CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2020, n. 24391
Regolarizzazione contributiva – Consulenza libero- professionale per servizi di marketing – Natura subordinata del rapporto inter partes – Qualificazione dell’atto di risoluzione del rapporto come licenziamento – Indici della subordinazione
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato la convenuta D. di S. s.p.a. a corrispondere a G. B. la complessiva somma di € 400.487,82, oltre accessori, e dichiarato inammissibile la domanda di condanna della società alla regolarizzazione contributiva spiegata dall’INPS;
1.1. la statuizione di accoglimento della domanda del B., l’unica ancora rilevante, è stata fondata: a) sulla natura subordinata del rapporto inter partes, formalmente configurato come di consulenza libero- professionale per servizi di marketing strategico e operativo e per l’organizzazione dell’ufficio marketing; b) sulla conseguente qualificazione dell’atto di risoluzione del rapporto come licenziamento il quale, in quanto intimato senza preavviso e privo di giusta causa, comportava il diritto del B. all’indennità sostitutiva del preavviso, all’indennità supplementare prevista dall’art. 19 c.c.n.I dirigenti imprese industriali oltre che al tfr;
2. per la cassazione della sentenza di secondo grado nonché della ordinanza in data 25.2.2016 ha proposto ricorso D. di S. s.p.a. sulla base, quanto alla sentenza, di cinque motivi e, quanto all’ordinanza, di sette motivi; le parti intimate hanno resistito ciascuna con tempestivo controricorso;
3. la società ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1. cod. proc. civ. ;
Considerato che
Motivi di ricorso avverso la sentenza di appello
1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce error in procedendo della Corte di merito censurando la sentenza impugnata per avere affermato la ammissibilità dell’appello, statuizione che assume adottata in violazione dell’art. 434 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 414, 99, 112 e 346 cod. proc. civ., del principio del tantum devolutum quantum appellatum e della previsione di cui all’art. 436 bis cod.proc.civ.; il giudice di appello si era discostato dai principi di diritto in punto di specificità della motivazione dell’impugnazione avendo omesso di considerare che l’appellante non aveva impugnato tutte le parti della sentenza costituenti il presupposto della decisione di primo grado e neppure le singole rationes decidendi che sorreggevano il rigetto della domanda del B.; sotto il profilo della violazione dell’art. 436 bis cod. proc. civ. la sentenza era censurabile per non avere la Corte di merito rilevato l’assenza di ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello e che la modifica richiesta con l’atto di gravame non conteneva, come prescritto, una esposizione ragionata della proposta di una nuova soluzione;
2. con il secondo motivo di ricorso deduce error in procedendo della sentenza impugnata per non avere la Corte di merito, in violazione dell’art. 329, comma 2, cod. proc. civ., dell’art. 2909 cod. civ. e degli artt. 324 e 327 cod. proc. civ., dichiarato inammissibile l’impugnazione in relazione all’accertamento, possibile anche di ufficio, dell’intervenuta “acquiescenza implicita” e/o “giudicato implicito” sui fatti relativi al carattere autonomo della prestazione del B. e alla mancanza di indici di rivelatori della natura dipendente dell’attività espletata, quale accertata dalla sentenza di primo grado e non oggetto di impugnazione da parte del B.;
3. con il terzo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2222 cod. civ. censurando la decisione di appello per avere condotto la verifica della natura subordinata del rapporto tra le parti sulla base di un’erronea ricognizione dei parametri normativi di riferimento; sostiene che la valorizzazione del criterio dell’inserimento del B. nella organizzazione aziendale, inteso quale inerenza dell’attività del dirigente ad un processo complesso e complessivo dell’attività della società, non si prestava ad essere considerato affidabile ai fini qualificatori, considerato che tale inserimento era comune anche al lavoro autonomo ogni volta che l’opera o il servizio dedotti in contratto erano finalizzati alla produzione di un risultato o di una sequenza di risultati integrati stabilmente nel ciclo produttivo dell’impresa; in questa prospettiva assume che il dato effettivamente dirimente era costituito dalla cd. eterorganizzazione intesa come predeterminazione da parte del datore di lavoro delle modalità e dei tempi nei quali l’attività del prestatore era tenuta ad inserirsi, situazione non concretamente rinvenibile nella fattispecie in esame; gli elementi, infatti, considerati dal giudice di appello per ritenere integrato l’inserimento del B. nell’organizzazione aziendale e cioè la direzione funzionale del personale dipendente da parte del B., la direzione gerarchica nei confronti delle risorse del suo ufficio a lui sottoposte, la “ontologica” soggezione gerarchica ad un responsabile della società, l’utilizzo di risorse aziendali, la previsione del rimborso delle spese di trasferta costituivano elementi inidonei a ricondurre la prestazione resa all’ambito della nozione di eterorganizzazione nell’accezione descritta;
