CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 maggio 2018, n. 10524
Inps – Assegno ordinario di invalidità – Permanente riduzione della capacità di lavoro – Accertamento
Rilevato
che la Corte d’Appello dell’Aquila, con sentenza n. 327/2012, riformando la pronuncia del Tribunale di Pescara, ha respinto, in esito a rinnovazione della c.t.u. medico legale, la domanda con cui M.L.S. aveva agito per l’accertamento del suo diritto a percepire dall’I.N.P.S. l’assegno ordinario di invalidità, per la sussistenza a suo carico di infermità che determinavano la permanente riduzione a meno di un terzo della capacità di lavoro in attività confacenti alle sue attitudini;
che secondo la Corte il grado della sindrome depressiva addotta era da qualificare come medio e non tale, anche in relazione all’anamnesi lavorativa, da compromettere nella misura richiesta la capacità di lavoro;
che M.L.S. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo.
Considerato
che con l’unico motivo di ricorso la L.S. afferma, richiamando l’art. 360 n. 5 e n. 3 c.p.c., quest’ultimo in relazione alla L. 222/1984, che la Corte territoriale avrebbe sottovalutato le condizioni di depressione maggiore, in fase di cronicizzazione, attestata dagli stessi esame disposti dal c.t.u. del grado di appello, che poi però aveva concluso in difformità, nonché il fatto che essa fosse stata costretta a cessare, per lo stato di malattia, la propria attività lavorativa autonoma di titolare di agenzia matrimoniale;
che la denuncia concerne in realtà esclusivamente vizi di motivazione, da riportare alla fattispecie dell’art. 360 n. 5 c.p.c., nel testo previgente rispetto all’attuale formulazione; che il ricorso non può trovare accoglimento;
che la c.t.u. sulla cui base si è poi fondata la decisione ha ritenuto che l’infermità della ricorrente giustificasse un apprezzamento quale sindrome depressiva “media”, sul presupposto che essa, seppur avesse comportato alternanze di umore, non fosse risultata tale da impedire in concreto lo svolgimento di attività lavorative;
che il punto (cessazione delle attività lavorative nell’aprile 2010 a causa proprio della patologia depressiva) di cui sarebbe stata omessa la considerazione o che sarebbe stato erroneamente valutato, è solo menzionato in via di sintesi narrativa nel ricorso per cassazione, quale difesa svolta già in appello, mentre non sono stati riportati in dettaglio i passaggi in cui la rilevanza causale di esso rispetto alla cessazione del lavoro sarebbe stata evidenziata nel grado di merito; che non è sufficiente il constare che nel giudizio di appello fosse noto il fatto in sé della chiusura dell’attività, in quanto, stanti le possibili plurime cause della cessazione dell’impresa, risultava invece strettamente necessaria l’allegazione che ciò era stato dovuto alle condizioni di salute della ricorrente; che a tal fine era necessario che fosse espressamente evidenziato, in osservanza del requisito di specificità, sotto il profilo della autosufficienza, in quali esatti passaggi del processo di appello vi fosse stata tale esplicita deduzione, non potendosi altrimenti apprezzare, in questa sede ed in base al ricorso, che effettivamente la Corte territoriale abbia erroneamente omesso di valutare un collegamento causale o lo abbia erroneamente apprezzato, se esso non le era stato affermato e sottolineato come tale;
che infatti “ove con il ricorso per cassazione sia censurato il vizio di motivazione, è onere della parte ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; Cass. 11 gennaio 2007, n. 324);
che, una volta esclusa l’ammissibilità della censura rispetto alle valutazioni inerenti il motivo della cessazione dell’impresa, l’apprezzamento rispetto al livello di gravità della depressione maggiore non può dirsi in sé implausibile, in quanto appunto fondato sul fatto che le difficoltà psichiche si erano comunque accompagnate, almeno fino ad un certo momento, ad attività lavorative; che in definitiva quello manifestato rispetto alla gravità della patologia si riduce ad un mero dissenso valutativo il quale, come tale, non può avere ingresso in sede di legittimità;
che in definitiva il ricorso si appalesa complessivamente come inammissibile, risultando esso finalizzato (valutazione di gravità della patologia) ad una non consentita rivalutazione del materiale di merito, per giunta, in parte, su presupposti (ragioni della cessazione del lavoro) differenti, rispetto ai quali non vi è specifica e precisa deduzione che fossero stati in quanto tali sottoposti al giudice di appello;
che, rispetto alle spese, per quanto vi sia stata ammissione al gratuito patrocinio, manca la dichiarazione ai sensi dell’art. 152 disp. att. c.p.c.;
che tale dichiarazione è necessaria, quale assunzione di responsabilità ed impegno, presso il giudice, a comunicare le modificazioni reddituali, come reso evidente dal fatto che essa deve essere contenuta, come stabilisce la norma citata, “nelle conclusioni”;
che pertanto le spese restano regolate secondo soccombenza;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.000,00 per compensi ed euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % ed accessori di legge.
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