n. 10895 del 04/02-05/05/2010.

Secondo la ricorrente, l’assunto che la stessa avrebbe potuto vendere immediatamente i contratti de quibus implicava, da parte del creditore, un onere relativo ad un tacere comportante per sua natura l’assunzione di un rischio, ossia quello di aggravare il danno, non preventivabile. Nessuno il 10 settembre 2001 (vigilia dell’attentato alle Torri gemelle di New York, verificatosi il successivo giorno 11) poteva supporre che vendendo subito i titoli, piuttosto che mantenerli fino alla loro naturale prossima scadenza del 21 settembre 2001, si sarebbe evitata una perdita; il 10 settembre 2001, infatti, la situazione di mercato era ovviamente neutra; né era preventivabile che il giorno seguente si sarebbe verificato un evento eccezionale, come l’attentato terroristico alle Torri gemelle, che avrebbe comportato il repentino brusco crollo del mercato borsistico. Quindi, solo con un tipico ragionamento ex post poteva dirsi che se i contratti fossero stati chiusi il 10 settembre 2001 si sarebbe evitata la perdita. Il ragionamento della Corte milanese, che addossava alla banca le minusvalenze generatesi sui contratti in oggetto a partire dal 10 settembre 2001, appariva dunque affetto da un grave errore concettuale, di interpretazione del precetto di cui al secondo comma dell’articolo 1227 c.c., il quale sottendeva l’affermazione che il dovere di diligenza di cui alla citata norma avrebbe imposto alla Banca di liquidare alla data del 10 settembre i contratti abusivamente conclusi dal R.. Si trattava però di un’affermazione improponibile, dal momento che nessuno in quella situazione avrebbe potuto prevedere che la liquidazione anzitempo dei contratti avrebbe diminuito la perdita. Anzi, proprio un canone di minimale diligenza imponeva all’epoca di non procedere ad iniziative attive che avrebbero potuto amplificare il danno. In senso contrario sarebbe stato necessario dimostrare che ex articolo 1227 comma due allora un soggetto dirigente avrebbe dovuto agire diversamente da come fatto dalla banca. Tale affermazione non sono era rimasta indimostrata ma era altresì indimostrabile perché nessuno il 10 settembre 2001 poteva prevedere l’andamento del mercato borsistico e quindi l’evoluzione dei contratti FIB 30.

D’altro canto, occorreva considerare che il danno cagionato dal R. era consistito non tanto nelle perdite sui contratti (fatto del tutto eventuale indipendenza di un evento incerto e casuale come l’andamento del mercato borsistico), bensì nell’assunzione di un rischio finanziario. Tale danno si era verificato già interamente con la semplice conclusione dei contratti, fatto addebitabile al solo R., dopodiché qualsiasi comportamento avesse tenuto alla banca, sarebbe stato comunque ininfluente che il suo esito sarebbe stato dipendente da un dato aleatorio non prevedibile e non dipendente da nessuno, quale l’andamento del mercato borsistico.

Era, altresì, del tutto estemporanea ed apodittica l’affermazione della sentenza impugnata circa la rottura del nesso causale tra l’acquisto originario da parte del R. dei contratti in questione e le conseguenze verificatesi a carico del cliente, in quanto il comportamento della Banca, qualsiasi esso fosse stato, era inidoneo, se valutato ex ante, ad incidere sulla sorte dei contratti illegittimamente acquistati dal R.. La controprova era data dalla considerazione che se la Banca avesse tenuto il comportamento (omissivo), che ex post le era stato rimproverato di non aver tenuto, cioè, la mancata immediata liquidazione dei contratti in parola, diversamente, se invece di scendere il mercato fosse salito, con conseguente apprezzamento del valore dei contratti stessi, ugualmente sarebbe stata discussa la responsabilità della Banca per non aver ridotto il danno.

Sotto altro profilo, la sentenza impugnata era illegittima per erronea applicazione del succitato articolo 1227, comma due, in materia di onere probatorio, ricadente perciò a carico della parte che intendeva avvalersi della relativa eccezione di un fatto estintivo – eccezione in senso proprio.

