CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 giugno 2018, n. 14043
Imposte indirette – IVA – Riscossione – Avvisi di rettifica – Procedimento amministrativo
Fatti e ragioni della decisione
La P.I. s.r.l. ha proposto ricorso innanzi alla CTP di Livorno contro diversi avvisi di rettifica emessi dalla Dogana di Livorno per la ripresa a tassazione dell’IVA che la società non aveva versato, omettendo di introdurre la merce nel deposito IVA della F.V. spa come invece dichiarato.
La CTP respingeva il ricorso con sentenza impugnata dalla contribuente innanzi alla CTR Toscana che, con la sentenza in epigrafe ha respinto l’appello proposto.
Secondo la CTR la questione relativa alla partecipazione al procedimento amministrativo agitata dal contribuente era infondata, non trovando applicazione l’art. 13 della l. n.. 241/1990 ai procedimenti tributari. In ogni caso, l’Agenzia delle Dogane aveva ampiamente espresso negli avvisi di rettifica i presupposti di fatto e diritto idonei a consentire una piena contestazione della pretesa. Aggiungeva che doveva ritenersi corretta la pronunzia di primo grado, nella parte in cui aveva escluso la violazione dell’art. 50 bis d. l. n.. 331/1993 e l’assolvimento dell’IVA mediante autofatturazione in assenza di fisica introduzione della merce in deposito, tale conclusione risultando confermata da plurime pronunzie di questa Corte di Cassazione, nemmeno potendosi ipotizzare una duplicazione di imposte, visto che l’autofatturazione riguardava l’IVA interna e non l’IVA all’importazione che andava assolta in dogana.
La P.I. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
L’Agenzia delle Dogane ha resistito con controricorso.
La causa, dopo la proposizione di rinvio pregiudiziale alla Corte UE, è stata decisa in camera di consiglio.
Con il primo motivo la contribuente deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Lamenta che la CTR avrebbe omesso di esaminare il rilievo in ordine alla mancata indicazione di alcune delle bollette d’importazione revisionate nel processo verbale di constatazione e la conseguente prospettata violazione dell’art. 12, comma 7, l. n.. 212/2000.
La censura è inammissibile.
Ed invero, questa Corte ha precisato che in tema di ricorso per cassazione, nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 19987 del 10/08/2017).
Orbene, parte ricorrente si limita a prospettare un vizio sulla base del novellato art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. senza tuttavia indicare in modo specifico il fatto che la CTR avrebbe omesso di esaminare e che, secondo una valutazione prognostica ex ante, avrebbe potuto determinare un esito diverso della lite risultando quindi decisivo.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 12 c. 7 l. n.. 212/2000. Il giudice di appello avrebbe erroneamente qualificato il vizio della carenza di contraddittorio prospettato dalla stessa rispetto ai provvedimenti di rettifica in relazione all’art. 13 l. n.. 241/1990, senza considerare che l’art. 12 c. 7 l. n.. 212/2000 riconosceva al contribuente il diritto al contraddittorio entro il termine ivi fissato. Avrebbe pertanto dovuto ritenersi che il pvc costituisse l’atto endoprocedimentale presupposto ad un avviso di accertamento, in modo da consentire al contribuente l’invio di osservazioni e richieste all’Amministrazione prima dell’emissione dell’atto impositivo.
Tale motivo è fondato nei termini di seguito esposti.
Sul contraddittorio in tema di materia regolata dal diritto UE.
Giova ricordare che in tema di tributi armonizzati la Corte di Giustizia, sulla scia della sentenza Sopropè-Corte Giust. 18 dicembre 2008, Sopropé, C- 349/07,- ha riconosciuto il valore di principio fondamentale del diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo in “qualsiasi procedimento” nel quale si faccia applicazione del diritto UE, quand’anche la normativa dell’Unione applicabile non preveda espressamente siffatta formalità, individuandone lo specifico fondamento non solo negli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali- c.d. Carta di Nizza Strasburgo- che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, ma anche nell’articolo 41 di quest’ultima, il quale garantisce il diritto ad una buona amministrazione -cfr. Corte Giust. 21 dicembre 2011, C – 27/09 P, Repubblica Francese, p.65; Corte giust., 10 settembre 2013, G. e R., C- 383/13 PPU, punto 35, Corte giust.22 ottobre 2013, Sabou, C-276/12,p.38).
