CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 3346 del 19 febbraio 2016
LAVORO – PREVIDENZA SOCIALE – PENSIONE DI INVALIDITA’ CIVILE PER CIECHI – SOSPENSIONE – SUPERAMENTO LIMITI DI REDDITO – DEROGA AL GENERALE DIVIETO DI CUMULARE LA PENSIONE DI INVALIDITA’ CIVILE CON IL REDDITO
La pensione (non reversibile) per i ciechi (assoluti o parziali) è stata istituita dalla L. 10 febbraio 1962, n. 66 “Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili” ed, in particolare, l’art. 7 prevede che ogni cittadino affetto da cecità congenita o contratta in seguito a cause che non siano di guerra, infortunio sul lavoro o in servizio, ha diritto, in considerazione delle specifiche esigenze derivanti dalla minorazione, ad una pensione non reversibile qualora versi in stato di bisogno. Tutti coloro che siano colpiti da cecità assoluta o abbiano un residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, hanno diritto alla corresponsione della pensione a decorrere dal compimento del 18° anno di età.
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Ragioni di fatto e di diritto
1 – La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 cod. proc. civ., a seguito di relazione a norma dell’art. 380-bis cod. proc. civ., che ha concluso per il rigetto del ricorso, condivisa dal Collegio.
2 – La Corte di appello, giudice del lavoro di Roma, decidendo sull’appello proposto dall’I.N.P.S., riformava la decisione del Tribunale della stessa sede che aveva accolto la domanda di E. B. diretta ad ottenere il ripristino della pensione di invalidità civile per i ciechi che era stata sospesa per il superamento dei limiti di reddito e rigettava la domanda proposta in primo grado. Riteneva la Corte capitolina (richiamando la pronuncia di questa Corte a sez. n. 3814/2005) che la L. n. 638 del 1983, art. 8, comma 1 bis, non potesse essere applicata anche al caso di specie e che la stessa, lungi dall’essere espressione di un generale principio di irrilevanza del reddito nel regime della pensione di invalidità civile, avrebbe una giustificazione solo se intesa a conseguire l’integrazione al minimo della pensione, atteso che solo al di sotto della misura minima si determinerebbe, con l’elusione dei precetti costituzionali, la violazione di diritti inviolabili.
Per la cassazione di tale sentenza E. B. propone ricorso affidato a due motivi.
L’I.N.P.S. resiste con controricorso.
3 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis cod. proc. civ.
4 – Con i motivi il ricorrente denuncia: “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” nonché: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 68 della L. n. 153 del 1969, degli artt. 6 e 8 del D.L. n. 463 del 1983, convertito nella L. n. 638 del 1983, dell’art. 12 delle preleggi”. Sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la domanda proposta dal B. fosse riferita ad una richiesta di “integrazione al minimo da corrispondere ai portatori di handicap” omettendo così ogni esame circa la sussistenza o meno del diritto al ripristino della pensione per cieco civile assoluto, dapprima riconosciuta ed erogata e, successivamente sospesa in forza del superamento dei limiti di reddito. In ogni caso assume che la Corte di merito avrebbe trascurato di considerare la ratio del quadro normativo richiamato che sarebbe da rinvenirsi dell’intento di favorire l’inserimento, o il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro, evitando che al reperimento di un’attività lavorativa – e di un connesso reddito – segua la mancata percezione della pensione, ovvero la perdita di essa. Richiama la pronuncia di questa Corte a Sezioni unite n. 3814/2005 secondo la quale il riacquisto della capacità di guadagno non potrebbe mai incidere sul diritto di percepire il trattamento di pensione scaturente da quella particolare invalidità derivante dalla cecità, in quanto siffatto trattamento spetta indipendentemente dal reddito percepito dal pensionato, essendo tale conclusione ispirata al principio dell’affidamento che il cieco ripone nell’ammontare del beneficio previdenziale che ha indotto il legislatore a prevedere, in favore dei ciechi, una deroga al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità civile con il reddito. Invoca, altresì, il precedente di questa Corte n. 15646/2012 che ha affermato il seguente principio di diritto: “La particolare disciplina prevista dalla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68 – che, derogando alla generale normativa posta dal R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10 (secondo cui la pensione di invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato non è più inferiore ai minimi di legge), persegue la finalità di favorire il reinserimento sociale dell’invalido, non distogliendolo dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa – va letta in senso costituzionalmente orientato (artt. 2, 3, 4 e 38 Cost.), sicché la stessa esclude che la pensione di invalidità già riconosciuta all’assicurato in ragione della sua cecità possa essergli revocata qualora siano mutati i suoi redditi per effetto del conseguimento di una nuova occupazione.