Di conseguenza, ai sensi dell’articolo 2697 (co. II) c.c., sarebbe stato onere del R. non solo dedurre in termini analitici circostanziati tale eccezione, ma anche e soprattutto dimostrare con ragionamento ex ante che un soggetto dirigente avrebbe dovuto prendere immediatamente i contratti illegittimamente negoziati al fine di evitare l’aggravamento del danno. La sentenza impugnata, per contro, addebitava senz’altro alla Banca un intento speculativo, così presumendo che fosse la stessa a dover giustificare la scelta di non vendere immediatamente i titoli, una volta conosciutane l’illegittima acquisizione. Così facendo, però, la Corte territoriale invertiva l’onere probatorio, gravante sul debitore ai sensi del citato articolo 1227, comma due, omettendo altresì di rilevare che in realtà l’assolvimento dell’onere in questione non si poteva pretendere, perché non raggiungibile dal debitore né dal creditore. Infatti, la concreta entità del danno dipendeva da un fattore per sua natura non preventivabile, ma rimesso ad un evento incerto e casuale quale l’andamento dei mercati. Ne derivava che l’eventuale aggravamento del danno, dipeso da un siffatto evento> non era in alcun modo riconducibile sotto il profilo causale al comportamento del creditore o di chiunque altro. Da ciò scaturiva, ulteriormente, la dimostrazione dell’incongrua ed erronea applicazione nella specie dell’articolo 1227, comma due, c.c. (Concorso del fatto colposo del creditore. – 1. Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate.

2. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza).

Le anzidette censure sono infondate, di modo che vanno disattese in base alle seguenti considerazioni.

In primo luogo, la ricorrente non coglie nel segno, con le sue doglianze, quella che risulta essere l’essenza della ratio decidendi adottata, laddove la Corte di Appello, pur avendo riconosciuto l’imprevedibilità dell’esito eccezionalmente negativo dell’andamento borsistico nei giorni seguenti all’attentato terroristico, di modo che non poteva ritenersi che ragioni di prudenza finanziaria consigliassero ad ogni modo la vendita, tuttavia nello specifico opinava che la cessione dei titoli era imposta dal fatto che la banca al 10 settembre 2001 già sapeva che gli acquisti erano stati eseguiti senza l’autorizzazione del cliente. Di conseguenza, si imponeva un primo ed immediato intervento di regolarizzazione della posizione, mediante la loro vendita. Per contro, la società aveva preferito attendere, sicché in sostanza a partire dal 10-09-2001 aveva fatto proprie quelle operazioni non autorizzate poste in essere dal suo (ex) dipendente (dimessosi, con ultimo giorno di lavoro il 7 settembre 2001), in tal modo consentendo che sulla posizione del cliente continuassero a prodursi le conseguenze negative di acquisti fin dalla loro origine illegittimi.

A fronte di tali accertamenti e considerazioni, del tutto coerenti e logiche, da parte del giudice di merito, appaiono inconferenti in sede di legittimità le anzidette diverse opinioni espresse dalla ricorrente, che non possono trovare alcun accoglimento nell’ambito della c.d. critica vincolata consentita dalle tassative ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c. (Cass. n. 25332 del 28/11/2014: il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione, che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa; ne deriva che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti.

Cfr., inoltre, Cass. IlI civ. n. 10295 del 07/05/2007, secondo cui, mentre il vizio di falsa applicazione della legge si risolve in un giudizio sul fatto contemplato dalle norme di diritto positivo applicabili al caso specifico – con la correlata necessità che la sua denunzia debba avvenire mediante l’indicazione precisa dei punti della sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse, fornita dalla giurisprudenza di legittimità e/o dalla dottrina prevalente – invece, il vizio relativo all’incongruità della motivazione comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto giuridicamente rilevante e sussiste solo qualora il percorso argomentativo adottato nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione, ragion per cui tra le due relative censure deducibili in sede di legittimità non vi possono essere giustapposizioni. Da ciò consegue che il ricorrente non può denunciare contemporaneamente la violazione di norme di diritto e il difetto di motivazione, attribuendo alla decisione impugnata un’errata applicazione delle norme di diritto, senza indicare la diversa prospettazione attraverso la quale si sarebbe giunti ad un giudizio sul fatto diverso da quello contemplato dalla norma di diritto applicata al caso concreto, perché la deduzione di questa deficienza verrebbe, nella realtà, a mascherare una richiesta di diversa ricostruzione dei fatti, non consentita in sede di legittimità.

cfr. ancora Cass. sez. un. n. 12348 del 28/05/2007, secondo cui in tema di risarcimento dei danni, l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 1227, comma secondo, cod. civ., che esclude il risarcimento con riguardo ai danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, integra un’indagine di fatto, riservata al giudice di merito, che rimane sottratta al sindacato di legittimità se assistita da congrua motivazione.