La Corte è quindi ferma nel ritenere che il diritto al contraddittorio garantisce a chiunque la possibilità di manifestare, utilmente ed efficacemente, il suo punto di vista durante il procedimento amministrativo prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi (v., in particolare, Corte giust. 9 giugno 2005, Spagna/Commissione, C-287/02, Corte giust. 10 ottobre 2009, Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware/Consiglio, C-141/08 P, punto 83, Corte Giust. 21 dicembre 2011, Francia/People’s Mojahedin Organization of Iran, C-27/09 P punti 64 e 65).
Il contraddittorio in materia doganale secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia.
Anche con specifico riferimento al contraddittorio in materia doganale rilevante nel presente procedimento, nel quale l’amministrazione delle dogane ha spiccato nei confronti della società contribuente diversi avvisi di accertamento sulla base del DPR 23 gennaio 1973 n. 43, questa Corte si è più volte pronunziata.
In particolare, già Cass. n. 6621/2013 ha ritenuto che il rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, pur non essendo esplicitamente richiamato dal Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 (codice doganale comunitario), si evince dalle previsioni espresse dell’art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374 e costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogni qualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. Ne deriva che la denuncia di vizi di attività dell’Amministrazione capaci di inficiare il procedimento è destinata ad acquisire rilevanza soltanto se, ed in quanto, l’inosservanza delle regole abbia determinato un concreto pregiudizio del diritto di difesa della parte, direttamente dipendente dalla violazione che si sia riverberata sui vizi del provvedimento finale.
Per altro verso, Cass. n. 8399/2013 ha ritenuto che in tema di avvisi di rettifica in materia doganale, è inapplicabile l’art. 12, comma 7, della legge 20 luglio 2000, n. 212, operando in tale ambito lo jus speciale di cui all’art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, – nel testo utilizzabile ratione temporis – preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all’impugnazione in giudizio del suddetto avviso.
Con un ulteriore gruppo di decisioni pubblicate fra il febbraio e il dicembre 2014- sentt. nn. 10070/14, 9799/14, 9800/14, 9801/2014, 9802/14, 9803/14, 10070/14, 15032/14, 15033/14, 15034/14, 15035/14, 15036/14, 15037/14, 25972/14, 25973/14, 25974/14, 25975/14- questa Corte, dando continuità ai principi espressi da Cass. n. 8399/2013 cit. ha, tra l’altro, chiarito ulteriormente che l’art. 11 comma 7 ed 8 del D.Igs. n. 374/1990, nel testo vigente “ratione temporis” prevedeva che, quando dalla revisione eseguita d’ufficio dell’accertamento divenuto definitivo emergono inesattezze, omissioni, o errori relativi agli elementi presi a base dell’accertamento, “l’ufficio procede alla relativa rettifica e ne dà comunicazione all’operatore interessato notificando apposito avviso” di rettifica motivato (comma 1, 5 e 6). Entro trenta giorni dalla data della notifica dell’avviso, l’operatore può contestare la rettifica ed in tal caso viene redatto apposito verbale dall’Ufficio doganale “ai fini della eventuale instaurazione dei procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie previsti dagli artt. 66 ss. del TU delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con DPR 23 gennaio 1973 n. 43”. I procedimenti amministrativi cui rinvia la norma consentono proprio la instaurazione, in via preventiva, del pieno contraddittorio con il contribuente, atteso che: a) l’art. 66 TU n. 43/1973 prevede che l’operatore presenti ricorso gerarchico avverso l’avviso di rettifica “producendo i documenti ed indicando i mezzi di prova ritenuti utili”; b) dal combinato disposto degli art. 70 u.c. e 76 c. 1 del TU n. 43/1973 emerge che solo all’esito dell’indicato procedimento amministrativo contenzioso -nel caso di decisione parzialmente o totalmente sfavorevole al ricorrente gerarchico- si determina la “definitività” dell’avviso di accertamento in rettifica ed il contribuente è legittimato ad esperire il ricorso giurisdizionale ex art. 21 D.Igs. n. 546/1992 avverso l’atto impositivo. Il procedimento amministrativo in questione, è preordinato a garantire un contraddittorio pieno, in un momento anticipato rispetto all’impugnazione in sede giurisdizionale dell’atto, nel corso del quale il contribuente era posto in grado di esporre tutte le ragioni difensive ed allegare nuovi fatti, deducendo le prove opportune, al fine di sollecitare l’attivazione dei poteri di autotutela dell’Amministrazione doganale e quindi l’annullamento o la revoca dell’avviso di rettifica.