5 – E’ innanzitutto inammissibile il dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
Si osserva, infatti, che la censura di omesso esame della domanda e la pronuncia su domanda non proposta rientra nella nozione di “error in procedendo” e quindi non può essere ricondotta ad un vizio ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (ancorché nella nuova formulazione di cui nuovo al D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni in L. n. 134 del 2012). Peraltro, l’omesso esame di fatto decisivo previsto dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., è costituito da quel difetto di attività del giudice del merito che si verifica tutte le volte in cui egli abbia trascurato, non la deduzione o l’argomentazione che la parte ritiene rilevante per la sua tesi, ma una circostanza obiettiva acquisita alla causa idonea di per sé, qualora fosse stata presa in considerazione, a condurre con certezza ad una decisione diversa da quella adottata. Nel caso in esame, quella asseritamente non presa in considerazione non è una circostanza obiettiva acquisita alla causa ma lo stesso oggetto della domanda. Il che rende il motivo impropriamente formulato.
Si aggiunga, in ogni caso, che i richiami giurisprudenziali operati nella decisione impugnata sono stati tali da far comunque comprendere alla parte interessata che la domanda intesa al ripristino della prestazione già in godimento (pur in mancanza di un espresso richiamo alla stessa ed presenza di un inesatto riferimento ad un preteso diritto all’integrazione al minimo) non era meritevole di accoglimento. Prova ne è che la medesima parte, con gli ulteriori rilievi, censura proprio la ricostruzione in diritto operata dalla Corte territoriale assumendo che una corretta disamina delle disposizioni prese in esame dal giudice di appello avrebbe condotto ad un accoglimento della domanda.
6 – Tali rilievi sono tuttavia manifestamente infondati conformemente alla decisione di questa Corte n. 24192/2013 che, in consapevole dissenso con il precedente contrario costituito dalla citata sentenza n. 15646/2012 (che fa riferimento alla prestazione assistenziale di cui alla L. n. 66 del 1962, ma applica i principi relativi alla prestazione previdenziale di cui alla L. n. 153 del 1969 ed al D.L. n. 463 del 1993, art. 8, come si evince anche dal richiamo, contenuto nel principio di diritto, all’”assicurato” in luogo dell’”assistito”), ha ritenuto che non sia possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale previsto dalla L. n. 66 del 1962 (e, dunque, tanto alla pensione per ciechi assoluti quanto a quella per ciechi parziali), il beneficio riconosciuto a favore di chi gode di trattamento previdenziale – si vedano anche nel medesimo senso Cass. n. 8752/2014 e numerose altre successive tra cui le più recenti Cass. 7289/2015; Cass. nn. 8436, 8437, 8438 del 2015, Cass. n. 8133/2015, Cass. n. 8066/2015, Cass. n. 19150/2015 -.