4. con il quarto motivo di ricorso deduce violazione dell’art. 132, commi 2 e 4, cod. proc. civ. e dell’art. 111, comma 6, Cost., in relazione agli artt. 156 e 159 cod. proc. civ. deducendo apparenza di motivazione o motivazione perplessa perché insufficiente e contraddittoria con particolare riguardo agli elementi valorizzati nella ricostruzione del rapporto inter partes come di natura subordinata;
5. con il quinto motivo deduce omesso esame di fatti controversi e decisivi in violazione degli artt.115 e 116 cod. proc. civ., fatti che, ove esaminati, avrebbero comportato la qualificazione in termini di autonomia del dedotto rapporto; tali la coincidenza dell’attività oggetto del contratto di consulenza stipulato dal B. con la società D. di S. con quella della società M.K. soc. coop a r.l. fondata dal B. nell’anno 2002; il contratto di consulenza non contemplava la messa a disposizione di energie lavorative bensì la realizzazione di un’opus e prevedeva specificamente il coordinamento dei lavori degli addetti all’ufficio marketing della società, al fine del conseguimento di un determinato risultato in relazione al quale l’attività del B. non era soggetta a controlli e verifiche da parte della società; inoltre, questi era libero di essere presente al lavoro quando voleva, non aveva obblighi di rispetto dell’orario o di luogo, non doveva essere autorizzato per restare assente diversamente dagli altri dipendenti e non era soggetto all’obbligo di esclusiva come confermato dalla documentazione prodotta; tanto induceva a privilegiare nella ricostruzione del rapporto la volontà negoziale delle parti che si era sempre espressa nel senso dell’autonomia, una volta sostituito il contratto di lavoro dipendente in precedenza instaurato dal B. con la società;
Motivi di ricorso avverso l’ordinanza in data 25 febbraio 2016
6. con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente, premesso che con l’ordinanza impugnata era stata disposta ctu contabile motivata dalla necessità di determinare le somme spettanti al B. a titolo di tfr, indennità sostitutiva del preavviso ed indennità supplementare ex art. 19 c.c.n.l. dirigenti industriali in relazione all’intercorso rapporto di lavoro subordinato per il periodo 1.2.2003/25.2.2010, deduce violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 111, comma 6, Cost, in relazione agli artt. 156 e 159 cod. proc. civ., per avere il giudice di appello omesso di motivare in ordine al detto provvedimento, di contenuto decisorio, il quale aveva dato per accertata la natura subordinata del rapporto senza indicarne le ragioni;
7. con il secondo motivo deduce violazione degli artt. 2094 cod. civ. e 2222 cod. civ. per avere omesso di effettuare nel provvedimento anticipatorio la ricognizione di qualsivoglia parametro costituente la subordinazione e di identificare la fattispecie concreta da sussumere nella fattispecie astratta;
8. con gli ulteriori motivi ripropone le medesime censure svolte nei confronti della sentenza con i motivi primo, secondo e quinto, nonché, per l’ipotesi in cui dovesse ritenersi che la conferma integrale dell’ an e del quantum del provvedimento anticipatorio avesse comportato il richiamo per relationem della motivazione della sentenza impugnata, le censure avverso quest’ultima sviluppate con i motivi terzo e quarto;
9. Preliminarmente occorre rilevare la inammissibilità del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di conferimento dell’incarico al consulente tecnico, in quanto priva del carattere di decisorietà, secondo quanto condivisibilmente chiarito dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte per la quale i provvedimenti di accoglimento o rigetto dell’istanza di consulenza tecnica, provvedimenti che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito e rivestono natura ordinatoria, sono privi dei necessari requisiti della decisorietà e definitività, in quanto strumentali e preparatori rispetto alla futura decisione e sempre revocabili o modificabili dal giudice che li ha emessi (v. tra le altre, Cass. Sez. Un. 08/08/2000 n. 549; Cass. Sez. Un. 04/02/1999 n. 964);
10. il quarto motivo di ricorso avverso la sentenza di appello, che viene esaminato con priorità per il carattere dirimente collegato al suo eventuale accoglimento, è infondato;
10.1. è noto che la motivazione meramente apparente – che la giurisprudenza parifica, quanto alle conseguenze giuridiche, alla motivazione in tutto o in parte mancante – sussiste allorquando pur non mancando un testo della motivazione in senso materiale, lo stesso non contenga una effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni sviluppate non consentono di ricostruire il percorso logico -giuridico alla base del decisum. E’ stato in particolare precisato che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. Un. 03/11/2016 n. 22232), oppure allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. 07/04/2017 n. 9105) oppure, ancora, nell’ipotesi in cui le argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (Cass. 18/09/2009 n. 20112);