Nelle medesime circostanze si è ribadita l’inapplicabilità alla materia doganale dell’art. 12 c. 7 l. n. 212/2000, altresì chiarendo che il sistema del TU n. 43/1973, cui rinviava l’art. 11 D. Igs. n. 374/1990 realizzava, attraverso il procedimento contenzioso amministrativo, una forma anticipata di contraddittorio pieno, che, in seguito, è venuta ad essere sostituita da una diversa modalità di assicurazione della garanzia del contraddittorio “…ma soltanto a far data dalla entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (art. 1 comma 1), convertito nella legge 24.3.2012 n. 44 che ha introdotto il comma 4 bis all’articolo 11 D.Igs. n. 374/1990…”- intervento normativo successivamente completato dall’art 12 comma 1 del decreto legge 2.3.2012 n. 16, conv. in legge 26.4.2012 n. 27 (recante “disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficienza e potenziamento delle procedure di accertamento”) con l’abrogazione del comma 7 e parzialmente del comma 6 dell’art. 11 del D.Igs. n. 374/1990 e la conseguente eliminazione del sistema dei ricorsi amministrativi contenziosi in materia doganale. Va poi aggiunto che le Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza n. 24823, depositata il 9 dicembre 2015, esaminando la questione rimessa da questa sottosezione con ordinanza interlocutoria n. 527/2015, hanno ritenuto che le garanzie fissate nell’art. 12, comma 7, l. 212/2000 trovano applicazione esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ciò, peraltro, indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non comportato constatazione di violazionl. n.
ella medesima occasione le Sezioni Unite hanno, per l’un verso, desunto anche dall’introduzione in materia doganale di una specifica disposizione -art. 11 c. 4 bis d. Igs. n. 374/1990, come detto inapplicabile ratione temporis alla fattispecie- l’inesistenza di un obbligo generale di contraddittorio e, per altro verso, chiarito che «…Differentemente dal diritto dell’Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto.»
I superiori principi espressi da questa Corte vanno coordinati con quelli espressi dalla Corte di Giustizia proprio in tema di contraddittorio doganale.
Ed invero, Corte giust., sez. V, 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13-, Kamino International Logistics ha ricordato che, quando il diritto dell’Unione non fissa né le condizioni alle quali deve essere garantito il rispetto dei diritti della difesa né le conseguenze della violazione di tali diritti, tali condizioni e tali conseguenze rientrano nella sfera del diritto nazionale, purché i provvedimenti adottati in tal senso siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli in situazioni di diritto nazionale comparabili (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività). Siffatta soluzione è applicabile alla materia doganale nella misura in cui l’art. 245 del codice doganale rinvia espressamente al diritto nazionale, precisando che «le norme di attuazione della procedura di ricorso sono adottate dagli Stati membri», fermo restando che gli Stati membri possono legittimamente consentire l’esercizio dei diritti della difesa secondo le stesse modalità previste per la disciplina delle situazioni interne purché esse siano conformi al diritto dell’Unione e, in particolare, non compromettere l’effetto utile del codice doganale (sentenza G. e R.,cit., punto 36).
Corte di giustizia, 20.12.2017, C-276/16, Preqù, resa all’esito del rinvio pregiudiziale sollevato da questo Collegio, ha poi precisato che le disposizioni del diritto dell’Unione, come quelle del codice doganale, devono essere interpretate alla luce dei diritti fondamentali e che le disposizioni nazionali di attuazione delle condizioni previste all’articolo 244, secondo comma, del codice doganale per la concessione di una sospensione dell’esecuzione devono, in mancanza di una previa audizione, garantire che tali condizioni non siano applicate o interpretate restrittivamente. Secondo la Corte UE, se il destinatario di avvisi di rettifica dell’accertamento come quelli di cui trattasi nel procedimento principale ha la possibilità di ottenere la sospensione dell’esecuzione di detti atti fino alla loro eventuale riforma e se il giudice nazionale verifica che nell’ambito del procedimento amministrativo, le condizioni di cui all’articolo 244 del codice doganale non sono applicate in modo restrittivo, non può ritenersi pregiudicato il rispetto dei diritti della difesa del destinatario degli avvisi di rettifica dell’accertamento.
