CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 luglio 2021, n. 19827
Tributi – Accertamento – Redditi d’impresa – Indagini bancarie – Versamenti in contanti su conto corrente
Fatti di causa
Con sentenza n. 235/5/2012 la Commissione Tributaria Provinciale di Avellino accolse, limitatamente alla esclusione dell’IRAP, e rigettò nel resto il ricorso proposto da D.M.F. contro l’avviso di accertamento con cui la Agenzia delle Entrate, sulla base di indagini bancarie sui conti correnti intestati al ricorrente ed in esito a contraddittorio procedimentale, aveva accertato, ai sensi degli artt. 39 comma 1 lett. d) del DPR n. 600 del 1973, il reddito di impresa di 58.000 euro ed il relativo volume di affari ai fini IVA per l’anno di imposta 2005, attribuendo valenza impositiva ai soli versamenti in contanti sui conti, previo scorporo di tutte le somme per cui il contribuente aveva fornito giustificazioni ritenute documentate, così determinando in conseguenza IRPEF, IRAP ed IVA e gli accessori.
Il contribuente aveva dedotto con il ricorso introduttivo, per quanto ancora interessa, che la tesi dell’Ufficio, secondo cui si sarebbe trattato dei proventi dell’attività illecita proveniente dalla commercializzazione di telefoni cellulari sottratti alla Spa C. presso la quale lavorava il D.M., in base ad indagini preliminari penali che erano in corso e su cui si era innestata la indagine sulla documentazione bancaria, era smentita dagli stessi atti investigativi che dimostravano la estraneità del contribuente a tali fatti; che in sede di risposta al questionario e di contraddittorio il contribuente aveva già dimostrato che i contanti versati nel proprio conto corrente nell’anno in contestazione, per l’importo di euro 291.400,00, provenivano da fondi privati che la propria madre conservava nella abitazione e che gli erano stati affidati con scrittura privata affinchè li gestisse; che erroneamente i pretesi redditi erano stati assoggettati anche ad IRAP ed IVA poiché l’IRAP presupponeva la autonoma organizzazione e l’IVA la prova di una attività commerciale con requisiti di abitualità e professionalità che non erano stati dimostrati dall’Ufficio; ma la Commissione Tributaria Provinciale di Pisa rigettò il ricorso – tranne che in relazione all’IRAP che fu esclusa per assenza della prova della autonoma organizzazione – rilevando che l’avviso di accertamento traeva origine dalle operazioni di versamento di contanti da parte del contribuente nel proprio conto corrente, con esclusione di altri versamenti e prelevamenti che non erano stati presi in considerazione dall’Ufficio ai fini della determinazione dei ricavi e che correttamente l’Ufficio li aveva sottoposti a tassazione ai sensi dell’art. 6 del DPR n. 633 del 1972 e del DPR n. 600 del 1973 in quanto redditi di impresa, trattandosi di proventi da attività non legalmente dichiarata dal contribuente, come poteva desumersi anche dalle investigazioni penali, mentre la tesi della provenienza dei contanti dalla cassetta di sicurezza che la madre del ricorrente avrebbe detenuto nella casa di abitazione non era sufficiente ad integrare la prova contraria poiché costituiva una mera asserzione di parte, priva di elementi giustificativi in merito alla provenienza degli importi.
