CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 ottobre 2018, n. 24306
Tributi – Verifica GdF – Acquisizione documentazione custodita all’interno di una borsa nei locali dell’impresa – Mancanza di autorizzazione della Procura della Repubblica – Apertura della stessa con l’autorizzazione di un dipendente dell’impresa in verifica – Assenza di contestazione in sede di dichiarazione di chiusura della verifica – Utilizzabilità ai fini dell’accertamento
Rilevato che
– l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata il 2 ottobre 2012, che ha accolto l’appello della V. B. s.r.l. in liquidazione e dichiarato illegittimi gli avvisi di accertamento con cui, relativamente agli anni 1999, 2000 e 2001, erano stati recuperati a tassazione ricavi non dichiarati;
– dall’esame della sentenza impugnata si evince che gli atti impositivi traevano origine da due verifiche dalle quali era emersa l’esistenza di documentazione relativa ad un conto corrente bancario intestato alla sig. L. C., la cui movimentazione, secondo l’Ufficio, si riferiva ad operazioni della società contribuente;
– il giudice di appello, dopo aver ritenuto infondata l’eccezione della contribuente relativa al mancato rispetto del termine di trenta giorni per l’ultimazione dell’attività di verifica, ha evidenziato che l’acquisizione dei dati di cui al conto corrente intestato alla sig. C. era stata effettuata illegittimamente, in quanto posta in essere tramite l’apertura di una borsa chiusa previa autorizzazione della sig. V.O., non delegata, tuttavia, a prestare assistenza in sede di indagini;
– ha aggiunto, inoltre, che a fronte di accertati maggiori ricavi non erano stati accertati i conseguenti maggiori costi sostenuti per produrre i maggiori ricavi;
– il ricorso è affidato a nove motivi;
– resiste con controricorso la V. B. s.r.l. in liquidazione, la quale propone, altresì, ricorso incidentale condizionato;
Considerato che
– va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla contribuente in considerazione del fatto che lo stesso è stato notificato solo presso l’effettivo domicilio – nelle more mutato – di alcuni dei procuratori destinatari dell’atto;
– l’eccezione è infondata, giacché dall’esame della sentenza si evince che nel corso del giudizio di secondo grado la parte aveva eletto domicilio presso lo studio dell’avv. L. T. sito in Mestre, via Torino 151/A e ivi è stato spedito, mediante il servizio postale, il plico contenente il ricorso, per cui non si ravvisa alcuna irregolarità in relazione al luogo di notificazione dell’atto e al destinatario dello stesso;
– del pari prive di pregio sono le eccezioni di inammissibilità avanzate dalla contribuente in relazione all’asserita violazione dell’art. 366, primo comma, n. 3, c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., atteso che, per quanto riguarda il primo aspetto, il ricorso e i motivi in cui è articolato contengono tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, mentre, per quanto riguarda il secondo aspetto, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, secondo comma, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Suprema Corte ex art. 369, terzo comma, c.p.c. (cfr., sul punto, Cass., ord., 30 novembre 2017, n. 28695);
– nel merito, con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c.e 54, secondo comma, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per aver la sentenza impugnata omesso di esaminare l’appello incidentale dalla medesima proposto, vertente su un capo della decisione di primo grado del tutto autonomo e distinto da quello oggetto dell’appello principale;
– con il secondo motivo, formulato in via subordinata, deduce la violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., 36, secondo comma, n. 4, e 61, d.lgs. n. 546 del 1992, e 118, disp. att., c.p.c., in quanto il giudice di appello si sarebbe limitato a motivare la sua decisione mediante una mera adesione e una pedissequa trascrizione della pronuncia di primo grado, senza consentire di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice medesimo sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame;
– con il terzo motivo si duole della la violazione e falsa applicazione degli artt. 52, terzo comma, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 25, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, per aver la sentenza impugnata ritenuto illegittima l’apertura della borsa della sig. C. effettuata nel corso della verifica sulla base di autorizzazione rilasciata da una dipendente della contribuente in ragione del fatto che la stessa non era stata delegata dal titolare della stessa a rappresentarlo nel corso delle operazioni di verifica;