In definitiva, il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all’articolo 244 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione dell’articolo 244, secondo comma, di detto regolamento da parte dell’autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato.
La Corte UE ha, infine, tenuto a rimarcare che l’obbligo incombente sul giudice nazionale di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione non ha sempre come conseguenza l’annullamento di una decisione impugnata, laddove quest’ultima sia stata adottata in violazione dei diritti della difesa, determinandosi l’annullamento del provvedimento adottato soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso.
Orbene, la CTR, nel caso di specie, si è limitata ad escludere l’applicazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale alla controversia in esame, affermando che l’art. 13 della I.n. 241/1999 dispone che le norme che disciplinano gli istituti partecipativi non si applicano ai procedimenti tributari, aggiungendo che l’ufficio aveva indicato gli elementi posti a fondamento della pretesa negli avvisi di rettifica.
Orbene, le affermazioni in diritto esposte dalla CTR non sono conformi ai principi superiormente ricordati con riferimento ai tributi armonizzati di matrice UE.
Ne consegue che la sentenza impugnata va cassata in modo da consentire al giudice di fare piena applicazione degli stessi.
Con il terzo motivo la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 16 comma 5 bis d. l. n. 185/2008, conv. nella l. n.. 2/2009, successivamente integrato dall’art. 8 comma 21 bis del d. l. n.. 16/2012, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
La CTR non avrebbe fatto corretta applicazione della disciplina normativa introdotta dall’art. 50 bis d. l. n.. 331/1993 per come modificata dalle disposizioni sopra ricordate e dall’art. 34 d. l. n.. 179/2012 conv. nella l. n.. 221/2012. Tale ultima disposizione, inoltre, avrebbe portata retroattiva e sarebbe pertanto applicabile anche ai rapporti d’imposta sorti prima della sua entrata in vigore e non ancora conclusi.
In ragione dei richiamati articoli, secondo parte ricorrente il beneficio del mancato pagamento dell’IVA sarebbe collegato non già all’effettivo e materiale inserimento della merce nel deposito fiscale IVA, ma alla semplice realizzazione di prestazioni di servizi negli spazi limitrofi al deposito. Pertanto, il tributo dovrebbe ritenersi assolto con l’estrazione della merce, non essendo necessario né l’effettiva introduzione nel magazzino, né lo scarico delle merci dall’automezzo di trasporto né tantomeno un tempo minimo di permanenza nei locali adibiti a deposito. L’applicazione retroattiva delle norme indicate, secondo la prospettazione offerta dalla società ricorrente, determinerebbe il superamento dei principi fissati in precedenza da questa Corte -sentt. 12262, 12263, 12264, 12265, 12266, 12267, 12272, 12273,12275, 12577, 12578, 12579, 12580, 12581 del 2010-. Conseguentemente VIVA dovrebbe ritenersi assolta per effetto dell’emissione dell’autofatturazione, quale idoneo mezzo estintivo del debito IVA.
La censura è fondata nei termini di seguito esposti.
Ed invero, la questione dell’applicazione del regime di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, comma 4, lett. b), alle ipotesi di immissione di beni extra UE in libera pratica senza la materiale introduzione della merce nel deposito fiscale ha trovato già risposta nella giurisprudenza di questa Corte, a cui tenore l’introduzione della merce d’importazione nel deposito IVA costituisce il presupposto per l’esenzione dall’IVA all’importazione su merci comunitarie, parificate dal Reg. CEE 2932/92 a merci non comunitarie immagazzinate (art. 98, lett. a) e b), codice doganale comunitario), fruenti dell’esenzione daziaria perché vincolate al regime del deposito doganale, stabilito nell’autorizzazione. Ragion per cui, essendo il presupposto per fruire di tale esenzione da dazi ed IVA costituito proprio da quell’immagazzinamento, consegue che, in difetto del presupposto, l’IVA all’importazione è dovuta – cfr. Cass. n. 12581/2010 e le successive sentenze, depositate tra il 19 ed il 21 maggio 2010, nn. 12262, 12275, 12579, 12580. Si è poi aggiunto che tale conclusione non risulta minata dal D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 5-bis, come convertito dalla L. n. 2 del 2009, secondo cui “del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 50-bis, comma 4, lett. h), convenite, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 1993, n. 427. Ciò perchè “…considerare non incidenti sulla introduzione in deposito le prestazioni di servizi (comprese le operazioni di perfezionamento e le manipolazioni usuali) non interferisce sulla introduzione medesima, propriamente intesa: in locali limitrofi possono eseguirsi attività accessorie – senza incidenza negativa sull’introduzione -, ma non è dato equiparare ad essa una sistemazione “in locali limitrofi ai depositi IVA” …, perchè ciò equivarrebbe ad eliminare una seria e coerente nozione di deposito IVA” – cfr. Cass. n. 12581/2010, cit.-.