Propose appello la Agenzia delle Entrate con riguardo alla esclusione dell’IRAP. Propose separato appello anche il contribuente, per la parte di propria soccombenza, ribadendo che aveva fornito la prova della provenienza dei contanti versati in conto corrente attraverso la scrittura privata avente data certa, costituita dall’apposizione del timbro postale, con cui la propria madre gli aveva commissionato l’investimento nell’interesse della famiglia e che la tesi della alternativa provenienza dei fondi dalla vendita dei telefonini sottratti alla società C. era smentita dalle investigazioni che dimostravano trattarsi di una operazione inesistente ideata da un terzo e riproponendo per il resto le questioni già sollevate in primo grado. Con sentenza n. 391/9/2013, riuniti i due appelli, la Commissione Tributaria Regionale della Campania- sezione distaccata di Salerno rigettò entrambi gli appelli. In proposito osservò, per quanto ancora interessa, che l’accertamento, basato sui versamenti di cospicui contanti sul conto corrente del D.M. era giustificato dalla presunzione legale ricavabile dall’art. 32, comma 1, n. 2, del DPR n. 600 del 1973, senza necessità di ulteriori riscontri, a nulla rilevando la indagine penale e la sopravvenienza, nelle more del giudizio di appello, della sentenza del tribunale penale di Avellino, depositata in data 5.7.2013, che aveva assolto il D.M., per non avere commesso il fatto, dalla appropriazione indebita di telefonini in danno della società C., poiché riguardava solo l’aspetto penalistico e, se pure fosse passata in giudicato, non avrebbe avuto alcuna efficacia vincolante, ai sensi dell’art. 654 cpp, nel processo tributario, in quanto questo conosceva limiti alla acquisizione della prova ed era governato da un regime di presunzioni, neppure se si fosse trattato di un reato tributario riguardante lo stesso fatto per il quale la Amministrazione Finanziaria aveva promosso l’accertamento; nella specie l’accertamento era comunque basato sulla verifica sui conti correnti, mentre la sentenza penale concerneva fatti privi di collegamento con la tipologia di accertamento operata dall’Ufficio, a nulla rilevando le indagini penali che potevano avere determinato lo stimolo alla Agenzia delle Entrate alle verifiche sui conti correnti, poiché l’accertamento restava autonomo rispetto all’iniziale investigazione penale e, nel contempo, il contribuente non aveva fornito elementi idonei a vincere la presunzione legale applicata dall’Ufficio, considerato che gli scritti provenienti da terzi potevano costituire meri indizi liberamente valutabili dal giudice di merito, che, nella specie, restavano soccombenti rispetto agli altri elementi di giudizio per cui la scrittura privata proveniente dalla madre dell’imputato era priva di autenticazione e di data certa e non era accompagnata dalla prova della tracciabilità della ingente somma di danaro che era transitata in contanti nel conto corrente del ricorrente. La CTR ritenne infine che l’IVA fosse dovuta poiché i redditi erano stati correttamente ritenuti di impresa ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. e, del DPR n. 917 del 1986, sia perché il D.M. non aveva fornito alcuna prova della diversa provenienza delle somme, sia perché la ricostruzione dei movimenti bancari, in considerazione del carattere abituale dei versamenti in contanti e delle concrete modalità e del contenuto delle operazioni di volta in volta poste in essere dal contribuente, dimostravano trattarsi di redditi ai quali era applicabile l’IVA.
Contro la sentenza di appello depositata in data 27.12.2013, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, con atto notificato in data 4.6.2014, affidato a quattro motivi e successiva memoria, cui ha resistito con controricorso la Agenzia delle Entrate.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc, violazione o falsa applicazione dell’art. 6, comma 1, lett. e) f) del DPR n. 917 del 1986 per avere l’accertamento impugnato, pur fondato sul presupposto che i versamenti in contanti effettuati dal D.M. sul proprio conto corrente rappresentassero i proventi della commercializzazione di telefoni cellulari sottratti alla Spa A.C., poi erroneamente classificato i ricavi fra i redditi di impresa ai sensi della lettera e) della norma citata, ottenuti applicando ai ricavi una redditività media per il settore di telefonia del 20%, anziché fra i redditi diversi di cui alla successiva lett. f) che ricomprende i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, con conseguente applicazione dell’art. 14 comma 4 bis della legge 24.12.1993 n. 537 che non ammette in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato.
2. Con il secondo motivo si duole, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cpc, di omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione fra le parti, costituito dalla sentenza n. 634 del 3.4.2013 del Tribunale Penale di Avellino, sopravvenuta nelle more del giudizio di appello e portata all’esame dei giudici di appello con una memoria integrativa, con cui il D.M. era stato assolto per non avere commesso il fatto dal reato di sottrazione dei cellulari alla Spa C. per mancanza di elementi indiziari per affermare il coinvolgimento dell’imputato nella sottrazione, il che avrebbe dovuto imporre alla Commissione Tributaria Regionale di esaminare tale fatto decisivo su cui le parti avevano fondato in via esclusiva le tesi contrapposte.
3. Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 54, 55, 56, commi 2 e 5 del DPR n. 633 del 1972, in relazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, cpc, per non avere la Commissione Tributaria regionale chiarito per quali motivi i versamenti in denaro effettuati dal D.M. sul proprio conto dovessero essere assoggettati all’IVA, in particolare spiegando quale attività di impresa avrebbe esercitato il contribuente, considerato che la assoluzione penale si poneva in insuperabile contrasto con la presunzione ed anche con la ipotesi che si trattasse di attività di commercializzazione dei telefoni sottratti alla società C..
4. Infine, con il quarto motivo il ricorrente sostiene, sempre in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc, violazione o falsa applicazione dell’art. 32 comma 1 n. 2 del DPR n. 600 del 1973, in ordine alla valutazione del documento prodotto in giudizio con cui il contribuente aveva giustificato i versamenti, costituito da una scrittura privata con cui la propria madre gli aveva conferito mandato ad amministrare un importo massimo di 300.000 euro, documento che costituiva, ad avviso del ricorrente, una valida prova contraria alla presunzione legale invocata dall’Ufficio che erroneamente l’Ufficio non aveva ritenuto tale.
5. Il ricorso è infondato.
6. Il primo motivo non deduce in primo luogo vizi della sentenza impugnata, bensì vizi dell’accertamento, dal che discende la sua inammissibilità in quanto, in tema di ricorso per cassazione, il principio di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 4 c.p.c. richiede per ogni motivo l’indicazione della rubrica, la puntuale esposizione delle ragioni per cui è proposto nonché l’illustrazione degli argomenti posti a sostegno della sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo, come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della pronunzia (v., per tutte, Cass. Sez. L – , Ordinanza n. 17224 del 18/08/2020 Rv. 658539 – 01). Infatti il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile anche la critica generica della sentenza impugnata, formulata con motivi non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (v. Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11603 del 14/05/2018 Rv. 648533 -01); come nel caso in esame in cui addirittura nessuna critica viene mossa alla sentenza sul punto.
6.1. Comunque tale questione non è mai stata dedotta nel giudizio di merito ed in particolare nel ricorso introduttivo del giudizio (che è stato trascritto integralmente nel ricorso per cassazione) per cui il motivo è inammissibile anche sotto tale profilo essendo stata dedotta la questione della erronea qualificazione del reddito, operata dall’accertamento, per la prima volta in sede di legittimità.
6.2. In ogni caso la sentenza impugnata, pur non investita della questione della qualificazione dei redditi come redditi “diversi”, ha spiegato i motivi per cui ha ritenuto trattarsi di redditi di impresa, in quanto i fatti insiti nella denuncia penale contro ignoti sporta dalla avevano costituito soltanto lo spunto per le successive indagini finanziarie sulle quali era basato l’accertamento dell’Ufficio in via esclusiva. E tale qualificazione appare corretta alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte per cui “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari vanno ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, se il titolare del conto non fornisca adeguata giustificazione, a prescindere dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una determinata attività e dalla natura lecita o illecita dell’attività stessa” (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 10578 del 13/05/2011 Rv. 618084 — 01; Cass. Sez. 5-, Ordinanza n. 29572 del 16/11/2018 Rv. 651421 — 01; conforme Sez. 5-, Sentenza n. 1519 del 20/01/2017 Rv. 642454 – 01).
6.3. E’ opportuno aggiungere che la scelta della tipologia di accertamento costituisce una opzione incensurabile spettante all’Ufficio, in presenza di diverse tipologie astrattamente applicabili, salvo che il contribuente dimostri un preciso interesse alla applicazione di una certa opzione in luogo di altra; per cui nessuna doglianza appare prospettabile da parte del contribuente nel caso in cui l’Ufficio abbia scelto di operare l’accertamento mediante il metodo della verifica dei conti correnti bancari, ai sensi dell’art. 39 comma 1 lett. d) del DPR n. 600 del 1973, il che dispensava dalla verifica della provenienza da reato dei proventi confluiti nei conti, mentre il contribuente ha usufruito del vantaggio della detrazione dei costi che non sarebbe spettato in caso di proventi da reato e cioè di qualificazione dei redditi come proventi da attività illecita, così come prospettato dal contribuente che sarebbe stato da ciò svantaggiato (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 5273 del 22/02/2019 Rv. 652785 — 01).