10.2. tali carenze non sono riscontrabili nella parte motiva della decisione impugnata dalla quale sono agevolmente ricostruibili gli elementi fattuali alla base della ricostruzione dell’effettive modalità di svolgimento del rapporto e le ragioni logico -giuridiche a sostegno della riconduzione del rapporto in oggetto all’area della subordinazione cd. attenuata in considerazione dell’elevato contenuto intellettuale della prestazione. La Corte di merito ha, infatti, ampiamente argomentato, dando puntuale riscontro delle emergenze istruttorie, in ordine alle circostanze concrete ed ai parametri normativi utilizzati; in particolare, i poteri di direzione e controllo del personale dipendente della società riconosciuti in capo al B. valorizzati per inferire l’inserimento dello stesso nella organizzazione gerarchica della società con assoggettamento, sia pure nei limiti della cd subordinazione attenuata, alla società, oltre a trovare concreto riscontro fattuale a partire dall’anno 2008, costituiscono frutto di ragionamento presuntivo privo di incongruità ed illogicità in quanto coerente con consolidate regole di esperienza e, pertanto, sottratto al controllo di legittimità;
10.3. il primo motivo di ricorso avverso la sentenza di appello è inammissibile in quanto articolato con modalità non idonee a consentire la verifica di fondatezza delle censure articolate in relazione al denunziato error in procedendo sulla base della sola lettura del ricorso per cassazione, come prescritto (Cass.09/07/2004, n. 12761; Cass. Sez. Un. 02/02/2003, n. 2602; Cass. 30/03/2001, n. 4743),
10.4. secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, l’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla S.C. ove sia denunciato, come nel caso di specie, error in procedendo della sentenza impugnata, presuppone l’ammissibilità del motivo (Cass. 25/09/2019, n. 23834; Cass. 08/06/2016, n. 11738), ossia che la parte riporti in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi ed i riferimenti che consentono di individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio suddetto così da consentire alla Corte di effettuare il controllo sul corretto svolgimento dell'”iter” processuale senza compiere generali verifiche degli atti (Cass. 30/09/2015, n. 19410);
10.5. tale principio esprime la necessità che la censura proposta attinga il necessario livello di specificità attraverso l’ausilio della completezza espositiva dei fatti per essa rilevanti onde dar modo al collegio, sulla base del solo esame del ricorso per cassazione, di verificare la fondatezza delle doglianze articolate. Il rispetto delle prescrizioni imposte dall’osservanza del principio richiamato non si presta ad essere interpretato come onere di natura esclusivamente formale atteso che esso è destinato a riflettersi sulla esatta individuazione dell’ambito devoluto al giudice di legittimità, nel contesto del più generale ambito della delimitazione dei poteri cognitori del giudice di legittimità in relazione agli atti di causa ed, in definitiva, del diritto di accesso al giudice di ultima istanza come espressione del giusto processo;
10.6 la giurisprudenza di legittimità, nella consapevolezza degli interessi di rilievo anche costituzionali coinvolti, in tema di corretta delimitazione dell’onere a carico del ricorrente ha chiarito che per soddisfare il requisito imposto dall’articolo 366, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (cfr., tra le altre, Cass.03/02/2015 n. 1926);
10.7. in relazione alle ricadute di tale principio con riferimento al tema della denunzia di error in procedendo per omesso rilievo della inammissibilità dell’appello in ragione del difetto di conformità al paradigma di specificità imposto dall’art. 342 cod. proc. civ., questa Corte ha affermato che ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ. conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte (Cass. 10/01/2012, n. 86; Cass. 21/05/2004, n. 9734); a tale onere si collega quello connesso alla necessità di trascrivere o riportare con precisione le argomentazioni della parte motiva della sentenza di primo grado il cui contenuto costituisce imprescindibile termine di riferimento per la verifica in concreto del rispetto del principio di specificità dell’appello di cui agli artt. 342 e 343 cod. proc. civ. (v. Cass. 04/02/2019 n. 3194). Tale ultima affermazione è coerente con il principio secondo il quale, al fine della valida impugnazione di un capo di sentenza, non è sufficiente che nell’atto d’appello sia manifestata una volontà in tal senso, ma è necessario che sia contenuta una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (Cass. 15/06/2016 n. 12280; Cass. 22/09/2015 n. 18704; Cass. Sez. Un. 09/11/2011 n. 23299);