Non persuasivo è dunque il richiamo – operato dalla parte ricorrente – agli ulteriori interventi normativi che si sono susseguiti rispetto alle ius superveniens di cui al D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 5- bis, come convertito dalla L. n. 2 del 2009 – già preso in considerazione dalle sentenze del maggio 2010 di questa Corte per escludere che lo stesso avesse introdotto la figura del c.d. deposito virtuale, al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 21 bis, inserito dalla Legge di Conversione n. 44 del 2012 e al D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 34, comma 44, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221. Ed infatti, come chiarito di recente da questa Corte – v., tra le altre, Cass. 16/09/2015, n. 18169, p. 12.5 ss.; Cass. 8/09/2015 n. 17815, p. 12.6 ss. Cass. n. 25430/2015- l’attuale formulazione di D.L. n. 185 del 2008, art. 16, non assume rilievo nel caso di specie, nel quale non risulta che l’importatore abbia svolto prestazioni di servizi alle quali si riferisce la lett. h) dell’art. 50 bis, comma 4, essendo venuta in discussione, nell’odierno procedimento, unicamente la mancata osservanza, da parte dell’importatore, della previsione di cui dell’art. 50 bis, comma 4, lett. b). Ne consegue che l’innesto delle modifiche introdotte alla fine dell’anno 2012 non ha modificato il quadro dei principi giurisprudenziali resi da questa Corte sopra esposti, nè consente di ritenere la rilevanza concreta dell’art. 50 bis cit., comma 4, lett. h), nel presente procedimento, ove la contestazione mossa dall’ufficio era stata quella del mancato immagazzinamento della merce nel deposito IVA, alla quale aveva resistito la società intimata ritenendo sufficiente l’esistenza di un mero deposito virtuale collegato alla consegna formale della merce al depositario.
Nondimeno, questa Corte ha parimenti ritenuto che l’Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si è illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui all’art. 50 bis, comma 4, lett. b), del d.l. n. 331 del 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, nella legge n. 427 del 1993, qualora costui abbia già provveduto all’adempimento, sia pur tardivo, dell’obbligazione tributaria nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante un’autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite (Cass. 17815/2015, Cass. 12231/2017).
Ed invero, si è ritenuto che la violazione del sistema del versamento dell’IVA, realizzata dall’importatore per effetto dell’immissione solo virtuale della merce nel deposito, ha natura formale e non può mettere, pertanto, in discussione il suo diritto alla detrazione (Cass. 16989/2016, Cass. 10911/2016, Cass. 15988/2015, Cass. 19749/2014), come chiarito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2014, in C-272/13 Equoland, i cui principi sono stati integralmente recepiti da questa Corte nelle sentenze concernenti fattispecie analoghe già citate- cfr. Cass. 17814/2015, Cass. 15980/2015, C. Cass. 15995/2015, Cass. 16019/2015-.
Ciò posto, la C.T.R. non ha correttamente applicato i principi richiamati, nel rispetto dei quali avrebbe dovuto verificare se l’autofatturazione dell’IVA interna all’atto dell’estrazione della merce solo virtualmente inserita nel deposito IVA, alla quale ha fatto riferimento la parte ricorrente a pag.13 del ricorso, fosse idonea a determinare l’assolvimento dell’IVA all’importazione.
Sulla base di tali considerazioni, in accoglimento del secondo e del terzo motivo, rigettato il primo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della CTR della Toscana anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, rigettato il primo.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della CTR della Toscana anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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