Come è noto, la pensione (non reversibile) per i ciechi (assoluti o parziali) è stata istituita dalla L. 10 febbraio 1962, n. 66 “Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili”. L’art. 7 di tale legge così prevede: “Ogni cittadino affetto da cecità congenita o contratta in seguito a cause che non siano di guerra, infortunio sul lavoro o in servizio, ha diritto, in considerazione delle specifiche esigenze derivanti dalla minorazione, ad una pensione non reversibile qualora versi in stato di bisogno”. Il successivo art. 8 aggiunge: “Tutti coloro che siano colpiti da cecità assoluta o abbiano un residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, hanno diritto alla corresponsione della pensione a decorrere dal compimento del 18° anno di età”. La misura della prestazione è stata modificata dalla L. 27 maggio 1970, n. 382, art. 1 (quest’ultima regolamenta la materia ancora oggi). Essa è, dunque, concessa ai maggiorenni ciechi assoluti ed ai soggetti di ogni età ciechi parziali che si trovino in stato di bisogno economico. Tale stato di bisogno è stato inizialmente indicato con riferimento alla non iscrizione nei moli per l’imposta complementare sui redditi (L. n. 382 del 1970, art. 5) e, dopo l’abrogazione di tale tipo di imposta, identificato nel possesso di redditi assoggettabili ad IRPEF di un ammontare inferiore ad un certo limite (v. D.L. n. 30 del 1974, art. 6, conv. in L. n. 114 del 1974 e D.L. n. 663 del 1979, art. 14 septies, conv. in L. 29 febbraio 1980, n. 33) – cfr. Cass. 5 agosto 2000, n. 10335; id. 21 giugno 1991, n. 6982; 12 aprile 1990, n. 3110; 22 novembre 2001, n. 14811). Il limite di reddito da tenere in considerazione è, dunque, il medesimo stabilito per la pensione di inabilità di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 12, essendo unica la disciplina contenuta nel citato D.L. n. 663 del 1979, art. 14 septies (norma modificata dal D.L. n. 76/2013 conv. in legge n. 99/2013 che, all’art. 10 comma 5 ha statuito: “All’articolo 14 septies del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33, dopo il sesto comma, è inserito il seguente: “Il limite di reddito per il diritto alla pensione di inabilità in favore dei mutilati e degli invalidi civili, di cui all’articolo 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118, è calcolato con riferimento al reddito agli effetti dell’IRPEF con esclusione del reddito percepito da altri componenti del nucleo familiare di cui il soggetto interessato fa parte””).
Nello specifico, la pensione di invalidità civile per i ciechi, già a suo tempo concessa, era stata poi revocata, per superamento da parte del beneficiario dei limiti reddituali.
Orbene, la prestazione di cui è richiesto il ripristino ha natura di prestazione assistenziale di invalidità civile, sicuramente integrativa del presunto mancato guadagno derivante dalla condizione di minorità dovuta alla patologia. Secondo l’assunto del ricorrente la disposizione di cui alla citata L. n. 66 del 1962, art. 8, sarebbe stata superata dalla previsione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68, che stabilisce che “le disposizioni di cui al R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10, comma 2, il quale, a sua volta, stabilisce che la pensione di invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato cessi di essere inferiore a determinati limiti, non si applicano nei confronti dei ciechi che esercitano un’attività lavorativa. Le pensioni revocate ai sensi della norma precitata sono ripristinate con decorrenza dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
La disposizione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68 (come, del resto, quella di cui al R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10, comma 2) è dettata per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S. ed a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, presupponente un rapporto contributivo (in particolare il RD.L. n. 636 del 1939, art. 9, fa riferimento alla pensione riconosciuta all’invalido a qualsiasi età quando siano maturati determinati requisiti contributivi).
La questione è se tali norme, non espressamente dettate per le prestazioni assistenziali di invalidità civile, possano essere applicate anche a queste ultime, costituendo un principio generale di irrilevanza dei redditi per i ciechi che beneficiano di pensioni, o non si pongano piuttosto come norme eccezionali.
