CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 agosto 2021, n. 22982
Tributi – Condono – Diniego – Sottoscrizione – Validità
Rilevato che
1. L’Agenzia delle entrate rendeva esecutivo il ruolo n. 2000/003681 (concernente l’imposta di registro, tassa circolazione auto, Iva e relative sanzioni ed interessi per euro 14.541,18) relativo all’anno 1996, rispetto al quale E.C. presentava istanza di rottamazione dei ruoli.
In data 1.06.2010, la Direzione provinciale di Torino notificava il mancato perfezionamento del condono di cui all’art. 12 della L. n. 289/2002, la cui domanda era stata presentata con riferimento al ruolo per tasse auto e per Iva relativi all’annualità 1996.
Il rigetto era motivato sulla base della inapplicabilità del condono alle tasse di circolazione, mentre per quanto riguarda il ruolo relativo all’Iva, si assumeva che l’omesso versamento della seconda rata aveva impedito il perfezionamento del condono. Il contribuente impugnava il diniego eccependone la decadenza e vizi dell’atto.
La CTP di Torino respingeva il ricorso. Proposto appello, il contribuente chiedeva la declaratoria di cessazione della materia del contendere per aver richiesto la definizione della lite pendente ai sensi dell’art. 39 comma 12 d.l. n. 98/2011.
La CTR del Piemonte respingeva il gravame sia per la non definibilità della lite ex art. 39 cit., sia per la fondatezza del diniego di condono ex art. 12 cit.
Il contribuente articola quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n.552/31/14 depositata l’il aprile 2014 della CTR del Piemonte, che aveva confermato il provvedimento di diniego.
L’Agenzia delle entrate ha svolto difese con controricorso.
Considerato che
2. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 36 bis, 43 e 57 del d.P.R. n. 600/73, nonché degli artt. 19, lett.h) e 62 del d.lgs. n. 546/92 e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art.360 comma 1, nn.3) e 5), c.p.c.; per avere i giudici regionali affermato che la tardività delle iscrizione a ruolo doveva essere fatta valere con l’impugnazione delle cartelle entro sessanta giorni dalla notifica, escludendo poi la decadenza dal potere di negare il condono.
Al riguardo, insiste il contribuente in ordine alla natura liquidatoria dell’attività ex art. 36 bis per la riscossione delle somme non versate, con la conseguenza che avendo presentato la domanda di condono il 3 luglio 2003, doveva considerarsi tardivo, rispetto alla data del 31 dicembre 2005 (secondo anno successivo a quello in cui è presentata la dichiarazione di rottamazione), il diniego notificato il primo giugno 2010.
3. Con la seconda censura si lamenta la violazione dell’art. 7, periodo secondo del comma 1, della l. n. 212/2000, nonché degli artt. 19, lett. h) e 62 del d.lgs. n. 546/92, dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art.360 comma 1, nn.3) e 5), c.p.c., reiterando le critiche esposte con il primo motivo, ritenendo inconferente il riferimento del decidente ai crediti già definitivamente accertati ed erroneo l’affermazione che in assenza di previsione di un termine specifico di decadenza, trova applicazione il termine decennale ordinario che decorre dalla data della notifica delle cartelle ( settembre 2001 e gennaio 2002), deducendo per entrambi i motivi la nullità della sentenza per omessa motivazione.
4. Il terzo motivo prospetta le medesime violazioni di legge di cui al secondo mezzo, deducendo che il perfezionamento del condono di cui all’art. 12 della I. 289/2002 si verifica con il pagamento della prima rata, in assenza di una espressa norma che sanzioni l’omesso pagamento di una o più rate, fermo restando l’onere di versare la prima rata ai fini del perfezionamento. Insistendo, anche sotto detto profilo, in merito alla carenza o apparenza di motivazione della sentenza impugnata.
5. In via subordinata, il contribuente chiede accertarsi la validità del condono proporzionalmente alle rate pagate tempestivamente nella misura dell’80%.
6. Con l’ultimo mezzo, si deduce la violazione dell’art. 12, comma 4, d.P.R. n. 602/73, dell’art. 62 d.lgs. n. 546/92, dell’art. 2 d.M. n. 231/99, dell’art. 4 del d.lgs. N. 165/2001, degli artt. 19 e 53 d.lgs. n. 300/99, nonché dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, nn. 39 e 5), c.p.c.; per avere il giudicante escluso la nullità del diniego di condono sottoscritto da soggetto delegato dal Direttore, senza accertare se il delegato avesse la funzione dirigenziale.
7. Le prime due censure, involgendo analoghe questioni, possono essere scrutinare congiuntamente.
Esse sono destituite di fondamento.
7.1. Preliminarmente giova precisare che la sovrapposizione degli argomenti addotti dal ricorrente, operanti un’irrituale ed equivoca commistione tra figure giuridiche diverse, quali la violazione di legge e la motivazione apparente, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, in quanto rischia di pregiudicare l’intelligibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità (v. S.U. n. 967/2017; Cass. n. 21297/2016; 8009/2019).