7. Il secondo motivo, con cui si deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che ha costituito oggetto di contestazione fra le parti e che sarebbe integrato dalla sopravvenuta sentenza penale, è inammissibile, in primo luogo perché la sentenza di appello – il cui contenuto è stato riassunto nella parte espositiva – ha preso dettagliatamente in esame la sentenza penale di assoluzione del contribuente per non avere commesso dal reato di appropriazione indebita dei cellulari appartenenti alla ditta presso cui lavorava ed ha ritenuto tale pronuncia irrilevante nel presente giudizio per più ordini di ragioni — e cioè perchè la assoluzione riguardava solo l’aspetto penalistico e, se pure fosse passata in giudicato, non avrebbe avuto alcuna efficacia vincolante, ai sensi dell’art. 654 cpp, nel processo tributario, in quanto questo conosceva limiti alla acquisizione della prova ed era governato da un regime di presunzioni, neppure se si fosse trattato di un reato tributario riguardante lo stesso fatto per il quale la Amministrazione Finanziaria aveva promosso l’accertamento, mentre nella specie l’accertamento era comunque basato sulla verifica sui conti correnti ed a nulla rilevavano le indagini penali che potevano avere determinato soltanto lo stimolo alla Agenzia delle Entrate alle verifiche sui conti correnti, una volta che l’accertamento restava autonomo rispetto all’iniziale investigazione penale – che non sono state neppure contestate con il ricorso per cassazione, il quale si è limitato a sostenere, erroneamente, che da tale assoluzione sarebbe venuto meno l’accertamento e cioè un eventuale vizio di violazione di legge, del tutto estraneo a quello dedotto nella specie ai sensi del n 5 dell’art. 360 cpc.
7.1. Neppure il vizio di violazione di legge sarebbe peraltro sostenibile alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte, di cui ha fatto corretta applicazione la sentenza impugnata, in virtù della quale neppure la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa addirittura con la formula “perché il fatto non sussiste”, potrebbe spiegare automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, mentre può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17258 del 27/06/2019 Rv. 654693 — 01); e ciò in quanto nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna, con la conseguenza che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie, ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio tributario, cosicchè l’atto impositivo resterà fermo e fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati fino a prova contraria nel giudizio tributario (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 28174 del 24/11/2017 Rv. 646971 —01; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 16262 del 28/06/2017 Rv. 644927 — 01; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19786 del 27/09/2011 Rv. 619306 — 01).
7.2. Nel caso in esame la sentenza penale di assoluzione, di cui peraltro non risulta provato neppure il passaggio in giudicato, in base a quanto dedotto dal ricorrente, riguardava la imputazione a carico di più soggetti per appropriazione indebita di telefoni cellulari appartenenti alla ditta per la quale lavoravano (che si assumeva essere stati poi rivenduti in proprio da coloro che li avevano sottratti) per cui la assoluzione del solo ricorrente per non avere commesso il fatto, peraltro commesso da altri, nessuna influenza poteva avere sulla legittimità dell’accertamento che era basato esclusivamente sulle movimentazioni dei conti correnti bancari del contribuente sui quali erano confluite nell’anno in considerazione somme notevoli versate con continuità e con abitualità dal contribuente così da rendere applicabile la presunzione legale che si trattasse di ricavi provenienti da una attività commerciale “in nero”, il che appariva supportato pure “dalle concrete modalità e contenuto delle operazioni di volta in volta poste in essere dal contribuente” (pag. 9 della sentenza impugnata).
7.3. Sul punto appare poi irrilevante l’assunto del ricorrente, contenuto nella memoria difensiva, per cui avrebbe dimostrato nel giudizio di appello il passaggio in giudicato della sentenza penale di assoluzione nei suoi confronti, poiché ciò è smentito dalla sentenza di appello e non vi è prova del fatto ed in ogni caso la sentenza di appello ha sostenuto la irrilevanza della eventuale assoluzione, pur se fosse derivata da un giudicato penale.