– con il quarto motivo di ricorso l’Agenzia censura la sentenza di appello per omessa motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo del giudizio, in quanto, in relazione alla accertata illegittimità degli avvisi di accertamento in quanto emessi a seguito dell’apertura di una borsa non autorizzata da persona delegata dalla contribuente a rappresentarla nel corso delle operazioni di verifica, non avrebbe preso in considerazione che in tale sede nessuna contestazione era stata formulata dal titolare dell’impresa, né dal suo delegato in ordine all’apertura della borsa, che una dipendente dell’impresa verificata aveva dato il suo assenso all’apertura della borsa medesima e che la documentazione rinvenuta all’interno della borsa aveva costituito un mero spunto per lo svolgimento di ulteriore attività di polizia tributaria, per cui i rilievi dell’amministrazione si fondavano non già sulla predetta documentazione, bensì sui risultati dei controlli eseguiti sul conto corrente bancario;
– con iI quinto motivo di ricorso ripropone la medesima censura di cui al motivo precedente, articolata in relazione alla nuova formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., laddove ritenuta applicabile al caso in esame;
– con il sesto motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 2697 c.c., 113, 115 e 116 c.p.c., 75 (ora 109), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, 32 e 39, primo comma, lett. c) e d), d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, 5 e 25, d.lgs. n. 447 del 1997, 19, 51 e 54, d.P.R. n. 633 del 1972, 17, direttiva CEE del 17 maggio 1977, n. 77/388/CE, e 167, direttiva CEE 29 novembre 2006, n. 2006/112/CE;
– evidenzia, in proposito, che vertendosi in un caso di accertamento analitico induttivo ex articolo 39, primo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, era onere del contribuente dimostrare che i costi fossero esistenti, inerenti, certi, determinati o determinabili;
– sottolinea che era illegittimo il ricorso del giudice a criteri equitativi al fine di riconoscere il diritto del contribuente a detrarre l’i.v.a. i relativi costi, la cui esistenza è stata presuntivamente riconosciuta ai fini delle imposte dirette;
– aggiunge, infine, che con riferimento ai movimenti di un conto corrente bancario riferibili all’attività di impresa devono essere considerati ricavi sia i versamenti, sia i prelevamenti, salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari;
– con il settimo motivo l’Agenzia allega l’omessa o insufficiente motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo del giudizio, in quanto la Corte territoriale aveva riconosciuto la possibilità di dedurre in misura forfettaria costi a fronte di maggiori ricavi accertati, nonché i costi recuperati a tassazione dall’Ufficio;
– con l’ottavo motivo di ricorso ripropone la medesima censura di cui al motivo precedente, articolata in relazione alla nuova formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., laddove ritenuta applicabile al caso in esame;
– con l’ultimo motivo di ricorso l’Agenzia lamenta la violazione degli artt. Ili Cost. 2, 18, 53, 68 e 70, d.lgs. n. 546 del 1992, per aver la sentenza impugnata annullato gli atti impositivi impugnati, anziché esaminare nel merito la pretesa tributaria e eventualmente ricondurla alla misura corretta;
– il primo motivo di ricorso è infondato;
– l’Amministrazione finanziaria ha proposto appello incidentale avverso il capo della sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il processo verbale di constatazione del 7 marzo 2002 in ragione della ritenuta inutilizzabilità della documentazione rivenuta nella borsa della sig. C.;
– sostiene che il giudice di appello non si sarebbe pronunciato sul gravame;
– la lettura della sentenza evidenzia, invece, che la Corte territoriale, pur non pronunciandosi espressamente al riguardo, ha inequivocabilmente ritenuto infondata l’impugnazione proposta dall’Agenzia, ribadendo l’inutilizzabilità degli elementi probatori di cui al verbale del 7 marzo 2002 in quanto traenti origine in via esclusiva dalla ritenuta illecita acquisizione di documenti custoditi nella borsa della sig. C.;
– anche il secondo motivo è infondato, in quanto la sentenza di appello provvede ad illustrare la decisione assunta con ragioni attinenti ai motivi di impugnazione proposti;