7.2. Ciò posto, e qui la censura non colpisce nel segno, il provvedimento impugnato è un diniego di definizione agevolata di rapporti tributari ex art. 12 I. 289/2002, che è atto ben diverso dalla cartella di pagamento che sulla base di esso viene, poi, emessa, al netto dei pagamenti parziali effettuati. Il diniego di condono, infatti, lungi dal contenere una pretesa erariale, è, invece, un provvedimento negativo in ordine ad una istanza del privato, che nella fattispecie intendeva accedere ad un beneficio. Ad esso, quindi, non può applicarsi le disposizioni dell’art. 36-bis ovvero dell’art. 43 bis del d.P.R.600/73 evocate dalla ricorrente.
D’altra parte alla inconfigurabilità di una ipotesi di decadenza del potere di emanare l’atto di diniego, concorre il rilievo che la disciplina fiscale in esame non prevede alcuna ipotesi di decadenza per la procedura demenziale.
E la natura eccezionale dell’istituto, che ne richiede una previsione espressa, esclude anche che si possa far riferimento ed applicazione di altre norme dell’ordinamento tributario generale che la prevedano per casi simili.
Vien da sé che, in difetto di previsioni dirette a disciplinare sotto il profilo diacronico l’esercizio del potere qui considerato, deve farsi esclusivo riferimento alla regola generale della prescrizione ordinaria decennale, che dagli atti risulta essere stata debitamente interrotta dall’Amministrazione finanziaria (Cass. n. 27806/2019; n. 177796/2018; n . 8772/2017).
Ovviamente, alcuna censura può essere proposta con riferimento all’eventuale decadenza dal potere dall’iscrizione a ruolo, essendo decorso il termine per l’impugnazione delle cartelle.
8. Parimenti infondato è il terzo motivo.
Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, la definizione agevolata ai sensi dell’art. 12 l. n. 289/2002 è un provvedimento demenziale che si perfeziona solo se si provvede all’integrale pagamento del dovuto nei termini e nei modi previsti dalla medesima disposizione. Per cui l’effetto estintivo dell’obbligazione di pagamento ai sensi della normativa agevolativa è unicamente ricollegato a tale puntuale adempimento (Cass. n. 30/10/2019, n. 27806; 09.06.2017 n. 14373; 10.11.2014 n.23792). Il pagamento parziale, infatti, non fa venir meno l’illiceità della condotta, neppure limitatamente alle somme parzialmente corrisposte, ma, al contrario, porta ad emersione il definitivo ed originario inadempimento dell’obbligazione tributaria, legittimando la pretesa dell’Amministrazione finanziaria commisurata all’intero importo dell’imposta non versata nei termini di legge, delle sanzioni e degli interessi (Cass. n. 31133/2017 ord. e n.26683/2016, 14749/2012), per le quali essa è legittimata ad emettere cartella di pagamento.
Con la conseguente inconsistenza del motivo subordinatamente proposto dal ricorrente.
9. Infine, l’ultima censura non coglie nel segno.
La CTR ha affermato che l’atto era stato sottoscritto da funzionario delegato dal direttore nelle specifiche competenze, rilevandone dunque la legittimità della sottoscrizione.
Il ricorrente critica detto capo della decisione, sostenendo che non era suo onere dimostrare che il soggetto sottoscrittore fosse privo della qualifica dirigenziale.
Sennonché, in tema di accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, primo e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, cioè da un funzionario, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalita dell’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito dalla l. n. 44 del 2012 (Cass. n. 5077/2020; Cass. n. 11013 del 2019; n. 19190 del 2019).
Pertanto, la circostanza che il sottoscrittore fosse privo della qualifica dirigenziale risulta assolutamente inconferente, come chiarito dalla CTR del Piemonte.
In ogni caso, non va sottaciuto che la provenienza di un atto (nella specie, un diniego di condono) dall’Agenzia delle Entrate e la sua idoneità a rappresentarne la volontà si presumono finché non venga provata la non appartenenza del sottoscrittore all’Ufficio o, comunque, l’usurpazione dei relativi poteri( Cass. n. 220/2014).
In tema d’imposte sui redditi, la nullità per la carenza di sottoscrizione del capo dell’ufficio o altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato è prevista per l’avviso di accertamento, a norma degli artt. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973; mentre, in mancanza di una sanzione espressa, per la cartella esattoriale, il diniego di condono, l’avviso di mora e l’attribuzione di rendita, opera la generale presunzione di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato ( Cass. n. 5200 del 2018; Cass. n. 27871 /2018).
La previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell’avviso di accertamento trova giustificazione nel fatto che gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione del potere impositivo, incidendo con particolare profondità nella realtà economica e sociale.
Le qualità professionali di chi emana l’atto costituiscono quindi una essenziale garanzia per il contribuente (v. Cass. n. 1875 del 2014 e, da ultimo, Cass. n. 22800 del 2015);
– solo in diversi contesti fiscali – quali ad esempio il diniego di condono (Cass. 11458/12 e 220/14), l’avviso di mora (Cass. 4283/10), l’attribuzione di rendita (Cass. 8248/06), in mancanza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato (cfr., in materia di lavoro e previdenza, Cass. 13375/09, ordinanza ingiunzione, e 4310/01, atto amministrativo).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Al rigetto consegue la condanna alle spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in € 2.200,00, oltre spese generali in misura forfettaria, 200,00 euro per spese ed oneri di legge se dovuti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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