8. E’ infondato anche il terzo motivo di appello, con cui si deduce che il giudice del merito avrebbe dovuto escludere la applicabilità dell’IVA, così come aveva escluso quella dell’IRAP, sul presupposto che non era provata una vera e propria attività di impresa per mancanza di elementi certi che consentissero dimostrato l’esercizio, da parte del contribuente, di una attività produttiva di IVA.
8.1. In tema di accertamento dell’IVA, l’art. 51, secondo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 consente all’amministrazione finanziaria di rettificare su basi presuntive la dichiarazione del contribuente utilizzando i dati relativi ai movimenti su conti bancari; si tratta di una presunzione legale di carattere relativo, in quanto è ammessa la prova liberatoria da parte del contribuente, al quale resta garantito il diritto di difesa, potendo egli far valere le sue ragioni in sede contenziosa a norma dell’art. 32 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, depositando documenti e memorie. Nella specie, non solo l’Ufficio aveva invitato il contribuente nella fase procedimentale a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine ai versamenti nel proprio conto corrente di rilevanti somme in contanti (circa 300.000 euro in anno) scaglionate periodicamente, ma aveva poi attivato pure il contraddittorio articolato in più incontri onde consentire al contribuente il massimo diritto di difesa ed, a seguito delle giustificazioni addotte dal contribuente, aveva ritenuto trattarsi di proventi da una attività commerciale “in nero” svolta dal contribuente che esercitava in ambito famigliare una attività proprio di vendita di apparati elettrici, spiegando le ragioni da cui aveva desunto che si trattasse di esercizio abituale di attività commerciale, per cui gravava su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 18421 del 16/09/2005 Rv. 583673 — 01; Sez. 5 -, Ordinanza n. 24422 del 05/10/2018 Rv. 650526 – 02).
8.2. D’altronde, in tema di accertamento tributario relativo sia all’imposizione diretta che all’IVA, la legge – rispettivamente art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 ed art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 – dispone che l’esistenza di attività non dichiarate ovvero l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove “certe”. Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e ss. e 2697, comma 2,c.c. (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14237 del 07/06/2017 Rv. 644435 — 01); per cui la valutazione del giudice di merito in ordine alla qualificazione dei versamenti come proventi di attività di impresa, in quanto costituente un giudizio di merito fondato su elementi specificamente indicati non può essere impugnato in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di legge invocata dal contribuente.
9. Infine, pure il quarto motivo è infondato poiché, ancora una volta sotto il profilo della violazione di legge si contesta in realtà la valutazione della pretesa prova contraria dedotta dal contribuente, il che non attiene alla violazione dell’art. 32, comma 1 n.3, del DPR n. 600 del 1973.
9.1. Il contribuente aveva giustificato i versamenti attraverso una scrittura privata non autenticata con cui la propria madre gli avrebbe conferito mandato ad amministrare un importo massimo di 300.000 euro, documento che costituiva, ad avviso del ricorrente, una valida prova contraria alla presunzione legale invocata dall’Ufficio. Però già dal contenuto del motivo risulta evidente che non viene dedotta una violazione dell’art. 32 del DPR n. 600 del 1973, il quale si limita a prevedere una metodologia di indagine sulla cui base l’Ufficio può poi emettere un accertamento secondo una delle tipologie previste dai successivi articolo del DPR n. 600 del 1973 e dal DPR n. 633 del 1972 e neppure una violazione della regola di distribuzione dell’onere probatorio (considerato che il contribuente non contesta il valore di presunzione legale dei versamenti in contanti nel conto corrente e della attribuzione al contribuente dell’onere della prova contraria), mentre il contribuente lamenta una erronea valutazione della prova contraria costituita dalla scrittura privata, alla quale prima l’Ufficio e poi i giudici di merito non avevano attribuito la capacità di integrare la prova contraria alla presunzione legale e cioè una erronea valutazione della prova contraria da parte del giudice di merito.