10.8. il motivo in esame non è articolato in conformità del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, principio che non risulta superato dalla redazione del ricorso secondo modalità asseritamente conformi al Protocollo di intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense del 17 dicembre 2015 in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria; il Protocollo contiene una sezione espressamente dedicata al rispetto del suindicato principio stabilendosi al riguardo, fra l’altro, che tale rispetto, pur non comportando “un onere di trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso di atti o documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento”, tuttavia presuppone che: “1) ciascun motivo articolato nel ricorso risponda ai criteri di specificità imposti dal codice di rito; 2) nel testo di ciascun motivo che lo richieda sia indicato l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo su cui si fonda il motivo stesso (art. 366, c. 1, n. 6), cod. proc. civ.), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo al quale ci si riferisce; 3) nel testo di ciascun motivo che lo richieda siano indicati il tempo (atto di citazione o ricorso originario, costituzione in giudizio, memorie difensive, ecc.) del deposito dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo e la fase (primo grado, secondo grado, ecc.) in cui esso è avvenuto; 4) siano allegati al ricorso (in apposito fascicoletto, che va pertanto ad aggiungersi all’allegazione del fascicolo di parte relativo ai precedenti gradi del giudizio) ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., gli atti, i documenti, il contratto o l’accordo collettivo ai quali si sia fatto riferimento nel ricorso e nel controricorso”;
10.9. la evocazione in ricorso del contenuto dell’atto di appello del B. avverso la sentenza di primo grado, affidata ad una ricostruzione parcellizzata del relativo contenuto, caratterizzata da richiami a singoli punti dell’atto di gravame (individuati mediante il corrispondente riferimento alla pagine ed alle righe del ricorso in appello), risulta intrinsecamente inidonea a dare contezza della effettiva ampiezza e portata delle critiche in concreto formulate alla sentenza di primo grado; inoltre, e tale rilievo assume carattere dirimente, la violazione del paradigma di specificità dell’atto di impugnazione non può dirsi integrata, come sembra prospettare l’odierna ricorrente (v. ricorso, pag. 16), per il solo fatto della mancata confutazione di tutte le argomentazioni spese dalla sentenza impugnata, configurandosi quale espressione di un sufficiente grado di specificità il caso in cui lo svolgimento dei motivi sia compiuto in termini incompatibili con la complessiva argomentazione della sentenza, restando in tal caso superfluo l’esame dei singoli passaggi argomentativi (Cass. 31/05/2006, n. 12984). In altri termini, la specificità non può dirsi esclusa dal fatto che l’appellante non abbia puntualmente sottoposto a critica tutte le concrete circostanze alle quali aveva fatto riferimento il giudice di primo grado nel pervenire all’accertamento della natura autonoma del rapporto tra le parti, come, invece, sembra richiedere parte ricorrente laddove evidenzia che il B. aveva impugnato solo alcuni elementi delle singole parti “logiche ” della sentenza di primo grado, quali individuate dalla ricorrente medesima;
10.10. il difetto di autosufficienza del motivo in esame in relazione al contenuto dell’atto di gravame del B. preclude la verifica della ulteriore censura formulata dalla società intesa a far valere l’assenza nello stesso della cd parte construens vale a dire di quei requisiti di contenuto della “motivazione” dell’appello, richiesti dall’art. 434 c.p.c. (nella formulazione, applicabile ratione temporis, introdotta dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla I. n. 134 del 2012) che pongono a carico dell’appellante un preciso ed articolato onere processuale, compendiabile nella necessità che l’atto di gravame, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, offra una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice ( Cass. 07/09/2016 n. 17712);
10.11. le considerazioni che precedono assorbono la necessità di esame della censura intesa a denunziare sotto plurimi profili l’omesso rilievo della inammissibilità dell’appello ai fini dell’art. 436 bis cod. proc. civ.;
11. parimenti inammissibile, per difetto di specificità, è il secondo motivo di ricorso. E’ noto che in tema di impugnazioni, qualora la sentenza del giudice di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposta avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe, pur sempre, fondata su di essa (Cass. 31/01/2006, n. 2127; Cass. 21/06/2005 n. 13325; Cass. 04/02/2005 n. 2273);