Cfr. ex plurimis: Cass. 14 ottobre 2004 n. 20283; 13 settembre 2004 n. 18352. V. pure così nella motivazione della pronuncia in data 8/28 maggio 2007.

Nello stesso senso Cass. III civ. n. 15231 del 05/07/2007 con riferimento all’art. 1227, co. II, c.c., che esclude il risarcimento in relazione ai danni che il creditore – o il danneggiato – avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.

Id. n. 2063 del 4/2/2004 e n. 6735/30-03-2005.

In particolare, Cass. III n. 2422 del 09/02/2004 ha avuto modo di affermare i seguenti principi: ai fini della concreta risarcibilità di danni subiti dal creditore – che pure sia in astratto sussistente, configurandosi i danni medesimi ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento – l’art. 1227, secondo comma cod. civ., nel porre la condizione dell’inevitabilità, da parte del creditore, con l’uso dell’ordinaria diligenza, non si limita a richiedere a quest’ultimo la mera inerzia, di fronte all’altrui comportamento dannoso, o la semplice astensione dall’aggravare, con fatto proprio, il pregiudizio già verificatosi, ma, secondo i principi generali di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 cod. civ., gli impone altresì una condotta attiva o positiva diretta a limitare le conseguenze dannose di detto comportamento, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici. La valutazione del comportamento del creditore è compito riservato al giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da idonea motivazione.

In senso analogo, segnatamente riguardo ai principi generali di correttezza e buona fede, di cui all’art. 1175 c.c., v. altresì Cass. I civ. n. 12439/20-11-1991 nonché II civ. n. 26639/28-11-2013).

D’altro canto, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ. (anche secondo il testo anteriore alle più rigide preclusioni imposte dal legislatore del 2012) si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito, rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. L’art. 360 n. 5 non conferisce, infatti, alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti. Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. III civ. n. 2222 del 14 febbraio 2003, conforme tra le altre, Cass. n. 350 del 2002, n. 584 del 16/01/2004, n. 20322 del 20/10/2005, n. 13045 del 1997).

Pertanto, non si ravvisano nella specie gli estremi della ipotizzata violazione dell’art. 1227, comma 2, c.c., né della sua falsa applicazione da parte dei giudici di merito, nei sensi denunciati dalla ricorrente ex art. 360 n. 3 c.p.c., laddove d’altro canto, stando alla effettiva ratio decidendi dell’impugnata decisione, è innegabile che la condotta posta in essere dal dipendente R., sino al sette settembre 2001 (ultimo giorno di lavoro), non abbia completamente ed esclusivamente esaurito il fatto generatore delle perdite subite dal cliente, di guisa che finiva con l’avere una limitata efficacia causale nel tempo sino ad una certa data, mentre il Tribunale prima e la Corte territoriale dopo hanno, concordemente ed insindacabilmente, accertato nonché ritenuto che il danno sia dipeso anche e soprattutto dalla Banca, che, sebbene edotta della illegittima situazione, rimase in attesa degli eventi di borsa – ma suo esclusivo rischio e pericolo in ordine alle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’attività del dipendente, perciò subito dimessosi – invece di provvedere prontamente, reintegrando di quanto dovuto al R. per effetto delle operazioni da costui non autorizzate.

Infine, nella specie non è dato rilevare alcuna inversione dell’onere probatorio, per cui tra l’altro almeno nella intitolazione del motivo di ricorso, la Banca non ha denunciato la violazione dell’art. 2697 c.c.. In effetti, dalla lettura della pronuncia impugnata non emerge in alcun modo detta pretesa inversione, posto che i giudici di merito si sono limitati a prendere atto di alcuni elementi di fatto pacifici tra le parti, traendone le anzidette conseguenze, laddove d’altro canto la sentenza di appello ha ampiamente motivato in ordine alla formulazione dell’eccezione di cui all’art. 1227, comma II, c.c., da parte del convenuto, resistente in primo grado.

Visto, infine, che R.A. è rimasto intimato, perciò senza svolgere alcuna difesa nel suo interesse, nonostante il rigetto del ricorso, con conseguente soccombenza per la società, nulla va disposto riguardo alle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

RIGETTA il ricorso. Nulla per le spese.