9.3. Peraltro, una volta ritenuto corretto il principio di diritto applicato dal giudice del merito, il problema si sposta sull’affermazione del giudice del merito per cui il contribuente non aveva contrapposto alcun valido elementi contrario, ossia non avrebbe vinto la presunzione relativa posta dalla citata norma. Si tratta, quindi, come è evidente, di un tipico apprezzamento di merito derivante dalla valutazione delle risultanze istruttorie, non censurabile per cassazione se non sotto il profilo del vizio motivazionale risolvendosi esso in un giudizio sul fatto (Cass. n. 24434/2016; Cass. n. 23940/2017).
9.4. L’errore di valutazione della prova non avrebbe potuto comunque essere dedotto, nel caso di specie, neppure sotto il profilo di vizio della motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 5 cpc, poichè l’omesso esame di fatti decisivi riguarda i fatti storici e non gli argomenti, per cui la pretesa violazione di motivazione ex art. 360, 1° co., n. 5, c.p.c. – tenuto conto del fatto che è applicabile nella specie, ratione temporis, la nuova formulazione risultante dalla modifica di cui al D.L. n. 13 del 2012, convertito dalla legge n. 43 del 2012, poiché la sentenza di appello è stata pubblicata in data 27.12.2013 — si pone in contrasto con l’indirizzo di questa Corte (Cass. n. 21152/14), secondo cui tale disposizione, già nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, prevede l’«omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione», come riferita ad «un fatto controverso e decisivo per il giudizio» ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a «questioni» o «argomentazioni» che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate. La censura s’infrange ora anche contro il principio di diritto, applicabile ratione temporis (e cioè con riguardo al testo novellato ancora nel 2012 dell’art. 360, 1° co., n. 5, c.p.c.), secondo il quale la riformulazione di questa norma dev’essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053 e 8054 nonché, tra varie, ord. 9 giugno 2014, n. 12928 e sez.un. 19881 del 2014). E, sul punto, ha ulteriormente precisato questa Corte (Cass., sez. un., 10 luglio 2015, n. 14477), che la nuova previsione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. legittima solo la censura per l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le partì, non essendo invece più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (v. Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 Rv. 652549 — 02); come nel caso in esame in cui è stata escluso qualsiasi valore probatorio alla dichiarazione prodotta in giudizio dal contribuente poiché non era certa la provenienza e neppure la data e comunque mancava la “tracciabilità” dell’ingente somma di denaro che era confluita periodicamente ed abitualmente, sempre in contanti, nel conto corrente del ricorrente, senza che fosse stato possibile accertarne la provenienza.
10. Quanto alla memoria difensiva depositata dal contribuente in vista della adunanza camerale, con cui si deduce per la prima volta che la sentenza della CTR è stata stesa dallo stesso magistrato che, in funzione di Pubblico Ministero, aveva svolto le indagini penali e firmato il decreto di citazione a giudizio di D.M. per il furto dei telefonini, la stessa è all’evidenza inammissibile in considerazione della sede in cui è dedotta la doglianza, essendo la memoria illustrativa deputata ad illustrare motivi già proposti e non anche a dedurre motivi nuovi. In ogni caso, in difetto di ricusazione, la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del giudice non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa, giacché l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo (tra i quali, appunto, l’imparzialità e terzietà del giudice), ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle parti, non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire, nell’ipotesi anzidetta, l’imparzialità e terzietà del giudice tramite gli istituti dell’astensione e della ricusazione; né detti istituti, cui si aggiunge quello dell’impugnazione della decisione nel caso di mancato accoglimento della ricusazione, possono reputarsi strumenti di tutela inadeguati o incongrui a garantire in modo efficace il diritto della parti alla imparzialità del giudice, dovendosi, quindi, escludere un contrasto con la norma recata dall’art. 6 della Convenzione EDU, che, sotto l’ulteriore profilo dei contenuti di cui si permea il valore dell’imparzialità del giudice, nulla aggiunge rispetto a quanto già previsto dal citato art. 111 Cost. (v. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21094 del 11/09/2017 Rv. 645706— 01).
11. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e – fermo restando il regolamento delle spese disposto dal giudice del merito – il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo in favore dell’Agenzia delle Entrate.
Sussistono i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato a norma del comma 1 bis dell’art.13 comma 1 quater d.PR n.115/2002, essendo stato il ricorso notificato il 4 giugno 2014.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore della Agenzia delle Entrate che liquida in euro 5.600,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto
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