Sostiene il ricorrente che tale applicabilità troverebbe fondamento nella sentenza n. 3814/2005 che questa Corte ha emanato a Sezioni Unite. In realtà alla L. n. 153 del 1969, art. 68, ha fatto seguito il D.L. 12 settembre 1983, n. 463, art. 8, comma 1 bis, conv. in L. 12 novembre 1983, n. 638, secondo il quale “Resta ferma la disposizione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68, indipendentemente dal reddito percepito dal pensionato”. Tale norma, dunque, stabilisce che il riacquisto della capacità di guadagno nonché di un reddito da lavoro da parte del cieco non comporta la perdita della pensione. Secondo una prima interpretazione, fatta propria da Cass. 30 luglio 1999, n. 8310; id. 8 marzo 2001, n. 3359; 19 luglio 2002, n. 10609; 19 maggio 2003, n. 7833 e da ultimo in qualche modo ripresa dalla sopra citata Cass. 2012/15646, la norma avrebbe sancito un principio generale di irrilevanza del reddito del beneficiario anche ai fini del riconoscimento dei trattamenti di assistenza in favore dei ciechi. Altro orientamento – Cass. 26 settembre 1988, n. 5252; id. 23 marzo 1998, n. 3027; Cass. Sez. Un. 24 febbraio 2005, n. 3814; Cass. 26 marzo 2009, n. 7308 oltre alla già citate Cass. n. 15646/2012 – sostiene, invece, la finalità limitata dell’art. 68, inteso solamente a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro evitando che al reperimento di un’attività lavorativa e di un connesso reddito consegua la perdita della pensione. Secondo l’assunto del ricorrente, proprio la pronuncia delle SS.UU. di questa Corte indurrebbe a considerare applicabile anche alle pensioni di cui alla L. 10 febbraio 1962, n. 66, art. 8, il principio della irrilevanza del reddito. Invero, nella predetta decisione a Sezioni unite è stato precisato: “la previsione, in favore dei ciechi, della conservazione del trattamento pensionistico nonostante la carenza sopravvenuta di uno dei presupposti, e in particolare del requisito reddituale, persegue la finalità di favorire il loro reinserimento sociale, non distogliendo l’invalido dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa, senza che da tale finalità possa desumersi, in contrasto con il dato letterale delle richiamate disposizioni, l’espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale nel regime della pensione di invalidità dei ciechi, con conseguente estensione a questi ultimi della integrazione al minimo della pensione” – si veda anche Cass. n. 7308 del 26/03/2009 -. Va, peraltro, considerato che le pronunce da ultimo citate sono state emanate in una materia diversa da quella per cui è causa e cioè nella materia di integrazione al minimo dei trattamenti pensionistici riservati ai minorati della vista.
Questa Corte ha in tale sede ritenuto che sia possibile la conservazione della pensione da parte di un soggetto cieco anche dopo l’inizio di una attività lavorativa, con connessa acquisizione di un reddito anche elevato, poiché tale trattamento economico risponde alla specifica finalità di inserire i soggetti non vedenti nelle attività produttive. Ha anche sottolineato che detto principio si basa sul disposto di due norme definite “specialissime e di stretta interpretazione”: il D.L. 12 settembre 1983, n. 463, art. 8, comma 1 bis (convertito in L. 12 novembre 1983, n. 638) e la L. 30 aprile 1996, n. 1532, art. 68. Per effetto del combinato disposto delle norme suddette, l’acquisizione da parte del cieco di una capacità lavorativa e del reddito da essa derivante non comporta la perdita della pensione, che, se revocata per questo solo motivo, deve essere ripristinata interamente.
E questo perché la finalità specifica della provvidenza economica è intesa a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro, evitando che al reperimento di un’attività lavorativa (e del reddito connesso) consegua la perdita della pensione. La deroga in favore dei ciechi al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità con reddito da lavoro si spiega, come è stato precisato, anche con la necessità di tutelare “l’affidamento riposto dal cittadino cieco nell’ammontare del beneficio previdenziale su cui egli ha costruito il proprio tenore di vita e coltiva i propri progetti”.
Tale indirizzo, dunque, espresso con riferimento ad una prestazione pensionistica conseguita nel regime dell’assicurazione obbligatoria I.N.P.S. (l’integrazione al minimo è istituto proprio del regime generale previdenziale), non è automaticamente estensibile, proprio in ragione della affermata specialità del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, art. 8, comma 1 bis (convertito in L. 12 novembre 1983, n. 638) e della L. 30 aprile 1996, art. 68, norme ritenute di “stretta interpretazione” e non è, perciò, invocabile con riguardo alle pensioni per cecità civile di cui alla ridetta L. 10 febbraio 1962, n. 66. Sebbene nella citata sentenza resa da questa Corte a Sezioni unite si faccia riferimento alla pensione di invalidità civile laddove invece la fattispecie esaminata concerneva una pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S. prima dell’attribuzione allo stesso delle competenze in materia di benefici assistenziali, e quindi una pensione certamente disciplinata dalla L. n. 153 del 1969, art. 68 e D.L. n. 463 del 1983, art. 8, stante l’affermato carattere eccezionale delle disposizioni di cui alla L. n. 153 del 1969, art. 68 e D.L. n. 463 del 1983, art. 8, non è possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale di cui alla L. n. 66 del 1962, il beneficio riconosciuto a favore di chi gode di trattamento previdenziale.