11.1. l’omesso rilievo del giudicato interno dà luogo ad un error in procedendo per il quale, in ossequio ai principi in tema di autosufficienza sopra richiamati si richiede l’indicazione degli elementi e riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il contenuto dell’atto di appello (Cass. 15/03/2019, n. 7499), onere questo che alla luce di quanto rappresentato nell’esame del motivo precedente non risulta essere stato assolto dall’odierna ricorrente; a tanto deve soggiungersi che parte ricorrente muove dalla non corretta individuazione, sotto il profilo concettuale, della nozione di ratio decidendi, in quanto sembra declinarla in relazione alle singole circostanze di fatto e relativa valutazione giuridica alle quali aveva fatto riferimento la sentenza di primo grado laddove essa si configura come espressione della giustificazione, che all’esito dell’esame degli elementi di fatto e della relativa valutazione di diritto, è idonea a sorreggere la decisione; nel caso di specie, secondo quanto rappresentato dalla stessa parte ricorrente, la qualificazione come di natura autonoma del rapporto in oggetto è frutto della valutazione di un complesso di elementi posti in reciproca relazione, nessuno dei quali di per sé solo idoneo a giustificare la qualificazione giuridica del rapporto come autonomo;
12. il terzo motivo di ricorso è infondato;
12.1. la sentenza impugnata nel pervenire alla qualificazione come di natura subordinata del rapporto dedotto ha preso le mosse dalla considerazione dei compiti disimpegnati dal B., « tutti rientranti nell’ambito di competenze altamente qualificate in materia di “marketing strategico operativo nel settore della produzione e commercializzazione vinicola nel cui ambito opera la D. di S. s.p.a.», ed osservato che la tipologia intellettuale e sostanzialmente creativa del contenuto dell’attività espletata e l’ampiezza dell’autonomia decisionale ed operativa comportavano necessariamente un’attenuazione del potere direttivo in capo al datore di lavoro; tanto induceva a privilegiare, nella verifica della natura subordinata o meno del rapporto, quale fattore con valore sintomatico preponderante, l’elemento dell’inserimento dell’attività del B. nella organizzazione imprenditoriale della società, per il perseguimento degli obiettivi aziendali senza assunzione di rischio connesso all’effettivo raggiungimento di risultato; in altri termini, il requisiti dell’etero organizzazione non andava apprezzato sulla base dell’assoggettamento a precise direttive riguardanti le singole scelte di marketing ma «nell’incardinazione nella complessiva struttura produttiva con perdita effettiva di individualità dell’attività del presunto consulente esterno che diviene parte del fattore umano dell’impresa»; in questo ordine di idee la Corte di merito ha valorizzato il ruolo, non di sola direzione funzionale ma anche gerarchica, assunto dal B. nei confronti del personale dipendente dalla società, ruolo che ha ritenuto ontologicamente incompatibile con un rapporto libero professionale, configurandosi lo stesso quale espressione di una catena gerarchica nella quale risultava necessariamente inserito il soggetto sovraordinato il quale, a sua volta, proprio in ragione del potere di direzione e controllo attribuitogli nei confronti dei dipendenti della società, non può ritenersi sganciato da ogni rapporto di dipendenza gerarchica con quest’ultima, considerazione questa che trovava positivo riscontro nel fatto che con l’ingresso nella società, nell’anno 2008, di un direttore commerciale, la funzione del B. viene indicata nelle comunicazioni di servizio come da riportare sia funzionalmente che gerarchicamente a quest’ultimo; infine, quali ulteriori elementi significativi della natura subordinata del rapporto sono stati considerati l’utilizzo esclusivo da parte del B. di mezzi e strumenti aziendali (telefono fisso, cellulare, pc), la quotidianità di presenza nei locali della società, la fruizione di buoni pasto mensili, dal rimborso delle spese di trasferta;
12.2. alla luce delle ragioni che sorreggono l’accertamento della natura subordinata del rapporto è da escludere la dedotta violazione di legge sotto il profilo della determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto
12.3. come è noto requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative e dall’esercizio del potere disciplinare e che l’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo; non è idoneo a surrogare il criterio della subordinazione nei precisati termini neanche il “nomen iuris” che al rapporto di lavoro sia dato dalle sue stesse parti il quale, pur costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non risulti in contrasto con le concrete modalità del rapporto medesimo (Cass. 19/08/2013, n. 19199, Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500). Del resto <<ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, essendo l’iniziale contratto causa di un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il “nomen iuris” che utilizza non costituiscono fattori assorbenti, diventando