– il terzo motivo è ammissibile, in relazione al contestato profilo di inammissibilità in quanto tendente ad un nuovo accertamento del fatto relativo alla spontaneità o meno dell’apertura della borsa;
– infatti, la ricorrente non contesta la ricostruzione del fatto operata dal giudice di merito, ma pone la stessa – secondo cui l’apertura della borsa è stata autorizzata da una dipendente della società contribuente – a fondamento della censura;
– nel merito, il motivo è fondato;
– infatti, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta dall’art. 52, terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 33, d.P.R. n. 600 del 1973), è richiesta soltanto nel caso di «apertura coattiva», e non anche quando l’attività di ricerca si svolga con la collaborazione del contribuente (cfr. Cass. 18 febbraio 2015, n. 3204; Cass. 23 aprile 2007, n. 9565);
– conseguentemente, deve ritenersi legittima l’acquisizione di documentazione custodita all’interno di una borsa rinvenuta in sede di verifica fiscale laddove, come nel caso in esame, l’apertura della stessa è avvenuta con l’autorizzazione di un dipendente dell’impresa in verifica e, comunque, senza che sia stata sollevata alcuna contestazione specifica in sede di dichiarazione resa a chiusura della verifica medesima (circostanza quest’ultima non contestata);
– all’accoglimento del motivo esaminato seguono l’assorbimento del quarto e del quinto motivo, in quanto strettamente dipendenti;
– il sesto motivo è fondato;
– infatti, in sede di accertamento induttivo, l’Amministrazione finanziaria deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative del reddito, a condizione però che esse siano state dimostrate dal contribuente o che risultino in altro modo dagli accertamenti compiuti (cfr. Cass., ord., 28 dicembre 2017, n. 31024; Cass., ord., 19 aprile 2017, n. 9888; Cass. n. 22520 del 2013, n. 5192 del 2011, n. 14675 del 2006);
– in presenza di accertamento analitico o analitico presuntivo – reso manifesto dal contenuto degli atti dell’Ufficio – è il contribuente, a differenza del caso di accertamento induttivo «puro» ex art. 39, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che si possa o debba procedere al loro riconoscimento forfettario (così, Cass., ord., 26 settembre 2017, n. 22868);
– per quanto concerne poi, più specificamente, l’i.v.a., va rammentato che ai fini della detrazione consentita dall’art. 19, primo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, il contribuente è tenuto a dimostrare, oltre alla qualità di imprenditore, anche l’inerenza o strumentalità del bene (o servizio) acquistato all’attività imprenditoriale, senza alcuna particolare deroga ai comuni criteri in tema di onere della prova (cfr., ex multis, Cass. 31 gennaio 2013, n. 2362; Cass. 17 febbraio 2006);
– pertanto, in difetto di tali prove, l’abbattimento dei ricavi in ragione di costi non dimostrati non può essere operato presuntivamente e/o forfettariamente, come effettuato dal giudice di appello che ha stimato i costi di esercizio in misura pari al 75% dei ricavi accertati ritenendo congrua una remunerazione dell’azienda pari al 25% del reddito di esercizio;
– all’accoglimento del motivo esaminato seguono l’assorbimento del settimo e dell’ottavo motivo, in quanto strettamente dipendenti;
– infine, anche il nono motivo è fondato, poiché, essendo il processo tributario annoverabile tra quelli di «impugnazione-merito», in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Ufficio, il giudice, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (cfr. Cass. 28 giugno 2016, n. 13294; Cass. 28 novembre 2014, n. 25317; Cass. 19 novembre 2014, n. 24611);
– il ricorso incidentale proposto dalla società contribuente è inammissibile per carenza di interesse, non contenendo censure dirette contro una statuizione della sentenza di merito, ma risolvendosi nella riproposizione di questioni su cui il giudice di appello non si è pronunciato ritenendole assorbite (cfr. Cass. 22 settembre 2017, n. 22095; Cass. 15 gennaio 2016, n. 574);
– la sentenza impugnata va, dunque, cassata con riferimento ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, che provvederà anche al regolamento delle spese;
P.Q.M.
Accoglie il terzo, il sesto e il nono motivo di ricorso; respinge il primo e il secondo motivo e dichiara assorbiti i restanti motivi; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata con riferimento ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Veneto in diversa composizione.