CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 novembre 2020, n. 24602
Licenziamento disciplinare – Reintegrazione nel posto di lavoro – Corresponsione di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto – Esclusione del rateo di TFR – Duplicazione
Rilevato
che la Corte territoriale di Bologna, con sentenza pubblicata in data 22.5.2018, ha accolto parzialmente il reclamo interposto da P.I. S.p.A., nei confronti di R.F., avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede n. 36/2018, resa il 18.1.2018, con la quale – in riforma dell’ordinanza pronunziata all’esito della fase sommaria – era stata accolta la domanda della dipendente diretta ad ottenere la nullità del licenziamento disciplinare alla stessa intimato, con la condanna di P.I. S.p.A. alla reintegrazione della stessa nel posto di lavoro ed alla corresponsione, in favore della medesima, di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto, corrispondente ad Euro 2.104,91 dalla data del licenziamento sino a quella di effettiva reintegrazione, <<fino a un massimo di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, dedotto quanto la lavoratrice ha percepito nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione>>;
che, pertanto, la Corte di Appello, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, ferma nel resto, ha determinato in Euro 1.964,57 la retribuzione globale di fatto, in considerazione del fatto che <<non può essere compreso nella retribuzione globale di fatto il rateo di TFR>>, poiché, <<nel caso in cui – come quello in esame – la condanna al risarcimento del danno patrimoniale si accompagni alla reintegrazione nel posto di lavoro, deve escludersi che possa essere compresa nella base di calcolo anche il rateo di TFR, in quanto ciò produrrebbe una duplicazione, venendo lo stesso ad essere corrisposto (quale retribuzione differita) una volta cessato il rapporto di lavoro> (v. pagg. 8 e 9 della sentenza impugnata);
che per la cassazione della sentenza ricorre P.I. S.p.A., articolando un motivo contenente più censure, cui R.F. resiste con controricorso;
che sono state depositate memorie nell’interesse di entrambe le parti, ai sensi dell’art. 380-bis del codice di rito;
che il P.G. non ha formulato richieste
Considerato
che, con il ricorso, si deduce, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la <<violazione e/o falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p. in relazione all’art. 530 comma 2 c.p.p., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c.>>, ed altresì, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l'<<omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti>>, e si lamenta che i giudici di seconda istanza sarebbero pervenuti alla decisione impugnata <<basandosi, in ordine alla illegittimità del licenziamento impugnato, non già sull’apparato probatorio raccolto nel presente giudizio, bensì sull’apparato probatorio formatosi nel giudizio penale, sulla base del quale è stata pronunciata l’assoluzione della F. ai sensi dell’art. 530, comma 2 c.p.p., in tal modo violando l’art. 654 c.p.p.>>, ai sensi del quale <<nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa>>; si deduce, inoltre, che i giudici di seconda istanza avrebbero violato anche gli artt. 115 e 116 c.p.c., <<nella parte in cui prescrivono che, “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti” e che “il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti”>>;
che il motivo non è meritevole di accoglimento; innanzitutto, infatti, la società ricorrente non ha prodotto (e neppure indicato tra i documenti offerti in comunicazione nel ricorso per cassazione), né trascritto, la sentenza penale di cui si discute (peraltro di assoluzione ed irrevocabile), pronunziata nei confronti della F.; e ciò, in violazione del principio (v. combinato disposto degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369 del codice di rito), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare pienamente la veridicità delle doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza, che si risolvono, quindi, in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);
che, inoltre, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr., per tutti, Cass., SS.UU., 15486/2017), <<La violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e, per analogia, anche delle corrispondenti norme processuali tipiche del rito del lavoro di cui agli artt. 420 e 437 c.pc., può essere dedotta come vizio di legittimità solo lamentando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli>> : la qual cosa, nella fattispecie, non è avvenuta, posto che i giudici di merito hanno dato puntualmente e correttamente atto dell’iter argomentativo che li ha condotti, attraverso una motivata delibazione dei mezzi istruttori, alla decisione impugnata;
che <<A tanto va aggiunto che, in linea di principio, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (tra le varie, Cass. n. 24434/2016), dovendosi peraltro ribadire che, in relazione al nuovo testo di questa norma, qualora il giudice abbia preso in considerazione il fatto storico rilevante, l’omesso esame di elementi probatori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo (Cass., SS.UU. n. 8053/2014>>; e, nella fattispecie, i giudici del gravame hanno preso in esame tutte le circostanze dedotte in ricorso, valutandole – sulla base degli elementi delibatori hinc et inde dedotti – diversamente da come auspicato dalla parte ricorrente; pertanto, neppure la censura sollevata in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., coglie nel segno;
che, infine, i giudici di seconda istanza, in conformità con la giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. n. 15353/2012), condivisa da questo Collegio, premesso che, <<all’esito del dibattimento penale è stata esclusa la responsabilità della F. per i medesimi fatti materiali su cui si fonda il licenziamento disciplinare (incontroverso, oltre che documentale)>>, hanno condivisibilmente reputato che <<il giudice civile non può considerare ininfluente la sentenza di assoluzione conclusiva del suindicato procedimento penale divenuta cosa giudicata, così come non può non vagliare le prove ritualmente raccolte in quel processo ai fini della valutazione della condotta>> della lavoratrice (v. pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata);
che, per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va respinto;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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