l’esecuzione, per il suo fondamento nella volontà inscritta in ogni atto di esecuzione, la sua inerenza all’attuazione della causa contrattuale e la sua protrazione, non solo strumento d’interpretazione della natura e della causa del rapporto di lavoro (ai sensi dell’art. 1362 cod. civ., comma 2), bensì anche espressione di una nuova eventuale volontà delle parti che, in quanto posteriore, modifica la volontà iniziale conferendo, al rapporto, un nuovo assetto negoziale» (v. Cass. 05/07/ 2006, n. 15327); pertanto, sia nell’ipotesi in cui le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di volere un rapporto di lavoro autonomo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia (Cass., n. 19199/2013 cit.), sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo aver voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve a tal fine attribuire valore prevalente – rispetto al nomen iuris adoperato in sede di conclusione del contratto – al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto stesso” (Cass. 10/04/ 2000, n. 4533; Cass. 21/07/ 2000, n. 9617; Cass. 26/06/ 2001, n. 8407);
12.4. in ordine alla qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, in presenza di prestazione con elevato contenuto intellettuale, questa Corte ha costantemente affermato che è necessario verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto organizzativo aziendale (cfr. Cass. 01/08/2013, n. 18414; Cass. 15/05/2012 n. 7517; Cass. 14/02/2011, n. 3594), potendosi ricorrere altresì, in via sussidiaria, a elementi sintomatici della situazione della subordinazione quali l’inserimento nell’organizzazione aziendale, il vincolo di orario, l’inerenza al ciclo produttivo, l’intensità della prestazione, la retribuzione fissa a tempo senza rischio di risultato; in particolare, ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata aziendale (Cass. 13/02/2020, n. 3640; Cass. 10/05/2016, n.9463; Cass. 15/05/2012 n. 7517);
12.5. la decisione di appello risulta coerente con tale impostazione sia laddove, rispetto alla qualificazione operata dalle parti, riconosce come prevalenti le concrete modalità di svolgimento della prestazione sia perché la valorizzazione dei cd. indici sussidiari è frutto della specifica considerazione delle caratteristiche dell’attività dedotta la quale, per i suoi elevati contenuti intellettuali, non si presta ad essere oggetto di penetranti poteri conformativi della parte datoriale in tema di criteri di qualificazione riferiti al lavoro giornalistico Cass. n.09/04/2004, n. 6983; Cass. 20/01/2001 n. 833);
12.6. le ulteriori deduzioni del ricorrente, intese a contrastare la valenza probatoria degli elementi utilizzati dal giudice di merito sulla base di un diverso apprezzamento degli stessi, sono inammissibili in quanto la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre l’accertamento degli elementi, che rivelino l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che siano idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato, come avvenuto nel caso di specie, resta insindacabile in Cassazione (v. Cass. 23/06/ 2014, n. 14160; Cass. 27/07 2007, n. 16681»
13. il quinto motivo di ricorso è inammissibile;
13.1. invero una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, come concretamente censurato dalla odierna ricorrente, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass.17/01/2019, n. 1229; Cass. 27/12/2016, n. 2016), questioni non prospettate nella illustrazione del motivo;
13.2. la deduzione di vizio motivazionale non è articolata in conformità dell’attuale configurazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. per la dirimente considerazione che le circostanze delle quali si lamenta l’omesso esame o esprimono valutazioni, frutto di un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie (tale ad es. il fatto che l’attività del B. fosse caratterizzata dal conseguimento di un risultato e che non fosse soggetta a controlli e verifiche) o sono prive di decisività (per es. in tema di presenza in ufficio, o in tema di riferimento al contenuto dell’attività della società M.K.) o sono comunque state prese in considerazione dalla Corte di merito ( ad es. in tema di volontà negoziale desumibile dal contratto di consulenza);
14. al rigetto del ricorso consegue il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza;
15. sussistono i presupposti processuali per l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, ove risulti dovuto il contributo;
P.Q.M.
rigetta il ricorso avverso la sentenza n. 981/2016 della Corte d’appello di Palermo e dichiara inammissibile il ricorso avverso la ordinanza in data 25.2.2016 della medesima Corte d’appello.
Condanna parte ricorrente alla rifusione in favore di ciascuna parte controricorrente delle spese di lite che liquida in € 7.000,000 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 151% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, ove dovuto.
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