CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 marzo 2022, n. 7476
Rapporto di lavoro – Domanda di pagamento di indennità – Responsabilità solidale tra committente e appaltatore – Ragioni di inammissibilità del ricorso per cassazione
Rilevato che
1. La Corte di appello di Caltanissetta, con separate ordinanze, ha dichiarato inammissibili ai sensi dell’art. 436 bis cod. proc.civ. gli appelli proposti nei confronti delle sentenze del Tribunale di Gela che avevano rigettato le domande tese ad ottenere la condanna delle appaltatrici del servizio di manutenzione elettrostrumentale E. s.r.l. e C. Soc.coop. a r.l. e della committente Raffineria di Gela s.p.a., in solido tra loro, al pagamento delle somme per ciascuno spettanti a titolo di indennità di mensa, indennità di presenza ed incidenza di tali istituti su ferie, festività, tredicesima e t.f.r. dal 2003 alla cessazione del rapporto nel maggio 2007.
2. Il giudice di appello nelle sue ordinanze ha ritenuto inammissibili le impugnazioni, ai sensi dell’art. 436 bis, 348 bis e 348 ter cod.proc.civ. in quanto non vi erano ragionevoli probabilità di accoglimento osservando specificatamente che la responsabilità solidale della Raffineria di Gela s.p.a. era stata esclusa sul rilievo che non era stata offerta la prova che la prestazione lavorativa era stata resa in esecuzione dell’appalto con la E. s.p.a.. Che infatti La E. s.p.a. aveva stipulato nello stabilimento Petrolchimico di Gela contratti di appalto anche con altre società committenti.
3. I lavoratori soccombenti, in epigrafe indicati, hanno proposto un unico ricorso per la cassazione avverso le sentenze di primo grado e le ordinanze di appello affidato a tre motivi. La curatela del fallimento E. s.r.I., la C. s.r.l. e la Raffineria di Gela s.p.a. sono rimaste intimate.
Considerato che
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 232 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.. Sostengono i ricorrenti che non sarebbe vero che in giudizio non era stata offerta la prova della prestazione lavorativa nell’appalto presso la Raffineria di Gela posto che il legale rappresentante della società, chiamato a rispondere sul punto con l’interrogatorio formale, non si era presentato a renderlo e, dunque, sia il giudice di primo grado che quello di appello, al quale era stato appositamente chiesto di darne atto, avrebbero dovuto ritenere ammessi i fatti che ne erano stati l’oggetto.
5. Con il secondo motivo di ricorso viene dedotto che in violazione dell’art. 245 c.p.c. e dell’art. 356 c.p.c., in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., il giudice di appello pur sollecitato in tal senso avrebbe trascurato di ammettere la prova, già ammessa ma poi non espletata in primo grado, che verteva proprio sulla prestazione dell’attività lavorativa nel servizio di manutenzione elettro strumentale oggetto dell’unico contratto di appalto della E. s.r.l. presso la raffineria di Gela.
6. Il terzo motivo di ricorso infine ha ad oggetto la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod.civ. e del principio dispositivo. Deducono i ricorrenti che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici del merito, non vi era alcun elemento di prova da cui desumere che la E. s.r.l. svolgesse opere e servizi diversi nell’ambito dello stabilimento petrolchimico e neppure che la cessione di ramo di azienda, successiva peraltro alla cessazione del rapporto dei ricorrenti, implicasse l’esistenza di altri contratti. Sostengono perciò che la Corte di appello avrebbe errato nel dichiarare inammissibile il gravame sul presupposto della sussistenza di fatti che invece erano del tutto esclusi dagli atti del giudizio così incorrendo nella violazione del principio dispositivo.
7. Il ricorso è inammissibile per una serie di concorrenti ragioni.
7.1. In disparte la circostanza che al ricorso non risultano allegate le sentenze dei giudizi di primo grado e ci si limita a depositare la richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio, va rilevato che i ricorrenti non solo non riportano il contenuto delle sentenze di primo grado ma neppure chiariscono quale era stato il contenuto delle censure formulate negli appelli risultandone estremamente generiche le censure formulate nel ricorso in cassazione. Il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 348 ter, quarto comma, cod. proc. civ., ha natura di ricorso ordinario, regolato dall’art. 366 cod. proc. civ. quanto ai requisiti di contenuto forma, e deve contenere, in relazione al n. 3 di detta norma, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, da intender come fatti sostanziali e processuali relativi sia al giudizio di primo grado che a quello di appello. Ne consegue che nel ricorso la parte è tenuta ad esporre, oltre agli elementi che evidenzino la tempestività dell’appello e i motivi su cui esso era fondato, le domande e le eccezioni proposte innanzi al giudice di prime cure e non accolte, o rimaste assorbite, trovando applicazione, rispetto al giudizio per cassazione instaurato ai sensi dell’art. 348 ter cod. proc. civ., le previsioni di cui agli artt. 329 e 346 del medesimo codice, nella misura in cui esse avevano inciso sull’oggetto della devoluzione al giudice di appello ciò anche al fine di evidenziare l’insussistenza di un giudicato interno sulle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità e già prospettate al giudice del gravame. (cfr. Cass. 17/04/2014 n. 8942, 28/09/2016n. 19060 e più recentemente Cass. 06/10/2020 n. 21369, 06/11/2020 n. 24946 e 03/12/2020 n. 27703).
7.2. A ciò si aggiunga che è del pari inammissibile il ricorso per cassazione, con il quale si contesti un “error in judicando”, contro l’ordinanza ex artt. 348 bis e ter c.p.c., motivata con la formulazione del giudizio prognostico di manifesta infondatezza nel merito dell’appello, per il sol fatto che essa, pur condividendo le ragioni della decisione appellata, contenga anche proprie argomentazioni, diverse da quelle prese in considerazione dal giudice di primo grado, perché tale possibilità è consentita dall’art. 348 ter, comma 4, c.p.c., che permette, in tal caso, l’impugnazione della sentenza di primo grado per vizio di motivazione, facoltà esclusa qualora le ragioni delle decisioni di primo e secondo grado siano identiche quanto al giudizio di fatto (Cass. 22/05/2019 n. 13835).
7.3. Da ultimo appare decisivo poi che le censure contenute nel ricorso sono rivolte alle ordinanze ex art. 436 bis e 348 bis primo comma c.p.c. della Corte di appello che hanno dichiarato inammissibili i ricorsi e non invece alle motivazioni delle sentenze di primo grado come è richiesto dal terzo comma dell’art. 348 ter. Il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado può essere proposto entro i limiti delle questioni già sollevate con l’atto di appello e di quelle riproposte ex art. 346 c.p.c., senza che possa assumere rilievo la diversa formulazione dei motivi, che trova giustificazione nella natura del ricorso per cassazione, quale mezzo di impugnazione a critica vincolata, proponibile esclusivamente per i vizi previsti dall’art. 360, comma 1, c.p.c. , non comportando la dichiarazione di inammissibilità dell’appello sostanziali modificazioni nel giudizio di legittimità, fatta eccezione per la necessità che l’impugnazione sia rivolta direttamente contro la sentenza di primo grado e per l’esclusione della deducibilità del vizio di motivazione. (Cass. 27/09/2018 n. 23320).
8. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Non occorre provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità atteso che nessuna delle parti intimate si è difesa. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va invece dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
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