CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 luglio 2021, n. 19753
Tributi – Accertamento induttivo – Rettifica reddito d’impresa – Gestione ritenuta antieconomica – Esclusione – Contabilità attendibile – Soci impiegati come lavoratori dipendenti
Fatti di causa
Con avviso di accertamento del 22.12.2010, notificato a L.R. s.r.l., l’Ufficio di Roma rettificò il reddito della società, il valore della produzione e gli imponibili per l’anno 2006, rispettivamente ai fini IRES, IRAP e IVA, così rideterminando le maggiori imposte accertate, oltre sanzioni ed interessi, e ciò avendo riscontrato un perdurante comportamento antieconomico della società stessa, svolgente attività di pizzeria-ristorazione. La società impugnò l’avviso con ricorso dinanzi alla C.T.P. di Rieti, che lo accolse con sentenza n. 157/01/12, depositata il 7.8.2012. La C.T.R. del Lazio, con sentenza del 13.5.2014, respinse l’appello dell’Agenzia, evidenziando che non poteva riscontrarsi l’antieconomicità della gestione, perché due dei quattro soci della compagine erano lavoratori a tempo pieno ed avevano dichiarato i relativi redditi percepiti dalla società stessa, e perché l’Ufficio non aveva dimostrato l’inattendibilità della contabilità, applicando meri parametri induttivi e supposizioni; nel resto, la C.T.R. ha dichiarato assorbita ogni altra considerazione delle parti.
L’Agenzia delle Entrate ricorre ora per cassazione, sulla base di tre motivi. La società intimata non ha resistito.
Ragioni della decisione
1.1 – Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. L’Agenzia rileva l’erroneità della decisione della C.T.R. nella parte in cui ha ritenuto che la società ha dimostrato l’attendibilità e validità della propria contabilità, sostanzialmente rifacendosi anche all’entità dei redditi dichiarati dai due soci lavoratori (su quattro complessivi). Evidenzia che l’accertamento analitico-induttivo, in presenza di un comportamento palesemente antieconomico del contribuente (quale è, nella specie, quello della società, che ha conseguito un reddito d’impresa, nel 2006, di appena € 18.889,00, a fronte di un volume d’affari pari ad € 418.320,00, reddito palesemente inferiore a quello di un lavoratore dipendente; ulteriore elemento critico è l’accertata sproporzione tra alcune delle spese sostenute, per pubblicità, dipendenti, ecc., rispetto all’utile di esercizio, pari a soli € 97,00), ben può giustificare la ricostruzione indiretta del volume d’affari, rideterminato in ulteriori € 51.356,00, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente.
1.2 – Con il secondo motivo, si lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. L’Agenzia si duole del mancato esame di una serie di fatti e circostanze (ossia: 1. l’avvio dell’attività di pizzeria-ristorante fin dal 1984; 2. la manifesta sproporzione tra reddito d’impresa e volume d’affari per l’anno 2006, nei termini già visti; 3. il costante trend negativo di detta sproporzione avuto riguardo al quadriennio 2004-2007; 4. la sproporzione tra alcuni costi sostenuti – per pubblicità, rappresentanza, personale dipendente, godimento di beni di terzi – rispetto all’utile d’esercizio) che palesavano il comportamento antieconomico della società, peraltro avendo anche confuso, la C.T.R., il reddito d’impresa dichiarato con l’utile d’esercizio.
1.3 – Con il terzo motivo, infine, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. L’Agenzia lamenta l’omessa valutazione, da parte della C.T.R., di altre circostanze fattuali pure dedotte e argomentate, quali l’incongruenza tra il numero delle giornate lavorative dei dipendenti, come indicato nello studio di settore e nel libro presenze, ovvero quella tra l’incidenza sui ricavi tra la vendita da asporto e quella ai tavoli, nonché il riscontro indiretto (a riprova della bontà dell’accertamento) derivante dal confronto tra le materie prime utilizzate (n. 48.526 basi di farina realizzate) e il numero di cartoni da asporto utilizzati (n. 29.505) e di tovaglioli mandati in lavanderia (n. 28.451).
2.1 – Il primo motivo è infondato.
