CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 settembre 2019, n. 22100
Licenziamento – Assenza ingiustificata dal servizio – Sussistenza delle ragioni del trasferimento presso un altro ufficio
Premesso
che con sentenza n. 4476/2014, depositata il 3 luglio 2014, la Corte di appello di Napoli ha respinto il gravame di G.B. e confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva rigettato la domanda del lavoratore volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatogli da P.I. S.p.A., con lettera 6 aprile 2009, per assenza ingiustificata dal servizio;
– che la Corte di appello ha osservato a sostegno della propria decisione come il B. non potesse legittimamente invocare l’inadempimento del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 1460 cod. civ., posto che la società aveva dimostrato la sussistenza delle ragioni che avevano reso necessario trasferire il dipendente ad altro ufficio, come precisate nella memoria difensiva del primo grado di giudizio (e cioè l’affiancamento al suo responsabile per una successiva sostituzione), senza che potesse rilevare – alla stregua della citata giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 11984/20010) – il fatto che nella comunicazione di trasferimento in data 26 novembre 2008 tali ragioni fossero state diversamente indicate (assegnazione a mansioni di operatore di sportello);
– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore con tre motivi, cui ha resistito P.I. S.p.A. con controricorso;
Rilevato
che con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 cod. civ. e 2 I. n. 604/1966, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e degli artt. 2697 e 1460 cod. civ., il ricorrente censura la sentenza di appello per avere erroneamente interpretato la giurisprudenza richiamata, pervenendo a ritenere infondata l’eccezione di inadempimento, e per non avere valutato la documentazione allegata agli atti, ovvero la corrispondenza fra le parti attestante la richiesta, da parte del lavoratore, dei motivi del trasferimento;
– che con il secondo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. in relazione agli artt. 2103 e 2697 cod. civ., il ricorrente si duole che la Corte del merito abbia ritenuto provato quanto sostenuto nella memoria difensiva della società, vale a dire che il trasferimento sarebbe stato giustificato dall’esigenza di affiancare il responsabile dell’ufficio postale di destinazione in vista del suo prossimo pensionamento, peraltro sulla base di un’erronea valutazione delle risultanze delle prove testimoniali;
– che con il terzo, deducendo il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., il ricorrente si duole della mancata considerazione in sentenza di documenti decisivi per la risoluzione della controversia, costituiti dalla corrispondenza inoltrata a richiesta dei motivi posti alla base del trasferimento;
Osservato
che il primo motivo è, per una parte, infondato;
– che infatti la Corte territoriale si è uniformata, esattamente applicandolo, al principio di diritto, ancora di recente ribadito, per il quale “in tema di mutamento della sede di lavoro del lavoratore, sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l’indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia l’obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque dimostrare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento” (Cass. n. 807/2017; conf. Cass. n. 11984/2010, già richiamata in sentenza);
– che il motivo in esame risulta, per altra parte, inammissibile, in forza della preclusione di cui all’art. 348 ter, ultimo comma, cod. proc. civ. e a fronte di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato in data 26/10/2012, là dove sostanzialmente denuncia – come il secondo (cfr. sentenza impugnata, p. 14) – un vizio di motivazione, dietro lo schermo della violazione e falsa applicazione di norme di diritto;
– che in ogni caso deve essere confermato, quanto al primo e al secondo motivo, il principio, secondo il quale la censura di violazione dell’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 13395/2018); ancora quanto al primo e al secondo motivo, il principio, secondo cui il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto ma un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 n. 5 cod. civ. proc., nella nuova formulazione derivante dalle modifiche introdotte nel 2012 (Cass. n. 23940/2017);
– che, per le considerazioni già svolte, è inammissibile altresì il terzo motivo, con il quale anche formalmente viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 n. 5; né il ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive conformi);
ritenuto
conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;
– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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