Del resto l’attribuita rilevanza del reddito ai fini del riconoscimento della “integrazione al minimo” e cioè di quella maggiorazione che non trova corrispondenza nei contributi versati ma soccorre a garantire il minimo vitale (gravando sul bilancio dello Stato) è significativa del fatto che il principio della irrilevanza del reddito non potesse che essere stato riferito (contrariamente alla tesi della parte privata) alla sola pensione maturata nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria e non anche a quella di invalidità civile (assistenziale). Se, infatti, il reddito rileva quando lo Stato partecipa al sostegno della previdenza (nei limiti di una maggiorazione integrativa), a maggior ragione deve ritenersi tale rilevanza quando è l’intero trattamento ad essere a carico dell’erario.
Da tanto consegue che per la prestazione oggetto di causa, per la quale, si ribadisce, presupposto di legge imprescindibile è lo stato di bisogno di cui ai sopra citati art. 7 della L. n. 66 del 1962 e art. 5 della L. n. 382 del 1970, il requisito reddituale resta rilevante, considerato, peraltro, che la pensione ai ciechi civili è dovuta, a differenza di quella di invalidità civile ex lege n. 118 del 1971 e di quella di invalidità ex lege n. 222 del 1984, indipendentemente dalla incidenza dello stato di minorazione sulla capacità di lavoro, spettando anche oltre il raggiungimento dell’età pensionabile (v. Cass. 26 maggio 1999, n. 5138).
Si è, in sostanza, in presenza di differenti misure protettive dell’invalidità in cui diverse sono le modalità di finanziamento delle prestazioni: quelle previdenziali – che trovano fondamento nella previsione di cui all’art. 38 Cost., comma 2 – sono alimentate dai contributi gravanti sugli specifici soggetti obbligati ed i datori di lavoro; quelle assistenziali – che fanno capo all’art. 38 Cost., comma 1 – sono finanziate dallo Stato attraverso il ricorso alla fiscalità generale. Se pure è vero che lo Stato partecipa anche al sostegno della previdenza qualora i mezzi raccolti con i versamenti contributivi siano insufficienti (come nel caso della integrazione al minimo), i due territori rimangono concettualmente e giuridicamente ben distinti e questo giustifica trattamenti legislativi differenti in relazione ai quali va esclusa ogni violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
Né può ravvisarsi una violazione dell’art. 2 della Cost. considerato che il legislatore ha previsto, in favore dei ciechi, specifiche prestazioni che prescindono dalla condizione reddituale (così l’indennità di accompagnamento per cecità assoluta di cui all’art. 1 della L. 28 marzo 1968, n. 406 e l’indennità speciale per ciechi parziali di cui all’art. 3 della L. 21 novembre 1988, n. 508).
7 – Alla luce delle considerazioni che precedono va ribadito il principio secondo cui la pensione non reversibile per i ciechi civili (assoluti o parziali) di cui agli artt. 7 e 8 della L. 10 febbraio 1962, n. 66, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiario dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’art. 38, primo comma, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’art. 12 della L. 30 marzo 1971, n. 118 di conversione del D.L. del 30 gennaio 1971, n. 5, dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’art. 68 della L. 30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S., sia l’art. 8, comma 1 bis, del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in L. 11 novembre 1983, n. 638, che consentono l’erogazione della pensione I.N.P.S. in favore dei ciechi che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi di norme di stretta interpretazione, il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica; tale principio è da ritenersi, per i motivi sopra evidenziati, in linea (e non in contrasto) con quanto affermato da questa Corte nella decisione n. 3814/2005 così da escludere la necessità di una devoluzione della questione alle Sezioni unite.
8 – Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.
9 – La controvertibilità delle questioni trattate e l’esistenza di precedenti difformi di questa stessa Corte di legittimità giustificano la compensazione tra le parti delle spese processuali dell’intero processo.
10 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater; d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater; del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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