Non è qui in discussione il fatto che il ricorso dell’Ufficio al metodo analitico- induttivo sia nella specie del tutto legittimo, giacché – proprio in tema di esercizi di ristorazione – è costante l’insegnamento per cui “L’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto legittimo, nonostante la contabilità aziendale regolarmente tenuta sul piano formale, l’accertamento, che, in via presuntiva, ha ricostruito i ricavi di un’impresa, operante nel settore della ristorazione, in base al consumo dei tovaglioli utilizzati, risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto e, per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adopera un solo tovagliolo, per cui il relativo numero è un fatto noto, anche da solo idoneo, da cui desumere il numero di pasti effettivamente consumati, una volta dedotti – cosiddetta percentuale di sfrido – i tovaglioli abitualmente utilizzati per altri scopi, come i pasti dei dipendenti)” (Cass. n. 20060/2014). Ovviamente, il ricorso a tale metodologia accertativa non chiude però definitivamente la partita in favore del fisco, giacché l’utilizzo del criterio inferenziale – trattandosi, nella specie, di presunzioni relative – determina soltanto l’inversione dell’onere della prova: “Nel giudizio tributario, una volta contestata dall’erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto – pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’amministrazione, ai sensi degli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972” (così, Cass. n. 6918/2013; conforme, Cass. n. 1282/2021). Correlativamente, quanto al contenuto della motivazione che il giudice di merito deve adottare al riguardo, ancora di recente s’è condivisibilmente affermato che “il tema di accertamento con metodo analitico induttivo, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari, per più annualità, un volume di affari inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta (nella specie, anche sottocosto) costituisce una condotta anomala, di per sé sufficiente a giustificare, da parte dell’Amministrazione finanziaria, una rettifica della dichiarazione, ai sensi degli artt. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, sicché il giudice tributario, per poter annullare l’accertamento, deve motivare con validi argomenti le ragioni che giustifichino il comportamento del contribuente, non esauribili nel richiamo alla mera libertà di impresa riguardo alla propria politica commerciale” (Cass. n. 15019/2020).
Ciò posto, a fronte della rideterminazione del reddito d’impresa ulteriore da parte dell’Ufficio nei termini già esposti, la C.T.R. ha affermato che – tenuto anche conto delle “materie prime, fattore lavoro, lavaggio tovaglioli, ecc.” – la società ha sufficientemente dimostrato l’attendibilità della propria contabilità, in particolare dovendo tenersi conto della circostanza che due dei quattro soci erano anche lavoratori, soggetti che per l’anno in questione hanno percepito redditi da lavoro dipendente per € 57.383,00 ciascuno, regolarmente soggetti all’IRPEF relativa. Nella sostanza, la C.T.R. ha ritenuto che l’apparente antieconomicità della gestione della contribuente si giustifichi col fatto che due dei quattro soci percepivano un reddito da lavoro alle dipendenze della società, così incrementandosi la consistenza dei costi fissi di gestione, ma con lo spostamento “a valle” del soddisfacimento delle ragioni erariali, ossia sulle componenti reddituali dei soci, anziché su quella sociale.
In proposito, ritiene la Corte come non sia riscontrabile alcuna violazione o falsa applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973, perché la C.T.R. ha affermato che la società ha fornito una adeguata giustificazione della accertata antieconomicità, così non invertendo l’onere della prova, ma ritenendolo regolarmente assolto da parte del soggetto che vi era tenuto per legge, ossia proprio la contribuente.
Né può venire qui in rilievo la correttezza del giudizio della C.T.R., sub specie di congruenza e profondità delle argomentazioni adottate in proposito (si veda la già citata Cass. n. 15019/2020): esclusa in ogni caso l’apoditticità della decisione, la valutazione giustificativa dell’antieconomicità della gestione espressa dal giudice d’appello avrebbe al più potuto denunciarsi sotto il profilo motivazionale (nei limiti in cui ciò è ancora possibile – v. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014), ma l’Agenzia non ha proposto una simile censura.
3.1 – Il secondo e il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente, sono anch’essi infondati.
Contrariamente all’assunto della ricorrente, non è affatto vero che la C.T.R. non abbia esaminato i fatti che si pretendono pretermessi. Si tratta, invero, di fatti interamente valutati, per escluderne la rilevanza, talvolta in modo esplicito (v. supra: “materie prime, fattore lavoro, lavaggio tovaglioli, ecc.”), talaltra implicitamente. A tal ultimo proposito, infatti, la C.T.R. ha affermato che “Ogni altra argomentazione sollevata dalle parti viene assorbita da questa in particolare, al culmine del ragionamento seguito dal giudice d’appello, l’attendibilità complessiva delle dichiarazioni fiscali dei soci e della società determina la superfluità della valutazione degli ulteriori argomenti fattuali (rispetto a quelli prima analiticamente esaminati) dedotti dall’Agenzia.
Pertanto, non può certo discutersi di omesso esame di fatti decisivi, perché quelli indicati dall’Agenzia con i mezzi in discorso sono stati valutati ed apprezzati dalla C.T.R., sia esplicitamente che implicitamente. E’ dunque evidente che può tutt’al più venire in rilievo, nella specie, l’erronea valutazione circa la rilevanza di tali fatti (ovviamente, nella prospettiva della ricorrente), il che si pone certamente al di fuori del perimetro del vizio denunciabile ai sensi del vigente art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
Va infine soggiunto che l’assorbimento dichiarato dalla C.T.R., nei termini sopra descritti, non è stato minimamente censurato dalla ricorrente.
4.1 – In definitiva, il ricorso è rigettato. Nulla va disposto sulle spese, la società essendo rimasta intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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